lunedì 15 aprile 2024

MODA & MODI

 diet_prada: sono aspirazionale, non stupido 




 

Un paio di flip flop di Chanel in gomma a 975 dollari. Una microgonnapantaloncino (dicesi skort) di Gucci (“neanche un metro di tessuto”) a 2600. Diecimila 400 per un cestino di vimini firmato Hermès, di cui non puoi scegliere il colore (“sarà una sorpresa”, galvanizza la descrizione). Infine l’abito color caramello di Chemena Kamali, designer debuttante da Chloé, che svetta oltre i 26mila dollari.


La denuncia di diet_prada su Instagram ha scatenato una tempesta di commenti in rete. Titolo: “Il lusso nella moda sta per risvegliarsi bruscamente?” Sotto, foto dei prodotti con relativo prezzo. Se ci fosse la gonna-asciugamano di spugna di Balenciaga a più di 600 dollari il catalogo sarebbe completo: pezzi che si assomigliano da un brand all’altro, fatti in serie, senza materiali nè ricerca, dove l’heritage del fondatore, come ai modaioli piace chiamare il patrimonio di artigianalità, esclusività, sapienza manuale, si è perso completamente. Non c’è da stupirsi, denuncia diet_prada, che, dopo l’impennata post pandemia, quando il bisogno di gratificarsi e l’ubriacatura di ritrovata libertà avevano fatto schizzare in alto le vendite, il lusso sia in costante flessione e lo stesso colosso Kering preveda un meno venti per cento nei ricavi.


I commenti sotto il post tracciano il profilo di quello i brand stanno perdendo: il cliente “aspirazionale”. Chi è? La definizione sembra alludere a qualcuno che vorrebbe ma non può, che aspira ma non raggiunge: è così e non necessariamente in senso negativo. Non dunque il super ricco, indifferente al cartellino del prezzo e della composizione, ma un acquirente con una buona capacità di spesa, che in passato comprava il più abbordabile universo intorno al top di gamma. Non la Birkin di Hermès, ma la cintura, il foulard, il portamonete, il portachiavi della stessa griffe, che con questo mercato guadagnava parecchio.


Oggi l’aspirazionale si sente preso in giro e lo dice senza perifrasi. Un logo di lusso non garantisce qualità. Gli artigiani delle origini, e il loro patrimonio da tramandare di padre in figlio, non esistono più, nemmeno come memoria. Esistono i colossi, che hanno fatto del nome un logo spersonalizzato, ubiquo, spesso sproporzionato come il costo (c’è più CHANEL che gomma in quelle ciabatte...). E poi la beffa: ti vendo una spugna a centinaia di euro, sei tu che non la capisci. Una merda d’artista alla Piero Manzoni, ma senza alcuna carica dissacratoria.


L’aspirazionale guarda all’aspetto etico. Che lusso è se viene prodotto da lavoratori schiavizzati in paesi lontani (vedi Loro Piana, del gruppo LVMH di Arnault, accusato di sfruttare i tosatori peruviani per maglioni a 9mila dollari) o sotto i nostri occhi (il caporalato contestato dai giudici ad Armani Operations), vandalizzando l’ambiente? Ma il concetto che ricorre più spesso è quello del tempo, di chi aspetta e di chi realizza l’oggetto del desiderio. Il tempo dell’aspirazione e della confezione hanno lo stesso valore, il secondo non può bruciare il primo in nome del business. E poi le fonti: il lusso è conoscere le mani di chi l’ha creato. 

domenica 14 aprile 2024

IL MUSICAL

Gabriella Slade e i costumi di Six

Tra storia e pop, hanno vinto un Tony Award 


Six di Toby Marlow e Lucy Moss


 

Sei regine rock. Immediatamente riconoscibili dai colori e dalla silhouette. Sei donne che portano su di sé il peso della storia e la condivisione di un uomo ingombrante, ma che si scatenano sulla scena adrenaliniche come popstar di oggi. Una band, coesa e compatta, dove ognuna delle protagoniste rivendica la sua individualità.


Non è stato un compito da poco vestire le regine di Six per la costumista Gabriella Slade. Ma questa giovane creativa, che ha studiato arte e ha radici napoletane per parte di madre, lo ha assolto in maniera così originale da vincere un Tony Award per i migliori costumi di un musical alla 75° edizione dei premi. Il segreto? Mescolare dettagli storici all’energia della musica contemporanea. E assegnare una tinta particolare a ogni sovrana, solo sua, per renderla unica e inconfondibile. Il musical cult Six sarà in scena al Politeama Rossetti di Trieste, in esclusiva nazionale, dal 24 al 28 aprile 2024.


Anna di Cléves (f. Pamela Raith)



«Caterina d’Aragona, per esempio - spiega Gabriella - è spagnola e cattolica. Per lei una scollatura squadrata e poi il nero e l’oro, riferimenti cromatici imprescindibili, che ci riportano però anche a una star di oggi come Beyoncé. Anna di Clèves, invece, in un famoso dipinto indossa un abito come ampie strisce a zig zag, che ho voluto assolutamente riproporre nel costume. Per Anna Bolena, poi, il girocollo è un elemento fondamentale...». L’infelice seconda consorte, infatti, mandata a morte per decapitazione con un ventaglio di accuse dal tradimento all’incesto, sfoggia l’iniziale del nome proprio sotto la gola, una sorta di medaglione incastonato nello scenografico costume verde smeraldo. L’altra consorte cui Enrico VIII fece mozzare la testa, l’adultera Caterina Howard, porta l’iniziale del nome appesa a un choker intorno al collo, punto sensibile del suo destino. Il costume di Caterina d’Aragona ha avuto invece l’onore della ribalta museale, esposto nelle sale del Victoria&Albert di Londra.


Il lavoro di Gabriella Slade è stato certosino. Prima lo studio delle regine dal punto di vista storico, quindi la loro ritrattistica e l’approfondimento degli elementi del periodo Tudor. A tavolino ha discusso a lungo le caratteristiche dei personaggi con gli autori del musical, Toby Marlow e Lucy Moss, poi con le interpreti. «Così mi sono sentita completamente a mio agio nel disegnare e le artiste a loro agio nell’indossare i costumi». La sfida è stata grande: outfit all’altezza di uno show che stava facendo molto parlare di sé, ma che doveva uscire dall’ambito universitario per approdare al Fringe Festival e poi sui palcoscenici del West End londinese, una delle mecche del musical. «All’inizio avevamo pochissimi soldi, ma lo spettacolo era ambizioso. Dovevamo dare il massimo con la nostra creatività. È stata un’avventura appassionante, il risultato di molto studio, ricerca, prove per cercare di capire se erano abiti con cui si poteva andare in scena ogni sera, se erano confortevoli per le interpreti, banalmente se erano facili da lavare per chi lavora nel backstage». I primi costumi furono in numero ridotto. Oggi sono un elemento chiave dello spettacolo, ogni interprete ha i suoi, e il loro costo è astronomico.

 

Jane Seymour (f. Pamela Raith)

 


A legare la corte di Enrico VIII alla contemporaneità ci sono i materiali: cuio, ecopelle, latex, pvc, paillettes, plastica, vinile, pellicola olografica. Superfici che riflettono e amplificano il gioco di luci, una scarica elettrica proprio come in un concerto rock. E finiture borchiate per tutte le sei mogli del sovrano. «È un riferimento al genere di ornamenti che indossavano i membri delle famiglie reali - spiega la costumista -. Le regine sono sempre ritratte con gioielli magnifici ed elaborati e i loro abiti sono decorati. Ma le borchie danno anche l’idea di un’estetica fresca e dura. Il nero mescolato al colore, e le trame degli abiti, si rifanno poi agli elementi architettonici del tempo, come le vetrate colorate».

 

Caterina d'Aragona (f. Pamela Raith)

 


Gabriella ha definito i suoi costumi “sculture mobili”. Le gonne, le maniche e i bustier hanno un’anima interna, una struttura invisibile agli occhi, che permette, per esempio, di realizzare pieghe molto piccole, simulando la naturalezza di un tessuto convenzionale. E cos’è quella sorta di gancio applicato davanti, all’altezza dei fianchi, negli stessi colori di gonne e shorts? Sembra un accenno di fodero per la spada, invece è il porta-microfono. Gli abbinamenti tra regine sono plurimi: Caterina D’Aragona mescola primedonne come Beyoncé, Jennifer Lopez, Jennifer Hudson, Shakira e Katy Perry; Anna Bolena si ispira a Miley Cyrus, Avril Levigne e Lily Allen; Jane Seymour ad Adele, Sia e Céline Dion; Anna di Cléves all’energia di Nicki Minaj e Rihanna, Catherine Howard a Britney Spears e Ariana Grande; infine l’ultima moglie di Enrico VIII, Catherine Parr, ad Alicia Keys ed Emeli Sandé. «Il risultato? Un look regale - lo ha definito Gabriella Slade - per le ultime regine a dominare il palcoscenico».

martedì 2 aprile 2024

MODA & MODI

 

 Per un quieto vestire

 

Dal “quiet luxury” al “quiet outdoor”. Dal lusso quieto, sostanziato da ottimi materiali, buoni tagli, colori neutri e brand dissimulati, al quieto abbigliamento da gita, con capi pratici e versatili, massimo confort e accessori all’insegna della funzionalità. La primavera della moda non può iniziare senza una nuova definizione, nel tentativo di cogliere quel che c’è nell’aria. In città ci vestiremo come per un’escursione fuori porta. L’anno scorso il tormentone era un altro: dal “normcore”, l’abbigliamento costruito su pochi capi basici, fatti per confondersi e non spiccare con eccessi di individualismo, al più estremo “recessioncore”, come quello adottato per la crisi dei primi Anni dieci del nuovo Millennio, cui oggi si sono aggiunte le guerre alle porte di casa, il cambiamento climatico, gli spostamenti dei popoli.


Basta rileggere i “core” a un anno di distanza e la loro intrinseca transitorietà, e surrealità, ci appaiono lampanti: legittime preoccupazioni sono tirate per i capelli per tentare di giustificare stravaganze che fanno a pugni con la stessa fase storica che vorrebbero spiegare. Davvero l’interpretazione autentica del recession core 2023, dell’armadio della crisi globale, era andare in giro in città senza gonna e pantaloni, con solo un maglione sopra i collant? Oppure circolare in mutande, o con il bordo delle calze trasparenti in uscita libera dalla gonna? Non siamo Kendall Jenner a Los Angeles nè Emma Corrin all’imbarcadero della mostra del cinema di Venezia, rispettivamente (s)vestite Bottega Veneta e Miu Miu, brand che hanno arruolato superbe testimonial per trasferire dalla passerella alla strada lo slip a vista, su corpi splendidi e con sprezzo del ridicolo lautamente pagato.

Ma ridurre all’osso, sottrarre in materiali e dimensioni è l’esatto contrario dell’essere virtuosi e circolari, se il tessuto che resta è sufficiente solo a piazzarci un bel logo a cifre da capogiro. Oltre a scatenare maldestre imitatrici, che infilandosi in shorts anonimi dalle dimensioni della mutanda pensano di entrare in un gruppo di iniziate alle avanguardie della moda.

 

 


 


Ma torniamo al “quiet” da cui siamo partiti. All’aggettivo che non ha bisogno di sostantivi, nè il luxury, il lusso da sussurrare, nè l’outdoor, il capo tecnico da riconvertire in abbigliamento da città. Vestirsi quietamente alla vigilia dell’estate vuol dire bandire gli eccessi, evitare di circolare in costume nel perimetro urbano, di strizzarsi in pantaloncini come pampers di denim, di liberare pance e ombelichi e pretendere di entrare ovunque mezzi nudi con la scusa del diritto a mostrare il corpo, sempre e comunque (che poi è un diritto mai messo in discussione per Kendall, Emma e la stirpe delle Hadid..., mentre nel caso delle comuni mortali espone a un alto rischio di imbarazzo).

Vestirsi quietamente è riscoprire sobrietà, pulizia, misura, consapevolezza dei luoghi, delle ore e delle occasioni in cui ci si mette cosa, senza escludere fantasia, colore, creatività. Quieto non è un aggettivo rinunciatario. È fare ricerca, prima di tutto della grazia perduta. 

lunedì 18 marzo 2024

MODA & MODI

Oscar 2024: di che tendenza sono

le spille da uomo? 


Michael B. Jordan


 Spille di testimonianza e spille gioiello nella notte degli Oscar. Poche le prime, piccoli dischi rossi con la mano arancione e il cuore nero degli Artists4Ceasefire, che chiedono il cessate il fuoco a Gaza, gli aiuti umanitari, la liberazione degli ostaggi. Tante, e preziosissime, le seconde, sulle giacche dei protagonisti maschili. Fiori, animali, soli, bagliori di diamanti e pietre in grado di energizzare la prevedibilità dello smoking di ordinanza per una cerimonia black tie, quando ci vuole ben altro che una gonna a ruota (ricordate Billy Porter nel 2019?) per far alzare un sopracciglio di stupore. È tendenza, si legge ovunque. La spilla, cui le signore preferiscono orecchini e collier per illuminare viso e décolleté, a meno di non fare Windsor di cognome, se indossata da un uomo si scrolla la polvere da portagioie della nonna e caratterizza, personalizza, trasforma, dà un twist al completo da cerimonia, gli ruba i riflettori. 

 

 

Cillian Murphy


 

Robert Downey Jr

 

Eccoli Cillian Murphy, che ha accolto l’Oscar per Oppenheimer con un piccolo disco d’oro appuntato sulla giacca Versace, una raggiera vittoriosa, e Robert Downey Jr, migliore non protagonista per lo stesso film, salito in palcoscenico a celebrare il suo riscatto in abito Saint Laurent impreziosito da un fiore nero con stelo di diamanti, magari un omaggio alla moglie Susan, che l’ha assistito nelle sue discese e risalite. Non manca di coraggio Michael B. Jordan, con due cacatua di diamanti appollaiati sul rever del doppiopetto di Vuitton a reggere un rubino e uno smeraldo, mentre cita indirettamente Karl Lagerfeld, antesignano del genere, l’attore Colman Domingo, col suo sigillo sbrilluccicante al centro del papillon. Flora e fauna hanno offerto molta ispirazione, ma c’è anche chi fa appello al proprio vissuto, non a caso l’attore Teo Yoo di “Past Lives”, confessando che la tartaruga di diamanti dal carapace color ametista è un tributo personale a quella autentica, la sua Momo, venuta a mancare l’anno scorso.

 

Teo Yoo

 


Chi sostiene la tendenza spiega, e non a torto, che le spille sono decorazione pura, non hanno altra funzione che abbellire. Non così i gemelli che reggono i polsini, non le medagliette informative di gruppo sanguigno e segno zodiacale, non gli anelli con sigillo, espressione di appartenenza. Sono oggetti che distinguono e illuminano e consentono di giocare con la fantasia. Anche quando uno scopo pratico ce l’hanno, come nel caso di Simu Liu di “Barbie”, che ha fermato in vita la giacca Fendi, portata a petto nudo, con una broche a linee curve.

 

Mark Ruffalo

 


Ma è tutto oro quel che luccica? Se tendenza c’è, l’hanno creata le griffe della gioielleria, da Cartier a Tiffany, da Boucheron a Verdura, occupando sulle giacche maschili cerimoniosamente noiose un intonso spazio pubblicitario. E anche gli attori da red carpet, già brandizzati da capo a piedi sotto la guida degli stylist, che indossano un’altra sponsorizzazione, più mediatica di un vestito. Testimonial? Meglio che testimonianza, certo più lucroso. A meno di non essere Mark Ruffalo che il disco rosso per fermare il massacro di Gaza l’ha messo proprio sopra la spilla di ispirazione vegetale, come un puntolino esclamativo.

lunedì 4 marzo 2024

MODA & MODI

 Saint Laurent, metto un collant per vestito

 

 


 

Le calze di nylon diventano abiti, top, camicie col fiocco. Quel color brodo da sempre divisivo si declina in diverse sfumature del carne, si nobilita in caramello, ocra, oliva, si estende al blu, cioccolato, nero e avvolge il corpo lasciandolo completamente nudo, esposto. È la collezione Saint Laurent disegnata da Anthony Vaccarello e presentata nei giorni scorsi a Parigi. Lycra unico tessuto per pezzi fragilissimi, a forte rischio dissoluzione, che si incollano sui busti esangui delle modelle e non nascondono nulla. Lo scandalo di un tessuto comune, che tutti hanno nel cassetto, trasformato in consistenza da indossare a qualsiasi ora, elevato a involucro d’alta moda per pezzi mai uguali, che una distrazione può smagliare. Volevo emozionarmi, superare il concetto di stagionalità della moda, vedere fino a che punto la nudità può ancora scioccare, ha detto lo stilista. E il pensiero corre alla collezione Liberation che Yves Saint Laurent creò nel ’71, dirompente con le sue donne dal trucco pesante, alzate sui plateau, in corte pelliccette colorate, abiti dalle scollature profonde e giacche con spalle squadrate, che evocava gli anni bui della guerra e faceva a pezzi l’opulenta rinascita del New Look di Dior. Quella di Yves passò alla storia come la collezione dello scandalo, per le implicazioni non per le rivelazioni.

Ma le donne nude di Vaccarello scandalizzano oggi? La prima fila delle passerelle quasi unanimemente plaude, parla di “virago potentissime, velate di desiderio e fierezza”, di “esplosione di trasparenze” che rivelano corpo e lingerie. Siamo al consueto discorso sull’empowerment, la donna “calzata” scopre il suo corpo come affermazione di sé.


Fuori dal coro Vanessa Friedman, critica di moda del New York Times: “basta tette” ha scritto senza giri di parole, basta mercificare corpi femminili che la cronaca ci rimanda quotidianamente come oggetti. E ha snocciolato tutta la sua insofferenza in numeri: su 48 uscite in passerella da Saint Laurent, solo dodici non mostravano seno e culotte e, di queste dodici, tre erano mini abiti con reggicalze incorporato. Armani si è espresso più o meno nello stesso modo, pur riferendosi a Bianca Censori, compagna del rapper Kanye West, entrata pressoché nuda al ristorante di Cracco: basta pazze in mutande in giro per Milano.


Ma torniamo a Vaccarello e alla sua collezione collant. Una ragazza può davvero, come lui sostiene, avvolgersi intorno al seno un paio di calze trasparenti e replicare con quattro soldi un elaborato top di Saint Laurent? Improbabile. Più credibile che il designer abbia giocato a spingere all’estremo la tendenza allo scoprimento e a scardinare i pregiudizi sull’utilizzo dei materiali, elevando la lycra a chiffon. Resta un dubbio. Ogni volta che in passerella sfilano donne seminude, o per le strade celeb di ogni tipo si aggirano in mutande, qualsiasi accenno di perplessità viene rimandato al mittente: il buon gusto e l’opportunità non c’entrano, è la donna a esercitare l’insindacabile diritto a decidere come e quanto mostrare del suo corpo. Eccoci al punto: è davvero la nudità l’unica unità di misura del nostro potere?

giovedì 22 febbraio 2024

IL PERSONAGGIO

 

Candace Bushnell: "Io, Carrie, Sex and The City e New York"




Candace Bushnell in The True Tales of Sex, Success and Sex and The City

 

 

Candace Bushnell sale stasera - venerdì 23 febbraio 2024 -, alle 20.30 in data unica, sul palcoscenico del Rossetti di Trieste. La vera Carrie Bradshaw di Sex and The City è proprio lei e dalle sue rubriche degli anni ’90 scritte per il New York Observer, tra mondanità e sesso, è nata, ormai un quarto di secolo fa, la serie televisiva cult, poi i due film e oggi il cosiddetto reboot “And just like that”, che racconta Carrie e le sue amiche nella mezza età.


Un energetico one-woman show su vita, uomini, incontri, esperienze di una ragazza ventenne sbarcata dal Connecticut nella Grande Mela, con pochi spiccioli e una grande voglia di vincere un Pulitzer, fino alla Candace di oggi, sessantacinquenne divorziata e ricca, con sempre un paio di Manolo ai piedi e un Cosmo da bere con le amiche. Allo spettacolo seguirà un party glamour, e tanta musica, in platea al Rossetti,  cui gli spettatori potranno contribuire ispirando i loro look alla serie.


«Originariamente - racconta Candace - avevo intitolato questo spettacolo “Is there still Sex in The City”, come il mio libro (In italiano “Sex in The City... e adesso?”). Poi un caro amico mi ha detto che non si capiva di che cosa parlava. È una persona di grande successo, quindi l’ho ascoltato e ho cambiato in “The True Tales of Sex, Success and Sex and the City”. Infatti è la storia autentica di com’è nata la rubrica, mescolata alla mia storia, ci sono le mie relazioni, le mie amiche e un po’ di avventure piccanti di sesso, così, per divertimento. E c’è la nostra vita di adesso, donne mature e single».


Lei è mai intervenuta nella sceneggiatura? «Nei primi due anni con il produttore Darren Star, che è un mio buon amico, sono andata nella writing room, nella stanza degli sceneggiatori di Sex and The City. Una volta volevano far fare agli attori un giro di shopping da Bloomingsdale, e io ho cancellato la battuta e ho scritto “Gucci, Gucci, Gucci!”».

 


 


 

In effetti in Sex and The City la moda ha un ruolo centrale. E alcune borse e scarpe sono diventate, e sono ancora, oggetti del desiderio. «Sex and The City è stata la prima serie influencer, non era mai accaduto prima. Tutto quello che c’era dentro, vendeva. Le scarpe per me erano molto importanti, perchè quando arrivai a New York per la prima volta notai subito che i veri newyorkesi indossavano sempre scarpe belle. In un ristorante potevi entrare o non entrare in base a che cosa avevi ai piedi. New York era uno dei pochi posti dove si trovavano i brand italiani, avevamo Gucci, appunto, che solo i newyorkesi conoscevano. E io impazzivo per le loro loafers... Sì, forse con la serie ho contribuito a farne vendere un po’...».


Lei se lo aspettava un successo ancora così duraturo? «È meraviglioso, davvero, ma all’inizio nessuno lo sa, altrimenti qualsiasi cosa sarebbe un successo. Credo che la serie rappresenti un momento particolare nella vita delle donne, che tutte le ragazze di oggi vivono. Una volta si passava dalla casa dei genitori a quella del marito. Poi dalla casa dei genitori al college per trovare un marito e quindi nella casa da sposate. Oggi non succede. Dalla casa dei genitori le ragazze vanno al college e poi esplorano il mondo, definiscono se stesse, costruiscono le loro carriere, hanno diverse relazioni. È giusto, riflette il tempo in cui viviamo. Per questo la serie continua a piacere e donne di varie età ci si riconoscono. Ogni nuova generazione si trova nella stessa situazione e si fa le stesse domande: come posso gestire la mia vita, quello che voglio, quello che la società si aspetta da me? Voglio sposarmi? Voglio esplorare la mia sessualità? Vivere questa fase crea dei legami. Che durano nel tempo, come dimostra “And just like that...”».


Com’era la New York dei suoi vent’anni? «Turbolenta, spaventosa, molto divertente. E molto, molto creativa. Non giravano tanti soldi e artisti, designer, scrittori vivevano in appartamenti piccolissimi. Ci potevi venire e seguire le tue passioni artistiche, non avevi niente da perdere. Era costoso, ma non così tanto come oggi. Andavamo in sei, dieci posti diversi in un’unica sera: ristoranti, club, mostre, inaugurazioni. Non c’erano i social media, se volevi sapere cosa succedeva dovevi esserci di persona. Io ci andavo con un piccolo taccuino e appuntavo tutto, li conservo ancora quei quadernetti: nella rubrica parlavo di quello che era sexy a New York, dei desideri delle donne e degli uomini che incontravamo. Accennare al sesso a quei tempi era una novità».


 Dalla scrittura al teatro... «Mi piace stare in palcoscenico, ma mi piace anche scrivere e sto bene quando lo faccio. Ora non ho un libro in cantiere, ma magari scriverò un altro testo teatrale».


E adesso c’è un Mr Big, o un Mr Biggest, nella sua vita? «No, non c’è, spero di essere io Miss Biggest. Ho amici molto cari, ma davvero non ho tempo. Sulle dating app ho conosciuto un paio di ragazzi di Milano. Continuiamo a scriverci per fissare un incontro, ma è difficile, siamo sempre molto occupati. Quando ho cominciato la mia rubrica, negli anni ’80, gli uomini non volevano impegnarsi. Via via sono andati peggiorando, ora non si fanno nemmeno vedere. Ma a sessant’anni sei meno tollerante nei confronti del comportamento di un possibile partner. Se qualcuno ti dà buca o cancella un appuntamento, puoi essere tentata di dargli una seconda o terza possibilità, ma per quanto tu voglia che le cose vadano diversamente questo non farà loro diversi. L’ho imparato con l’età».


Ha qualche rimpianto? «Direi di no. Da giovane mi sarebbe piaciuto scrivere soap opera per la televisione. Ma poi ho pensato che nessuno mi avrebbe dato un incarico del genere. Forse l’unico rimpianto è di non aver fatto i soldi prima, perchè a vent’anni non ne avevo molti ed è stata dura».


Nello spettacolo c’è molto del suo libro “Is there still Sex in The City”, che racconta l’esperienza sua e delle sue amiche, donne single di una certa età... «Ne ho moltissime di amiche. Ed esco ancora per il brunch con loro, proprio come nella serie. Adesso viviamo così. L’idea che ognuna sia felicemente accoppiata come in una favola non esiste. Così dobbiamo vivere in un modo diverso, come donne single con le nostre amiche per famiglia. Ma è importante parlare di questa fase, sia per condividerla con chi ha raggiunto la nostra stessa età, sia per far capire alle generazioni più giovani che niente è finito, che ci sono ancora molte opportunità da cogliere. La vita continua dopo i cinquant’anni e può essere intensa e piena di esperienze, oltre che offrire nuove occasioni per uscire con gli uomini». 


Che cosa le ha portato l’età? «Il fatto di non aver paura, nella vita e nel lavoro. Tutte le donne che conosco che hanno lavorato dai venti ai cinquant’anni, a sessanta danno il massimo. Hai meno paura di quello che la gente pensa e non hai paura di provare. Il successo è un aspetto importante della nostra vita. In questo senso dico che possiamo essere noi il nostro Mr Big».

martedì 20 febbraio 2024

MODA & MODI

 Sleeping beauties al Met, bellezze da risvegliare

 

Belle addormentate torneranno a vivere dal 10 maggio nelle sale del Costume Institute del Metropolitan Museum di New York, nella tradizionale grande mostra di primavera aperta dal Met Gala del 6 maggio, organizzato dalla patronessa Anna Wintour. “Sleeping beauties: Reawakening of fashion”, ovvero un percorso di duecentocinquanta abiti storici dalle collezioni permanenti del museo, alcuni raramente esposti prima, presentati in un allestimento che li farà vibrare ancora. Cinquanta di questi pezzi, tra cui un abito da ballo di Worth del 1877, sono ormai così fragili da non poter più essere indossati, ma il cuore della mostra saranno proprio loro, messi a confronto con creazioni moderne che ne hanno tratto ispirazione e contestualizzati nel tempo attraverso l’uso di sofisticate tecnologie. La scelta del tema riflette il momento che la moda sta attraversando - il recupero del passato non tanto come sostenibilità ma come valorizzazione di un’eredità - e sarà curioso analizzare le interpretazioni che ne daranno le auguste ospiti invitate al Gala.

 

Reese Witherspoon, 2006, Oscar come miglior attrice in Dior anni '50

 


Sembrava un’eccentricità la scelta di Julia Roberts nel 2001, quando ritirò l’Oscar in un abito nero e bianco di Valentino del 1992 (a Sanremo nel ’93 lo indossò la Cuccarini), ma è stata cinque anni dopo Reese Witherspoon a stregare il Kodak Theatre di Los Angeles, incoronata miglior attrice in un sublime Dior ricamato anni Cinquanta. Quest’anno Carey Mulligan ai Golden Globes a Los Angeles indossava uno Schiaparelli nero con pennellata di bianco sul bustier del ‘49 e la siderale Gwineth Paltrow agli Emmy un Valentino del ‘63. Clara ha aperto l’ultimo Sanremo con un modello di Armani Privè del 2011, non vintage ma archivio d’autore, e Levante ha fatto di più sfilando sul red carpet della Mostra del cinema 2023 con un Versace di seconda mano (ops, pre-loved), acquistato sulla piattaforma Vestiaire Collective. Ai Bafta londinesi di domenica l'attrice britannica Vivian Oparah splendeva in Gucci d’antan disegnato da Tom Ford con scollatura abissale.


L’heritage è la sostanza di ogni brand e custodisce un patrimonio di bellezza, manualità, tecnica ancora non stritolato dalla bulimia delle collezioni di oggi. Le attrici scelgono questi pezzi perché inaccessibili ai più, le maison promuovono le loro radici e liberano i designer dalla pressione di creare novità per gli eventi internazionali. Purché i capi storici non corrano rischi, come accadde quando Kim Kardashian volle insalsicciarsi nella guaina dorata con cui Marilyn cantò Happy birthday al presidente Kennedy nel ’62, prestata dal museo Ripley’s Believe or Not! in Florida solo per il red carpet, ma restituita con cerniera rovinata, strass smarriti e molte polemiche.


Reawakening of fashion” è un richiamo ai codici che presidiavano la moda prima dell’avvento dei colossi e dei loro tritacarne produttivi. Ai tempi lunghi, di confezione e di durata, alla sartorialità che segna un’epoca eppure la supera, diventando senza tempo. Agli abiti che qualche volta troviamo non solo nelle lussuose piattaforme online di second hand, ma nei negozi vintage, incredule che qualcuno possa aver pensato di separarsi da quei gioielli. Perché le belle addormentate sono vicino a noi, basta saperle vedere, e risvegliare.