martedì 29 novembre 2005

MODA & MODI: iniziali da maschio

Antonio Caprarica, autorevole testimonial delle iniziali sul colletto della camicia
C'è chi dice che è una delle nuove manie destinate a scongiurare l'identità del maschio sempre più in crisi. In passato erano un vezzo di professionisti e manager, rigorosamente ricamate sul lato sinistro del petto, unica fantasia concessa la scelta tra corsivo e stampatello. Oggi le cifre, le iniziali, si trovano nei posti più impensati, dai polsini al retro della cravatta, quanto più lontane dalla tradizionale collocazione, tanto più indice presunto dell'originalità del portatore.
Se pensate che le iniziali che Antonio Caprarica, corrispondente della Rai da Londra, porta impettite sui rigidi colletti delle sue camicie, siano una civetteria un po' fastidiosa, ricredetevi in fretta, almeno prima di scoprire che il vostro partner si è fatto tentare della calze cifrate, ultima trovata della moda maschile. Che un paio di calzini sbagliati possano far crollare l'eros è ormai patrimonio comune anche dei più riottosi, ma è ancora tutto da verificare l'impatto che la variante personalizzata avrà su mercato e compagne.
Un'azienda specializzata è tanto convinta che le calze cifrate rafforzeranno l'«ego» del maschio e non faranno ridere a crepapelle la sua signora, da aver messo in commercio una linea di alta qualità, non a caso chiamata «Initials». Filo di scozia, colori d'ordinanza, nero, blu e grigio scuro, con le letterine in azzurro da posizionare, a scelta, sul polpaccio o sulla caviglia, si trovano nei negozi più eleganti o si possono ordinare attraverso il sito internet (www.nigacalze.it), a un prezzo tutto sommato abbordabile, 15 euro al paio, se l'obiettivo è sentirsi più sicuri di sé.
Esagerato? Macchè. La cifra-mania contagia tutte le classi sociali, e scende verso il basso, pedalini e mutande compresi. Pare che non importi nemmeno che si notino, purchè ci «siano» da qualche parte, a dire al nostro uomo che non ha niente a che fare con i Costantini e gli Zequila che attraversano il piccolo schermo, con le loro camicie spalancate e i pettorali depilati.
Un vero maestro di eleganza, Gianni Battistoni della maison romana di via Condotti, assicura che i clienti di buon gusto si attengono al classico: cifre ricamate a mano, sotto il costato a sinistra, invariabilmente nero o blu. Il maschio urban-chic le porta anche sul taschino della camicia sportiva, button-down, il dandy sui polsini delle camicie da gemelli, qualche attore sul colletto.
Ultimo indumento disponibile per consegnargli la propria riconfortata identità sono i boxer, dove ci si può sbizzarrire con tinte meno convenzionali. Che siano l'equivalente maschile di reggicalze e lingerie di pizzo?
@boria_a

mercoledì 2 novembre 2005

L'INTERVISTA

Ottavio Missoni: "Per i miei 84 anni mi regalo uno stand all'Expo del Giappone"

 

Se gli chiedi quanti anni ha, ti risponde con una vecchia gag di Tino Scotti. «Una volta una gentile signorina in televisione, all'epoca in cui esistevano le vallette, gli ha domandato: "Signor Scotti, sia sincero, ma quanti anni ha?". Lui l'ha guardata e le ha risposto. "No ghe n'ho più".


Se la ride di gusto Ottavio Missoni, che oggi festeggia ottantaquattro anni, più di cinquanta dei quali passati a intrecciare, a combinare fili. «Put together» l'hanno chiamato gli americani, per descrivere quei suoi maglioni come tavolozze, che oggi sono esposti al MoMa di New York. Ma per Tai, stilista nato a Ragusa, olimpionico di atletica a Londra nel 1948, il put together è molto di più. Un'arte, ineffabile, di mescolare non soltanto la lana, ma l'amore, la famiglia, gli amici, gli incontri e un'azienda che oggi è sinomimo per eccellenza di maglieria italiana, di gusto italiano nel mondo.

Cinquant'anni e oltre, un punto dietro l'altro, sempre insieme a Rosita, la ragazzina sedicenne che s'innamorò di lui a Londra, vedendolo correre, e che da allora non l'ha lasciato più.
Buon compleanno allo stilista, dunque, ma anche a un meno conosciuto Missoni artista. A Villa Mazzucchelli, vicino a Brescia, è aperta infatti la mostra "Missoni e Tiziano. Colore e luce dal Rinascimento veneziano alla moda del '900", prorogata al 13 marzo 2006 per la grande affluenza di pubblico.


Il catalogo della mostra "Missoni e Tiziano" a Villa Mazzucchelli (Brescia)



Missoni adesso è anche pittore e grafico?  «I me ne fa far de tuti i colori... E' successo che questo signor Enrico Giustacchini, che è vice direttore del mensile d'arte "Stile", ha visto le mie agende annuali, sulle cui copertine ci sono alcuni miei disegni, dei miei progetti di lavoro. E ghe gà piasso 'sta roba... Così, insieme a una galleria d'arte, ha pensato di realizzare serigrafie e litografie. O che bel! se podarìa far, el me gà dito. E mi go dito: femo! Ma tutto nasce dalla mia agenda. Un privato aveva dei bei quadri, tra cui dei Tiziano, e così è nata l'idea di una mostra su "Tiziano e Missoni"...».


Non le fa un po' impressione questo accostamento?  «Onestamente devo dir che i me gà messo in bona compagnia. Tiziano no ghe xe più, no ghe posso domandar scusa. La mostra però è simpatica e gradevole da vedere».


Il colore rosso di Tiziano come il rosso di Missoni...  «Ah, queste son cose che s'inventano i critici, ne dicono veramente di tutti i colori. Se no ghe fossi i critici, mi no saverìa ben quel che fazo. Invece sono loro che dopo mi raccontano e mi spiegano...».


"La Violante" di Paris Bordon

"San Girolamo nella solitudine" di Tiziano Vecellio


E adesso ha firmato anche lo stand che il Friuli Venezia Giulia allestirà ad Aichi in Giappone, per l'Expo 2005... «E' un'iniziativa prestigiosa, in un paese che ammira e invidia il made in Italy. Sono particolarmente onorato di aver curato lo stand della regione che mi ha adottato. Ho pensato, insieme a mio figlio Luca, di vestire un gruppo di donne che conversano e che simboleggiano mondi diversi che si agganciano. Perchè sono le donne che portano avanti il mondo... Poi c'è l'azzurro del mare di Trieste e i patchwork che rappresentano la terra, le viti, le tinte di questa regione. Per noi il Giappone è uno dei mercati più importanti, dove siamo più conosciuti e apprezzati. Però qui non si trattava di presentare Missoni, ma un principio, un legame tra culture diverse».



"Armonia delle diversit", lo stand della Regione Friuli Venezia Giulia ad Aichi, firmato da Missoni


 
Come festeggerà questi suoi 84 anni?  «In casa. Mettiamo insieme un po' di amici, faremo un cin cin, un brindisi: insomma, se magna e se bevi. Mia moglie prepara pietanze molto nostrane, uno dei suoi piatti forti è la jota, leggerissima. La Rosita la gà imparà, conosce molto bene la nostra cucina, sia quella dalmata che quella triestina, che poi si sposano. La fa anche altre robe, ma sopratuto minestre...».


E in giro per il mondo non ci va più? «Sto fermo già da tempo, mi muovo il meno possibile. Adesso, se il mondo el vol girar in giro a mi, che giri pur lui, se no me va ben lo stesso. Qualche volta vengo a Trieste a trovare gli amici, le scorse settimane sono stato a Udine a festeggiare la Nonino. Dovevo tornare a Trieste per il Giorno del ricordo, ma quest'anno l'hanno celebrato anche a Torino, un dopion, e per me Torino era più comodo».


Ma come, lei che è sindaco...? «Io sarei non "sindaco del Libero Comune di Zara in esilio", ma "libero sindaco del Comune"... Xe diverso».


Ottavio Missoni con uno dei suoi arazzi


  Che bilancio fa di questi suoi ottantaquattro anni?  «Veramente cerco di guardare indietro il meno possibile. Tutto sommato non mi posso lamentare. Ho fatto un buon lavoro, ho una bella famiglia, tre figli, nove nipoti, una brava sposa. Sarà stata fortuna, o forse casualità più che fortuna, perchè non si sa mai perchè succedono le cose, come succedono... Dopo si ricostruisce, ma mentre accadono non si capisce. Mi, conti zerco de farghene pochi, perchè se te fa i conti, no i torna mai. Meglio lasciar stare la contabilità».


Casualità, ma anche scelte importanti.  «Tutto è iniziato per caso. Ho cominciato a fare le maglie a Trieste, in via Rossetti, al quarto piano, con il mio amico Giorgio Oberweger, che aveva una macchina da maglieria. Ne ho preso una anch'io e abbiamo fatto una società, la "Veniulia". Ma eravamo due presidenti, mancava chi lavorava. E così abbiamo trovato il cugino di Giorgio, Livio Fabiani. Dopo mi sono trasferito da queste parti. La "Veniulia" andava bene, ma a Trieste era più facile fare una nave che fare una maglia. Per un ago, un filo, dipendevi tutto da altre parti».
E allora? «Ho chiuso la società e ne ho fatto un'altra con la mia sposa, la Rosita, sempre con due, tre macchine. Per mi no xe cambià niente: mi sempre presidente, e la Rosita che lavorava. Cussì xe andà».

 

"Caleidoscopio" (1985) di Ottavio Missoni


Mezzo secolo di azienda e mezzo secolo di matrimonio... «Più, più. Le maglie abbiamo cominciato a farle nel 1948, io invece mi sono sposato nel '53, quindi è da cinquanta e passa anni che abbiamo questa società, che ha funzionato sempre bene, perchè ela la xe assai brava, mi son stà de apogio. E' vero. Nel lavoro eravamo al cinquanta per cento, non si può dire chi era più creativo, chi portava più idee... Ma la mula aveva anche una casa da amministrare, poi tre figli, poi i nipoti. E dopo anche cinque cani. E come finale, carico de briscola, la gaveva anche un marì. Se te fa le some, meio no far bilanci».


"Orion", uno degli arazzi di Ottavio Missoni


  Ma c'è qualcosa che non è mai cambiato, l'estate in Dalmazia.  «La mia sposa non cambierebbe quel mare con nessun altro al mondo. I miei figli hanno imparato a nuotare, a pescare in quel mare. Da anni torniamo, andiamo su e giù per gli scogli della Dalmazia con la barca e qualche amico. Le mie origini sono lì, ma la Rosita l'ha scelto quel mare, per lei non ne esiste altro uguale».


E a Zara, dove ha vissuto da bambino, ritorna? «Zara non esiste più. Noi esuli non abbiamo più una città di ritorno. Eravamo in ventimila, tre-quattro mila sono morti, novecento sono stati affogati, la città è stata distrutta, rasa al suolo al settanta per cento.
Non abbiamo più un punto di riferimento, non siamo come l'emigrante che se ne va in giro per il mondo ma ha il suo paese dove può tornare, se vuole, e trova la sua osteria, i suoi amici, torna a bater carte. Per noi di Zara tutto questo non esiste più. Sì, ci sono gli stessi tramonti, lo stesso pesce, la stessa bora, gli stessi profumi, ma la città no. Per noi dalmati, Zara esiste solo nel ricordo e nel nostro amore».


Lei poi viene considerato da tutti un triestino... «Ormai non smentisco nemmeno più. All'epoca Trieste mi ha adottato, ero già a Trieste quando avevo diciassette, diciotto anni e fingevo di studiare allo Scientifico, ma a scuola non ci sono mai andato, neanche un giorno. In questa città ho cominciato a lavorare e la mia famiglia era qui quando me ne sono andato a Milano. In fondo, abbiamo lo stesso mare, la stessa cultura, Trieste è una città abbastanza "nostra". Nei primi dell'Ottocento qui c'erano friulani e qualche slavo, era un borgo de mar. Poi é diventata città di mare grazie ai dalmati e agli istriani. Anche le grandi compagnie di navigazione, le famiglie dei Cosulich, dei Tripcovich, dei Martinolli, sono tutte lussignane o di Cattaro. Lo stesso dialetto, questo veneto un poco imbastardito, lo hanno portato gli istriani e i dalmati».


Ottavio Missoni bambino nella casadi Zara



Che effetto le fa essere un po' un patriarca?  «L'unico effetto è nei confronti dei nipoti. I nipoti sono molto importanti, perchè ti danno la proiezione di quello che hai fatto anche per il futuro. Sono più importanti dei figli. E pensi di essere utile a loro, perchè tu ormai...».


C'è qualcosa che è rimasto in sospeso, qualche filo che non ha allacciato?  «Mi no gò 'ssai rimpianti. Mi è andato tutto abbastanza bene. Ho avuto successo, ma non mi sono mai posto dei traguardi da raggiungere. Come diseva quel: "te sa el zogo? Mi al zogo no go mai perso, perchè no go mai zogà". Se ti poni delle mete e non le raggiungi magari resti deluso. Io invece, se ho fatto delle cose o se non le ho fatte, è stato sempre per scelte mie, o per caso. Non so cosa siano i rimpianti».


Quel che resiste, invece, sono i suoi record sportivi...  «C'è un signore che ne voleva scrivere, ma deve aspettare ancora due anni perchè caschi il settantesimo anniversario. Nel 1937, quando avevo sedici anni, ho corso a Milano, ho battuto gli italiani e anche un americano, e ho fatto un tempo sui 400 metri piani di 48 secondi e 8 decimi. Non si può parlare di record perchè allora non esistevano le categorie, ma questo tempo è ancora, a tutt'oggi, la miglior prestazione italiana di un sedicenne. Nello stesso anno, due mesi dopo, ho vestito la maglia azzurra a Parigi, ho battuto i francesi e sono stato la più giovane maglia azzurra dell'atletica leggera. Mi hanno messo anche nel Guinness dei primati... Insieme a un giapponese che ha mangiato un pianoforte in cinque ore e mezza, ma non era un pianoforte a coda. E insieme a quelli che hanno mangiato trenta angurie... Pensa, in mezo me gà messo anca mi...».


Che cosa le regalerà sua moglie? «Sarà una sorpresa. Di solito mi regala oggetti utili, qualche volta un quadro, un libro... Per un periodo mi ha regalato sempre sculture di sirene, non so perchè. Ne ho una bellissima, tipo portalampada, sulla scrivania. E sul biglietto mi ha scritto: "E se stanote pesco una sirena, mi te la voio domani a regalar", come la famosa canzone».


Che augurio vuole per il suo compleanno?  «Nessuno. Soltanto un "buona fortuna", come dicevamo noi a chi andava per mare. E in quello era racchiuso tutto. Ma mi raccomando una cosa: meti ben i agetivi. I agetivi xe importantissimi! Come, per mi, i colori».

martedì 1 novembre 2005

MODA & MODI: c'è una borsa per ogni bag-victim


 Grace Kelly con la borsa-icona che porta il suo nome
Il nome Bagonghi non vi dice niente? Pensate che la Baguette sia solo un filoncino d'oltralpe? Quando vi nominano la Birkin ricordate vagamente una cantante di fine anni '60, diventata famosa per un motivetto orgasmico? Se questi quiz vi lasciano disorientate, una cosa è certa: non siete una bag-victim. Probabilmente arraffate dall'armadio il primo contenitore con manici che vi capita a tiro e non avete mai considerato l'ipotesi di segnare il vostro nome in una lista d'attesa per assicurarvi il modello che sfoggia Gwyneth Paltrow (tanto meno l'idea di fare un salto dal più vicino cinese per comperare la sua fedele imitazione).
Eppure, nel capriccioso e instabile universo della moda, la borsa è l'accessorio di cui quasi nessuna donna, le piaccia o no, può fare a meno. Per le griffe un po' acciaccate dall'export in calo, è un vero e proprio Sacro Graal, perchè chi azzecca il modello della stagione, e riesce magari a infilarlo al braccio della celebrità del momento, ha la certezza di rimpolpare i bilanci e rilanciare il marchio su scala planetaria.
Siccome tra l'essere una borsa-dipendente e il potersi permettere il lusso di girare a mani libere (lo faceva Diana Vreeland, direttrice di Vogue America, grazie a un paio di fedeli assistenti riconvertite in sherpa, e lo fa l'attuale Miss Vogue, Anna Wintour, quella che si prende sempre le torte in faccia alle sfilate...), c'è un numero illimitato di utilizzatrici di borsette, ecco che vale la pena dare un'occhiata al divertente «Pazze per le borse» (Sperling & Kupfer, 14 euro) della giornalista Paola Jacobbi, manualetto semiserio per orientarsi tra nomi, modelli, codici di utilizzo e, perchè no, un pizzico di buone letture.
Alzi la mano chi ricorda che Anna Karenina, prima di gettarsi sotto il treno, lancia sui binari la borsetta di velluto rosso? Donna stanca della borsa, stanca della vita? Forse l'interpretazione è un po' irriverente, certo è che questi accessori, oggi considerati i nuovi gioielli (un modello di pelle di struzzo di Marc Jacobs costa più di un braccialetto con charm di Tiffany...) rivelano molti aspetti della personalità della proprietaria. Ci si può davvero fidare di una che va in giro con lo zainetto color rosa smalto passati gli anta? E scommettereste  ull'organizzazione della signora che sceglie un modello senza fondo come il secchiello e poi rinuncia a rispondere al cellulare perchè non lo trova?
Chi sono, invece, le donne-borsa, consegnate per sempre al mito? Jacqueline Kennedy e Grace Kelly, naturalmente, icone di stile alle quali Gucci ed Hermès hanno dedicato borse-icona come la «Jackie» e la «Kelly».
Jackie Kennedy
Meno nota, ma più divertente, la storia della «Birkin», nata da un incontro fortuito, sullo stesso aereo, tra la cantante inglese alla ricerca della borsa ideale, e il signor Jean-Louis Dumas Hermès, provvidenzialmente seduto accanto a lei e pronto a soddisfare le sue esigenze in fatto di contenitori.
Entrata in commercio nel 1984, la Birkin Bag è un oggetto inavvicinabile per i comuni mortali: ancor oggi costa duemila euro nei modelli basic e per averla bisogna pazientare in lista d'attesa, come ben sa la Samantha di «Sex and The City», che cerca di accorciare i tempi e perde per sempre il prezioso oggetto del desiderio.
Jane Birkin (da en.unifrance.org)

E i falsi? Dice Frida Giannini, direttore creativo di Gucci, che chi li porta si svaluta da sola, meglio ben fatto e anonimo. Ma poi aggiunge: «Quando non vedo in giro falsi Gucci mi allarmo. Significa che dobbiamo applicarci di più. Invece se ce ne sono troppi vuol dire che è ora di inventare un nuovo modello».
@boria_a