martedì 11 dicembre 2007

MODA & MODI

Riciclo d'autrici

Che c'è di nuovo nella moda? Il vintage. Il recupero e riciclaggio dei fondi dell'armadio è diventato una mania. Si moltiplicano i siti on-line e i mercatini dell'usato, è uscito addirittura un manualetto («Guida al vintage», Morellini Editore, di Laure Gontier e Jeanne-Aurore Colleuille) che insegna come riconvertire l'abito della nonna evitando di sembrare lei. Non è un'operazione facile. 

Facile è cedere alla debolezza di infilarsi il kilt con lo spillone di corno, il robe manteau, la gonnellona a pieghe con il twin-set archiviato dalla mamma, l'abituccio di jersey grigio topo e finire per emanare solo quel triste effluvio di naftalina che denuncia immancabilmente datazione e provenienza del capo, oltre che la nostra scarsa attitudine a fiutare e dissimulare le chicche d'annata.
L'obiettivo sarebbe eguagliare l'effetto glamour della Julia Roberts che riceve l'Oscar per "Erin Brockovich" nel 2001 sfoggiando un Valentino archeologico in velluto nero bordato di raso bianco. Molto più comune è trasformarsi in una delle signore delle vignette di Josè Kollman, borsetta con l'alabarda e cuffia infeltrita comprese.


Il vintage è anche il tema scelto da Ines Paola Fontana e Roberta Debernardi per la collezione invernale del loro marchio «e altro», che - nello storico negozio di tendaggi «Studiocinque» di viale d'Annunzio - propone una serie di accessori per la persona e di arredi per la casa. Pezzi unici, in numero limitato, decisamente non popolari, nati quest'anno da uno «smantellamento» e riassembleaggio fantasioso di vecchi cappotti, giacche, pantaloni, coperte, campionari di tessuti di tappezzeria, pezze di stupende sete anni Sessanta, bottoni di plastica recuperati nei mercatini, di una plastica ormai fuori commercio perchè non resistente al ferro da stiro (www.studiocinqueealtro.com).


È possibile che un ritaglio di pantaloni a quadrettoni marron diventi la balza di un cappello senza sembrare un rattoppo? Che due scampoli di seta a fiori si trasformino in una deliziosa cintura obi? O che un materiale tecnico destinato a far tende prenda la forma di una collana tessile argento e oro? O che dall'utilizzazione non ortodossa di una delle macchine da cucire industriali del negozio spunti un «accessorio» a metà tra la collana e lo scialle, fatto con piccoli quadrati di stoffa dai colori diversi trattenuti da un unico filo, continuo, come una catenella?


Tweed e panni sono irriconoscibili. Tracciabilità impossibile da determinare. Basta uno sprazzo di viola nelle collane o sui cappelli o come interno di una borsa mignon, e gli accessori entrano in sintonia con il colore più «in» di quest'inverno. Le stoffe diventano anche anelli con verette d'acciaio, che una volta consumato il tessuto sono pronte a nuove utilizzazioni. Quelli con i bottoni restano un classico, quest'anno aggiornato nelle tinte: verde bottiglia, marrone, avio, viola. Alla filosofia del recupero si ispirano anche gli arredi per la casa e i
vecchi paltò, i velluti d'antan, o i cotoni di marchi storici rispolverati da avanzi di magazzino degli anni '70, tutti riadattati come cuscini. Chi ha un gusto sicuro può scegliere tra i campionari di sete e farsi confezionare una cintura personalizzata: accostati, questi scampoli a fiori dalle tinte pastose, riescono a trovare impensabili equilibri e a sembrare attualissimi.


Novità di quest'anno sono le sciarpe. In panno di lana per tutti i giorni o, preziosissime e più grandi, in velluto e seta o cachemere e seta: sono trattenute da piccoli lacci o si chiudono infilandone un'estremità in una sorta di manicotto plissettato, così finiscono per diventare coprispalle da sera. La filosofia delle due artigiane-artiste è semplice: «Non dare per scontato che un capo è tornato in auge perchè ha vent'anni, ma reinventarselo con originalità e sensibilità». Il vintage è moda passata di moda, va sempre preso con un po' di ironia...


twitter@boria_a


Una delle cinture di studiocinqueealtro (www.studiocinqueealtro.com)

martedì 20 novembre 2007

MODA & MODI: che tentazione il carrello virtuale...

Addio «svetrinate» con le amiche. L'acquisto cambia fisionomia e diventa, pericolosamente, no-stop. In rete i negozi sono aperti ventiquattro ore, weekend compresi e per le compulsive sono una vera minaccia: basta un ritaglio di tempo, un collegamento internet, un minimo di dimestichezza con il labirinto dei siti e, naturalmente, una carta di credito, per fare danni ingenti in pochi secondi. Clic sul «carrello» virtuale - che appunto perché virtuale è molto meno inibente di quello fisico - e in pochi giorni, nella discrezione di casa nostra, potremo ricevere di tutto, dalle partecipazioni di nozze personalizzate a un cestino da picnic con il caviale e il patè del celebrato supermercato londinese per gourmand Fortnum & Mason, da un kit per per la nail-art a un gioiello di Tiffany.
Anche la terribile maratona natalizia alla caccia del regalo meno inutile e improvvisato per amici e conoscenti, assume connotati di piacevole rilassatezza: distesi, con un buon bicchiere a portata di mano e un cd ispirante, ci si può inoltrare nei siti specializzati senza dover
fronteggiare la poltiglia impazzita degli shoppers dell'ultima ora. Si valutano i prezzi, si sceglie, si paga, e l'omaggio viene comodamente recapitato a casa del destinatario in dieci giorni o poco più. Si obietterà: e i rapporti umani? Vabbè, la rete ci priva del piacere della consegna del dono, ma ci risparmia anche le facce di circostanza quando non abbiamo indovinato. E comunque, gli auguri e i tradizionali incontri pre-festivi non preceduti da stress, alla fine sono più gratificanti per entrambi.
Siete neofiti dell'acquisto on-line o, già esperti navigatori, volete allungare la vostra lista di negozi preferiti in rete? È appena uscito un utile manualetto di Paola Cicuttini per gli Oscar Mondadori che s'intitola appunto «What women want - I migliori siti per lo shopping online» (pagg. 308, 13 euro), che già di per sé può essere un regalo azzeccato per compratrici annoiate alla ricerca di nuove sensazioni.
Innanzitutto qualche pagina introduttiva per spiegare, rassicurare sulle forme di pagamento, illuminare su come muoversi in ebay, imparare a riconoscere i siti migliori e i venditori affidabili, destreggiarsi con spedizioni e resi. Poi, via libera alle incursioni spendarecce, divise per argomenti. Ci sono i siti per le fashioniste patite della griffe a vista e a tutti i costi, per le affezionate all'eco e biologico anche nei vestiti, per chi è alla caccia perenne di borse e scarpe numerate, per l'intimo, i cosmetici, la casa, i giocattoli, la gastronomia.
Siti notissimi come l'italiano www.yoox.com, un autentico triangolo delle Bermude per acquirenti irrefrenabili (e da quando hanno aperto temporanee sezioni vintage si assiste al singolare fenomeno dei pezzi strappati di mano virtualmente, il che è ancora più triste dello scontro fisico, perché ti privi del piacere di vedere in faccia chi è riuscita a sottrarti quella Gucci d'antan col manico di bambù...), ma anche tante curiosità, come le scarpe per vegetariani osservanti (www.vegetarian-shoes.co.uk), i profumi nella confezione tester, autentici ma senza loghi, per regali a persone con cui si è in assoluta confidenza e con un occhio al portafoglio (www.onlytester.eu), i prodotti professionali per la cura dei capelli col servizio «virtualook», parrucchieri in rete che suggeriscono taglio e colore sulla base delle nostre caratteristiche fisiche (www.planethair.it). Anche per le compratrici «tattili», che hanno bisogno di toccare e provare, lo shopping in rete diventa piano piano una perversione... E si può sempre mandare una mail alle persone care, con la propria wishing list personalizzata: discreta, silenziosa, ma molto diretta.
@boria_a
What Women Want di Paola Cicuttini (Oscar Mondadori)

martedì 13 novembre 2007

MODA & MODI: power cashmere

Non bastavano i tronchetti, i leggins, il grigio da suora, il neo-panterato che s'insinua dappertutto, persino sulle inermi ballerine. In quest'inverno di piccoli e subdoli orrori, c'è pura un'altra minaccia: il ritorno delle spalle imbottite. Ma come, non le avevamo sepolte con gli anni Ottanta e la Milano da bere, con le giacche e quei terribili, legnosi, militareschi soprabiti di pelle? Tutti ricordano Melanie Griffith in «Una donna in carriera», quando faceva le scarpe a Sigourney Weaver, sfilandole la scrivania e un appetitoso Harrison Ford, a colpi di stiletto (prontamente sostituiti in metropolitana alle scarpe da ginnastica) e soprattutto a «spallate» di spallone. Ma era quasi trent'anni fa, l'epoca della Thatcher e delle prime soap torrenziali, quelle Dallas e Dinasty piene zeppe, appunto, di signore con tacchi vertiginosi, rossetti scarlatti, chiome fluenti e tailleur-armatura super-fascianti, sotto cui mostrare i seni (e pure i primi glutei) ritoccati.
Sembra impossibile credere che la nuova generazione di donne in carriera, spesso nemmeno trentenni, voglia adottare il più trito capo del power-dressing e abbandonare abitini, golfini, scaldacuore e camicette, tessuti morbidi e il taglio impero di quest'anno, per tornare a sigillarsi nei tailleur scolpiti, con la vita da Barbie e le spalle flessuose come un attaccapanni. Imitando più che lo stile neo-Jackie di Cecilia (ex) Sarkozy, quello cancellieresco di Angela Merkel o quello di Hillary, la candidata-dominatrice.
E quelle imbottiture, poi, sono davvero archeologia della moda: tristi, posticce, mal attaccate, mai a posto e simmetriche. Come i «pesciolini» che qualcuna si ostina a mettere nel reggiseno, ma quelli, almeno, servono ad arrotondare forme disperse, non a «volumizzare» omeri per riconvertirli in un'arma contundente.
Se tailleur dev'essere, scegliamolo come quello delle quattro ragazze pronte a sostituire Carrie e amiche dell'ormai storico «Sex and The City». La nuova serie si chiama Cashmere Mafia e ha pure la stessa costumista, quella Patricia Field celebre per aver inventato il guardaroba televisivo di Sarah Jessica Parker (molto più originale dei capetti che la poveretta, costretta a essere Carrie per sempre, indossa nella vita vera). Le nuove quattro sono donne in carriera, ma "cashmire" appunto, morbide, sensuali, e indossano tailleur «corporate», aziendali, che sono sagomati, femminili, con giacche sciolte non necessariamente abbinate alla gonna.
Il «power», adesso, sta negli accessori. La borsa (ma per favore, non con il logo a vista) e le scarpe. Un paio di Manolo Blahnik, meglio ancora di Christian Louboutin, sono più «intimidenti» di qualsiasi spalla, per quanto rimpolpata sia.
@boria_a
Le protagoniste di "Cashmere Mafia"

martedì 30 ottobre 2007

MODA & MODI

Gambaletto crudele

Michela Vittoria Brambilla

 
 
Michela Vittoria Brambilla le ha inflazionate, d'accordo. Quelle autoreggenti esibite dalla prediletta del Cavaliere in tutte le occasioni utili, quel pizzo a vista d'ordinanza per ogni intervista televisiva, hanno tolto all'accessorio in questione parecchio allure. Triste ammetterlo, ma anche le fedelissime delle autoreggenti per motivi di pura praticità e comodità, oggi se le vedono consegnate a un gioco mediatico-seduttivo un po' furbesco e decisamente superato, che anche Berlusconi pare abbia consigliato alla sua scalpitante seguace di praticare con più moderazione.
 
L'alternativa non è delle più incoraggianti: archiviata l'autoreggente, (commento politicamente scorretto? Con chiome mesciate, botox qua e là e décolleté sempre in primo piano, alla faccia dell'anagrafe, fa parte del kit dell'osservante signora berlusconiana...) ecco resuscitato dagli stilisti un altro piccolo orrore: il gambaletto. Proprio lui, il fratello maggiore del fantasmino.

Quell'indecisa mezza calzetta che di solito si indossa insieme a una buona dose di autoconvincimento (è così pratico sotto i jeans...) e che segna implacabilmente il polpaccio, quel tatuaggio di elastico che si imprime nella carne e resiste a robusti massaggi, è stato sdoganato sulle passerelle. Anzi, da qualche stilista in vena di sadismo, proposto anche per la sera, in una versione che lascia il piede nudo e libero di trasformarsi in un bastoncino findus dopo pochi passi.
 
L'anno scorso era la parigina, la calza di lana che riesce a trascinarsi a mezza coscia ed evoca un piccolo erotismo da merlettaia. Quest'anno è il gambaletto nudo e crudo, che non fa nulla per nascondersi, ma si porta con la gonna in colori psichedelici - zucca, viola, giallo, verde - a disegnini spiritosi (teschi?), a righe, fiori, con il bordo alto di pizzo, o coprentissimo in tartan, spinato, verde militare, grigio ferro, opaco come una calza da uomo, obbligatorio per le microgonne e per i pantaloncini che sono la più temeraria tentazione estetica di quest'inverno.
 
Armani l'ha disegnato addirittura sul collant, con un incrocio di righe che mette a dura prova anche la silhouette più perfetta. Il calzettone con le ballerine è l'opzione più casta. Chi non ha problemi a strafare sceglierà il calzino da educanda su tacco altissimo, quello bicolore con bordo rovesciabile, avvistato perfino sui tronchetti, il che aumenta il margine di rischio.

Gambe osservate speciali, dunque. Perchè per farsi del male, quest'inverno non c'è che da scegliere. Oltre al gambaletto, ci si può sbizzarrire con un reperto degli anni Ottanta, quei leggings che fanno apparire goffa e lardellata perfino la disinvolta Luciana Littizzetto di «Che tempo che fa». I leggings si vedono in ogni vetrina, su manichini anoressici, cosce scolpite e polpacci steliformi. E nemmeno lì riescono a liberarsi da quell'aria da pantacollant domestico per fare le pulizie...

twitter@boria_a
 
Parigina mon amour

martedì 16 ottobre 2007

MODA & MODI

Lessons of lingerie

Vivienne Westwood nel '92 a Buckingham Palace

La chiamano «infamous lingerie company», intimo per ragazzacce, misto tra erotismo lussuoso ed esibizionismo birbante. Finora, dall'Italia, si comprava solo on-line, visitando un sito ad alto contenuto voyeuristico, dove la burrosa Maggie Gyllenhaal, nuova testimonial subentrata quest'anno alla sbattuta Kate Moss, interpreta le avventure di Miss AP, insegnante piccante di «lessons of lingerie». Adesso Agent Provocateur è sbarcato anche da noi, con un corner alla Rinascente di Milano, primo punto vendita in Italia.
La griffe è di un dissacratore genetico, Joseph Corre - figlio della stilista inglese Vivienne Westwood - e della sua ex moglie, Serena Rees, che tredici anni fa hanno aperto la prima boutique londinese, a Soho. Lo slogan della campagna pubblicitaria era già tutto il programma: «La settimana delle moda è morta, questa è la settimana della passione». Luci soffuse, ambiente boudoir, divani rossi e strepitose commesse, opportunamente selezionate, che, da allora, indossano la severissima vestaglia rosa cipria disegnata dalla mamma-suocera, «Queen Viv», sotto la quale s'indovinano, senza un grande sforzo di fantasia, i pezzi bollenti della griffe. Abbinamenti di tinte shock, una linea estrema che rasenta il fetish, qualche giocattolo un po' perverso, una sezione premaman che fa dimenticare quegli orridi reggiseni contenitivi e mutandoni a panciera dentro cui sembra opportuno infilarsi quando già il corpo subisce trasformazioni naturalmente poco seduttive. E attenzione: non si tratta di intimo ridotto per esibire il pancione - abitudine ancora più disdicevole di quella della biancheria a vista, volgare piuttosto che trasgressiva - ma di capi discreti e sofisticatissimi. Come il completo che ha fatto un po' da simbolo alla collezione di quest'anno: reggiseno, mutande altissime e reggicalze, spartani e senza pudore, nell'apparentemente insulsa e brodosa tinta carne, che qui ha una virata torrida. Tra il nylon da quattro soldi e il pizzo acetato della lingerie made in Taiwan ha un effetto dirompente: dice tutto senza mostrare niente.
Non poteva esserci momento migliore per lo «sbarco» italiano di Agent Provocateur che l'anno che riscopre il burlesque, la confusione tra giorno e notte, il libertinaggio come gioco. Per l'intimo è un momento d'oro, basta sfogliare una qualsiasi rivista femminile, dove gli spazi pubblicitari se li contendono gli accessori e la biancheria, soprattutto quella delle catene cheap, tutta blandamente osè e con molte citazioni dal passato: sottovesti, reggicalze, guepiere, bustini.
Ap è tutt'altro che a buon mercato, ma la qualità dei materiali giustifica le cifre: chiffon, pizzo e seta per un intimo che, pur spinto, non cade nel volgare. Dice Serena Rees: «Nel cassetto di una donna non deve mai mancare biancheria nera e di pizzo. Ma le italiane, così ben vestite, non sanno scegliere i reggiseni. Ap ha un servizio "costumized" per ritoccarli su misura e offre sei diversi tipi di coppe, dalla A alla F. Senza il reggiseno giusto si rovina anche l'abito più sexy».
Tutta all'insegna della «famiglia» Westwood, dunque, la moda milanese, che festeggia «Viv» con la mostra antologica a Palazzo Reale, allestita qualche anno fa al Victoria & Albert Museum di Londra. Per la griffe dell'intimo del figlio, il corner milanese è un primo passo, in vista dell'espansione del marchio in Italia. Ap ha quaranta negozi monomarca nel mondo oltre a vari punti vendita e in progetto il lancio di una linea di scarpe fetish con i connotati dell'alta moda.
Non siete amanti del genere e preferite biancheria di cotone, sobria e sbrigativa? Farsi un giro nei negozi-alcova è comunque «inspirational». La consapevolezza di avere addosso lingerie ricercata, anche senza l'intenzione di condividerla, cambia il portamento, la sensualità dei gesti e influisce sulla sicurezza di sè. Unica eccezione l'incorreggibile Vivienne Westwood, che invitata dalla regina Elisabetta a Buckingham Palace, nel 1992, per il conferimento dell'Order of British Empire, si fece fotografare dai giornali di mezzo mondo mentre piroettava senza mutande.
twitter@boria_a

 Maggie Gyllengaal è Miss AP per Agent Provocateur (f. Alice Hawkins)


mercoledì 10 ottobre 2007

IL LIBRO

Lisa Corva, neo-povere ma con glam

Glam Cheap di Lisa Corva (Sonzogno)
Lei, Stella: una colf dell'editoria, una giornalista super-precaria, a ore appunto, che le riviste chiamano quando sono sull'orlo della chiusura del numero, per lo più per riempire didascalie con il nome degli inserzionisti pubblicitari o per identificare marca e costo degli accessori delle «celeb». Lui, ex S-Manager, oggi marito S-Licenziato, sui quaranta, con pochissime speranze di ritornare nel circolo produttivo. In due hanno 999 euro da far bastare per un mese. Ovvero: dimenticare tutta una vita precedente da coppia MB, Milano bene, e inventarsi tutta una vita presente da Nuovi Poveri. Anzi, per dirla con Stella, da Nuova Povera Creativa, ben decisa a non soccombere all'eurostress a colpi di caccia selvaggia all'offerta promozionale e allo sconto last-minute.
E' «Glam cheap» (Sonzogno, pagg. 233) il nuovo libro di Lisa Corva, giornalista triestina (e molto, molto milanese d'adozione), che, un paio di anni fa, ha esordito come scrittrice con il delicato, coinvolgente, divertente «Confessioni di un'aspirante madre». Questa volta non c'è più Emma e la sua vita regolata dalle ovulazioni al centro della storia (anzi, Emma rimane come in un piccolo cameo, è la vicina di casa che vive in pigiama e aspetta la cicogna...), ma la protagonista è Stella, la Ragazza dall'occhio Prezzante, espertissima a riconoscere, in un batter di ciglia, che borsa e quante migliaia di euro portino appese al braccio le tante Victorie-Kate-Sienne-Paris che zavorrano le riviste femminili.
Sarà una Bouvier di Gucci, una Gaucho di Dior, una Kelly o una Birkin di Hermes? Per pochi euro al mese e la prospettiva remota di un'assunzione, Stella guarda, «prezza» l'accessorio e calcola il totale. Dà del tu all'introvabile Coco bag di Chanel, sa tutto su tutte le «limited edition», per cui c'è una vana, disperata, interminabile lista d'attesa, ma non ne ha mai vista una dal vivo. Nè può permettersi l'equivalente «povero» di Zara. Glam per far quadrare il bilancio, cheap per necessità.
Glam cheap, dunque, ovvero manuale di sopravvivenza per giovani adulti senza lavoro e reddito fisso, ma soprattutto sguardo divertito e impietoso sul «backstage» delle riviste femminili, tra direttore «tacchettanti», redattrici smutandate, pierre fameliche, precarie costrette a occuparsi di incredibili «servizi piliferi», ovvero della ceretta della signora Beckham e di tutte le sciampiste «celeb» del mondo.
Che fare per non prosciugare i 999 euro, e, se possibile, per farli arrampicare oltre il limite di povertà? Regola numero uno: tagliare senza pietà. La brioche al bar, il taxi, il sushi consolatorio. Regola numero due: far tesoro di ogni scoperta da Nuova Povera e trasformarla in 'opportunità. Ecco allora Stella addentrarsi nel misterioso e ingannevole mondo dei punti fedeltà (ma servirà davvero una macchina per il pane???), inventarsi una dieta dell'offerta speciale, dar fondo a ogni armadio, suo e altrui, per rivendere tutto al «cheap market», riconvertire la casa in «bed and breakfast», scoprire con orrore che una bottiglietta d'acqua, nella neo-Milano da bere, può costare 1 euro e quaranta, quindi pensare subito a un contenitore design dove occultare la «Sindaco's water», la triestinissima acqua «di spina».
Sophie Kinsella alla rovescia, allora. La sua Becky era una shopaholic, la Stella di Lisa Corva è una discount-aholic. E, a guardarsi bene in giro, anche dove tutto è glitterato, di vite cheap che aspirano ad essere glam ce n'è un sacco. Che dire della «direttora» (chissà se l'interessata - che esiste, eccome - si riconoscerà???) con la Balenciaga tarocca, della serie «Il diavolo veste Zara»? O del ristorante giapponese con i mobili brianzoli e il succedaneo di sushi che si spiaccica nel piatto? O delle ragazze sull'autobus, cheap finte glam, fiere delle loro autentiche Gucci senza più un euro da metterci, accanto alla coetanea glam finta cheap con una smagliante Louis Vuitton che imita le shopping bag di plastica?
Perchè i due mondi si intersecano, anche nella vita vera. I grandi magazzini chiamano star miliardarie come testimonial, le star miliardarie si sollazzano a disegnare linee per chi divora le riviste femminili con le loro foto.


La collezione di Kate Moss per Topshop
 

Le catene «low cost» si rifanno un look stiloso, come l'Oviesse che ha appena aperto, in galleria Passerella a Milano, l'elegante Ovs Industry. Madonna e Kate Moss diventano stiliste per i magazzini H&M e Topshop e la star glam per eccellenza, Sarah Jessica Parker, che a maggio sarà sugli schermi americani con lo strepitoso guardaroba della versione cinematografica di «Sex&The City», lancia la sua linea «Bitten», con abitucci che non costano più di quindici dollari.
Sarah Jessica Parker con "Bitten" (fonte Just Jared)

Ce la farà Stella a salvare dalla bancarotta il suo matrimonio in una città dove accanto al panificio-gioielleria di Princi, con i fornai che lavorano in vetrina ventiquattro ore su ventiquattro per sfornare michette dagli ingredienti esotici, c'è il panificio che vende pane e brioche «last minute», ovvero la produzione semi-rafferma del giorno prima al cinquanta per cento in meno? Dove le macchinette aziendali offrono tristi carotine in busta per giornaliste (con contratto regolare) magre e arrabbiate, mentre nel mercato rionale si vende non solo la verdura che rimane a prezzi stracciati, ma anche abiti a dieci euro senza etichetta (sarà per attaccarci sopra un'autentica D&G?) e un'ineffabile Chen numero 6, versione cinese di Chanel n.5?
E si salverà stella dalla «direttora» che, in un rigurgito giornalistico, vuole «stare sull'attualità» e occuparsi finalmente delle donne nelle stanze dei bottoni, di Condoleezza, di Hillary...: «Per il loro tailleur avranno scelto Donna Karan o Gap? E quel cappottino bianco di Ségolène di chi sarà?...».
Stella si salva, un po' come Emma, l'aspirante mamma che aspetta ancora. Con l'ironia, con la fantasia, abbandonando lo sguardo «prezzante» e ricominciando a guardare il cielo e non più che cosa sta appeso a braccia e gambe delle «celeb». Ricordandosi che non è stata educata per mettere un cartellino su ogni cosa e che basta un anello fatto delle vecchie, care cinque e dieci lire, delle monetine di una volta spazzate via dall'eurostress, per ricominciare a inventarsi il futuro. Magari, proprio come l'autrice in persona, dall'alto dei suoi sandali Caovilla, che entrambe, Stella e Lisa, seppur ridotte alla fame, difenderebbero con i denti da ogni tentazione altrui. Perchè in fondo, a dispetto di tutto, anche una vita neo-cheap va attraversata sui tacchi. E con un tocco di glam.
twitter@boria_a


Lisa Corva fotografata da Melina Mulas

martedì 2 ottobre 2007

MODA & MODI: istruzioni per tronchetti

Tronchetti. Già il nome non rassicura e dovrebbe mettere in guardia da entusiastici acquisti. Quantomeno fa venire in mente qualcosa di tozzo, incompiuto, squadrato, poco flessuoso. Non illudiamoci, è un po' di tutto questo. Eppure le riviste femminili ci dicono che sono tra i «must have» di quest'inverno, insieme alle calze fluorescenti, ai golfoni di lana, ai guanti fino al gomito e alla cintura-bustier.
Tronchetti, dunque, in inglese «booties», che suona meglio. Né una scarpa né uno stivale, una calzatura incompiuta, appunto, che avvolge il piede un po' feticisticamente e si ferma appena sotto la caviglia oppure, nella versione allungata, si spinge quasi a metà polpaccio, troncandolo senza pietà. Il tacco è sempre altissimo, a matita o a cono, altro particolare che segna questa stagione. Per chi non si fida ad arrampicarsi su quegli otto-dieci centimetri micidiali che, se non allenati, possono distruggere una credibilità, c'è la versione con plateau, quella piattaforma che ammorbidisce l'altezza pur lasciando la sgradevole sensazione di un supporto ortopedico.
La caratteristica dei tronchetti è appunto questa: essere ortopedici, costrittivi, con lacci castiganti, per questo gli stilisti ce li propongono spesso abbinati a tailleur, scamiciati e chignon legnosi, da zitella inaccessibile che suscita fantasie. Piede pudicamente nascosto, represso, e tacco da dominatrice: quale contrasto più stuzzicante?, spiega Berarda Del Vecchio nel suo illuminante «L'adorazione del piede» (Castelvecchi). Lo sapeva bene Rétif de la Bretonne (1784-1806), da cui lo sconosciuto nome di «retifismo», ossia l'amore verso le estremità podaliche e i loro accessori: è la scarpa che lascia immaginare quello che nasconde a scatenare le passioni più accese.
Con una collega consultiamo scientificamente i modelli di tronchetto a disposizione. Bellissimi, anche per chi ha molte perplessità, sono i Jimmy Choo bicolori, con fascia di vernice e l'inconveniente di costare metà stipendio. Ma ce n'è davvero per tutti i gusti e prezzi: di camoscio, vernice, satin, pelle, con inserti metallici, con profili dorati, un'unica o tante stringhe, fascia elastica centrale, fibbie, zip laterali, fiocchi, di tartan, bianchi e neri (perchè sono cinquant'anni dalla celebre scarpa bicolore inventata da Chanel), persino una versione perversissima col tacco a cono irto di borchiette (che, sadomaso a parte, fa venire in mente un sacco di pratiche utilizzazioni, anche nella quotidiana vita lavorativa...).
Ma i «booties» non accettano le mezze misure, non si può «camuffarli» con i pantaloni: amano i contrasti - abitini optical e cappotti striminziti o completi gessati e imbustanti - purchè le gambe sino a vista, meglio se con la calza fosforescente o velatissima. Polpaccio lungo e nervoso sarebbe dunque preferibile, ma c'è un pre-requisito su cui proprio non si può transigere: tronchetto è la scarpa, non la caviglia.
@boria_a

 Kate Moss in ankle booties

martedì 18 settembre 2007

MODA & MODI: di trombini calzate


«Che belli! Ma sono trombini!». Mi guardo fulminea dalla testa ai piedi con crescente ansietà: che cosa posso essermi mai messa addosso che porti un nome così vagamente inquietante? «Trombini, trombini» insiste l'interlocutrice fissando le mie estremità tondeggianti color rosa shocking. Allora capisco: sono gli stivaloni da pioggia di gomma che ho riportato, non con pochi fastidi ma con una certa soddisfazione, da una visita a un'amica americana. Quando - entrambe - li comprammo, un paio di anni fa, erano la novità di stagione anche per l'adrenalinica moda newyorkese, abituata a sfornare e bruciare tutto nel giro di due mesi. Poi, tornata a casa, come spesso accade per le cose «esotiche» raccattate durante i viaggi e che, in loco, ci paiono sempre imperdibili e uniche, i trombini finirono mestamente nel ripostiglio, anche lì non con pochi fastidi logistici. Complice un apprezzamento di mio figlio che, all'ennesima occhiata perplessa indirizzata ai miei piedi durante un giro di prova urbano - tipo i raggi di Spider Man che poi diventano ragnatele - se ne uscì con uno sconsolato «mi stai mettendo in imbarazzo», sgretolando la mia monolitica impermeabilità ai commenti altrui in materia di abbigliamento.
Ebbene, queste amarezze stanno per finire. Il 26 agosto scorso la sezione domenicale sullo stile del NewYork Times ha dedicato mezza pagina ai «trombini» e, in una galleria fotografica piuttosto ricca, ha collocato anche il famigerato modello rosa shocking, il primo della serie (che ora, per la verità, mi appare piuttosto spartano), ormai archeologia del galoscione anti-pioggia. Sdoganati e non solo. Tutte le griffe hanno proposto la loro versione: sagomati, con tacco, con fibbie e decorazioni all'altezza del ginocchio, a pois, disegnati a quadrettoni tartan, a righe, gialli, bluette, viola, arancioni, versione nero lucido da sera. Oltreoceano non hanno ormai nulla di trasgressivo e, nei nubifragi dei giorni scorsi, era difficile trovare immagini televisive di Manhattan che non fossero punteggiate di persone di ogni età intente a guadare le immense pozzanghere nei loro coloratissimi wellington. Trasgressiva, caso mai, è la loro riconversione da accessorio di utilità ad accessorio «fascionista»: il modello più basso, a metà polpaccio, si porta senza una nuvola all'orizzonte e con leggins o calze nere velatissime come il più sciccoso degli stivali dal tacco a stiletto o a cono.
Anche da noi i parapioggia di gomma non sono una novità. Hanno esordito l'anno scorso, ma senza decollare. Quest'anno ricompaiono nelle vetrine non più in versione Camilla, informi e di un tristissimo verde oliva, ma colorati e con fantasie spiritose, vero antidoto psicologico agli inconvenienti della pioggia. Personalmente insisto col mio modello ormai d'antan. Tinta unica ma imperativa. Come dire: ho un certo coraggio, senza strafare.
@boria_a

martedì 4 settembre 2007

MODA & MODI

Le coppie scoppiano, se non fashion-compatibili

 Kate Moss e Pete Doherty

Trovare un partner esteticamente compatibile è altrettanto difficile che trovare un partner genericamente compatibile. Anzi, la prima difficoltà si somma alla seconda, rendendo l'impresa quasi disperata. Arrivate all'età della ragione, quando la miscellanea degli indumenti, o comunque la divisa del gruppo di appartenenza è ormai un nebuloso ricordo, si prova un insopprimibile fastidio a ritrovarsi in una coppia male assortita, scoordinata, che non condivide lo stesso stile. Della serie: tu esci col vestito vintage di Marc Jacobs che hai fortuitamente scovato in un negozio second-hand chic durante una vacanza all'estero e lui, del tutto inconsapevole, si ficca negli stessi torpedoni da ginnastica di ogni giorno e con la maglietta del dopolavoro sportivo (logo a vista, of course).
Oppure: lui in completo Dolce & Gabbana (volenterosa interpretazione, se non altro) e lei in shorts e stivali da mandriana, tipo aspirante fidanzata del tronista.
Dare un'occhiata in giro è un esercizio divertente: quante ce ne sono di coppie che non scoppiano alla prova del guardaroba? Pochissime. E non si tratta solo di coppie stabili, ma anche di coppie occasionali. Mai preso il
consueto aperitivo con un collega in crocs, bermudoni e cellulare appeso al collo? Beh, non è un'esperienza che ti fa vacillare sulle scelte fondamentali della tua vita, ma qualche dubbio lo insinua, almeno sul tasso interno di credibilità di queste rubriche. Mai andate a teatro con il little black dress per scoprire che l'accompagnatore si è messo la camicia con le maniche corte o che ha i calzettoni di spugna?
Di esempi di perfetta compatibilità stilistica cui ispirarsi ce n'è, eccome, anche senza arrivare agli estremi, nell'uno e nell'altro senso, vedi i coniugi Beckham, o Dita von Teese e l'ex marito Marilyn Manson, così perfettamente amalgamati da risultare perfino stucchevoli, o, tra gli eterni scoppiati, Kate Moss e Pete Doherty, che combaciano al millimetro, dal gilet cascante alle occhiaie violacee, per finire con il tandem Briatore-Gregoraci, perché pure coattopoli ha i suoi codici «estetici» di riferimento (è possibile andare in giro con uno in pareo e catenazza al collo se non equipaggiate di cinturona, microgonna e supporti di silicone??).
In fondo tutte le fan di Sex and The City sapevano benissimo che Carrie non sarebbe finita con Aidan, lei così «stilosa», lui così inguaribilmente country... Neppure con lo smoking preso a prestito e l'anello di fidanzamento in mano riusciva a togliersi di dosso quell'aria da uomo di transito...
Che fare quando non c'è alchimia? La convivenza non è un rimedio: per quanto la pressione possa essere alta, c'è sempre un fantasmino che sfugge al controllo, un tarocco occultato in fondo al cassetto. L'età favorisce comunque la rassegnazione, come pure in altri ambiti.
Oppure, non demordere. E insistere: cercasi benestante, colto, amante della famiglia, fashion-compatibile...
@boria_a

martedì 21 agosto 2007

MODA & MODI: il codice delle "tutiste"

Britney Spears (ph. www.mega-wallpaper.com)
Quando l'artista fiorentino Thayaht, al secolo Ernesto Michahelles, la  lanciò, nell'estate 1920, era considerata l'abito più audace, nata per i meno abbienti ma subito adottata da aristocratici in cerca di eccentricità. Funzionale, disinvolta, economica, faceva risparmiare tessuto, lavoro, ma soprattutto tempo.
Geniale invenzione, la tuta. Con cui Thayaht, figlio di una famiglia cosmopolita di intellettuali e in contatto, fin da giovanissimo, con i futuristi fiorentini, voleva rompere con «l'abito passatista epidermico scolorito funebre decadente noioso antigienico», secondo la nuova estetica del vestire futurista di Giacomo Balla. La disegnò insieme al fratello Ruggero, in arte Ram, e la diffuse attraverso il quotidiano «La Nazione», con cartamodello in carta velina al prezzo aggiuntivo di 50 centesimi. Era l'«abito universale», pratico, fai-da-te, che costava poco e rompeva le regole borghesi. Tre anni dopo la ripresero i costruttivisti russi, si chiamò «Varst», vestito rivoluzionario dell'uomo nuovo.
Da allora, periodicamente, la «democratica» tuta ricompare nelle proposte della moda. Ci sarà anche quest'inverno, in materiali diversi, dalla flanella al satin, presentata in passerella con tacchi altissimi e cinturone in vita, a segnare seno e sedere. Se Thayaht pensava a un indumento che favorisse comodità, senso del benessere e libertà di movimento, l'evoluzione della sua idea ha preso strade perverse. Di democratico, la tuta 2007 non ha proprio nulla. Anzi è abito per poche, altissime, longilinee, con gambe nervose e sedere carioca. Chi mai, se non una silfide che tocca almeno il metro e ottanta, può pensare di imbustarsi in questo monopezzo poco malleabile e tendente ad appoggiarsi su quanto ci si sforza certosinamente di nascondere, fianchi rinforzati, glutei un po' frananti, cosciotte?
Le griffe che rispolverano la tuta, seconde linee a prezzi contenuti, si indirizzano tutte a un target di giovanissime, ma l'età anagrafica non è una zona franca. Per questo must di stagione bisogna guardarsi allo specchio con occhio critico e non farsi sconti. Sono una clessidra con la vita sottile e un fondoschiena marmoreo, che non si trasformerà in un würstel infilandosi in una simil-divisa da aviatore inizio secolo, con zip dal collo all'inguine, tasconi sul petto e pantaloni che finiscono in una ghetta? Rassegnamoci: nel novanta per cento dei casi la risposta sarà no.
Dive e popstar sono state le prime ad adottarla, Madonna con sneakers tempestate di cristallo, Britney Spears e Jennifer Lopez - che i requisiti di cui sopra li hanno, eccome - con gli immancabili stiletto. Il codice Thayaht per le «tutiste» osservanti, però, non prevedeva nulla di tutto questo. Al contrario. Si doveva abolire ogni vana esteriorità, cercare nella massima semplicità la vera bellezza, rinunciare ai tacchi alti. E lo stilista aveva disegnato anche un paio di calzature apposite, destinate a un'enorme fortuna, i cosiddetti «sandali di Firenze» con i celebri «occhi» ovali o «a giglio», che saranno indossati da generazioni di bambini.
L'ortodossia tutista è dunque perfidamente selettiva: perchè sfidarla?
@boria_a
Ernesto Michahelles, in arte Thayaht

martedì 7 agosto 2007

MODA & MODI

L'arte del reggicalze

Dustin Hoffman sedotto da Anne Bancroft ne "Il laureato"

I ganci sotto le gonne si vedono, eccome, per quanti contorsionismi una faccia. E se il modello non è costoso, o addirittura confezionato su misura, le bretelline che partono dalla fascia in vita (e le cui collocazione pare implichi nozioni di trigonometria) non cadono mai nel punto giusto per sorreggere perfettamente le calze, tendono a tirare da una parte, a spostarsi, trasformando l'ipotetico oggetto di seduzione in una sorta di cilicio di cui vorresti liberarti al più presto e non per dar corso ai suoi auspicabili effetti.

Chi ha letto la Sophie Kinsella di «Sai tenere un segreto?» ha idea della faccenda. La protagonista si lamenta dei fastidi legati a un perizoma, ma la descrizione si adatta ad altri ammenicoli del genere: la sensazione di qualcosa che si attorciglia in modo incontrollabile, piccole protuberanze che spingono sul tessuto nei momenti meno opportuni, la cintura che ruota, l'idea che un piegamento scombini tutto l'armamentario.


Indossare il reggicalze, o saperlo scegliere, è un'arte in via di estinzione. E confesso di ammirare con un misto di invidia e stupefazione, nello spogliatoio della palestra, una signora non più giovanissima che lo porta con straordinaria disinvoltura, addirittura sotto i pantaloni. Le mie caute richieste di istruzioni evidenziano un unico fatto: per la generazione del femminismo e dell'immediato post, il reggicalze resta legato a un'idea di seduzione maschile attraverso la sottomissione femminile, quindi da aborrire. L'idea però stuzzica, non solo perché ti senti la Mrs Robinson de «Il laureato», ma anche perché ormai le catene dell'intimo a buon mercato lo propongono in tutte le taglie, i colori, a prezzi convenienti e molto più pudichi e raffinati di quelli volgarotti, di nylon, col pizzo di bassa qualità dei negozi di intimo pseudo-porno.
 

In effetti le vendite dei reggicalze sono in crescita. In Francia lo indossa una percentuale di donne che tocca il 15 per cento e se ne vendono trecento ogni tremila reggiseni. Un piccolo fenomeno, al punto che se ne è occupato anche il quotidiano Liberation, ripercorrendone l'invenzione, attributa a tale Fereol Dedieu, il francese che nel 1876 escogitò un indumento «che forma con il basso ventre, i fianchi e le cosce un quadro di bellezza, o un obiettivo, come si preferisce...». Anche in Italia l'interesse sale, soprattutto tra le giovanissime, bombardate da pubblicità di capi retrò, e tra i loro compagni, che regalano il reggicalze per gioco, senza caricare l'operazione di eccessive aspettative erotiche (ben diversi dai signori furtivi nei negozi di intimo, consegnati all'immaginario cinematografico dalla commedia sexy all'italiana...).

Dice lo scrittore Carlo Castellaneta: «Il reggicalze delimita e insieme esalta uno spazio dove potremmo smarrirci, e quel triangolo diventa così una sezione aurea, un poligono perfetto, la geometria del nostro desiderio...».

Basterà per ispirare le scettiche della generazione «anta»?
twitter@boria_a

mercoledì 25 luglio 2007

MODA & MODI: casual flip flop

L'accusa peggiore che si portano addosso è quella di bloccare la carriera. Secondo l'americana Meghan Cleary, autrice di «The perfect fit: what your shoes say about you» (La misura perfetta: cosa dicono le tue scarpe di te), chi arriva in ufficio ciabattando trasmette un atteggiamento rilassato e balneare, poco in sintonia con la prospettiva di una promozione. Eppure, quest'estate come non mai, sembra camminare con i piedi per terra, anzi, con le dita infilate nella famigerata e poco aggressiva strisciolina. Sono le infradito, le ciabattine da mare che stanno ai sandali gioiello della donna presumibilmente in carriera, come il pigiamone di flanella sta alla sottoveste di seta. E sono dappertutto: le flip flop, come le chiamano i modaioli, si sono affrancate dal loro uso basilare e ora si trascinano orgogliosamente in ogni situazione e a qualsiasi ora del giorno e della notte.
Chi non ha nelle orecchie quel domestico s-cic s-ciac che accompagnava il tragitto verso l'ombrellone e la sensazione di far scivolare il piede disidratato e un po' sabbioso su quella fettina rovente di pura gomma? Dimenticatevene. Le infradito hanno lasciato la spiaggia e sono diventate da passeggio, da lavoro, perfino da sera.
Mentre gli americani abbandonano il Casual Friday  (il venerdì che precede il weekend, quando ci si può vestire sportivi. In una memorabile puntata di «Sex and The City» l'avvocato gay dello studio di Miranda arriva in t-shirt di velo su pantaloni cargo, e questo segna la fine dell'iniziativa...), e tornano al «dress code», una sorta di galateo della moda, da noi - fisiologicamente in ritardo - il Friday in casual si spalma su tutta la settimana. Bermuda, ombelico a vista, e, of course, infradito. Molte società d'oltreoceano hanno posto un veto formale, ma anche qui qualcuno è già corso ai ripari con una circolare ai dipendenti: «Per favore, niente pance scoperte e niente infradito». Lo «sciabattamento», se congela la carriera di chi lo pratica, disconcentra, o meglio, irrita tutti gli altri.
E, nonostante gli sforzi di quante flip-floppano in giro con gonnelline fiorate o che adottano la versione infradito-Birkenstock con doratura (dal temibile effetto insaccato se prive di polpacci all'altezza...), vien sempre da pensare che da qualche parte, magari nella borsetta, ci siano i sandali «veri», pronti a risollevare il glamour di almeno qualche centimetro di tacco. Perchè se le espadrillas, pure loro raso terra, suscitano un rigurgito di nostalgia «come eravamo», le infradito non riescono a liberarsi di quell'aria un po' sciatta, da campeggio, non importa quante paillettes si mettano addosso.
Sugli uomini? Fanno tanto «tronista» della De Filippi, categoria che sembra - e mai troppo presto - finalmente in ribasso.
@boria_a

martedì 24 luglio 2007

MODA & MODI

Men with bag

Giorgio Armani, autunno-inverno 2007

Quando un uomo si trova a dover «trasportare» qualcosa, quando cioè non riesce a consegnare tutti i suoi piccoli ammenicoli quotidiani alla rispettiva accompagnatrice - pregandola di «potresti tenermi questo nella borsa??» e di solito si tratta di quel chiletto di ferraglia - dà luogo ad alcune delle più fastidiose tipologie che ancora si avvistano in giro. Perché il «trasportare» equivale di solito al «mettersi addosso», non importa se l'operazione finisce per creare inquietanti propaggini e bitorzoli che spuntano all'altezza di tasche e giro vita.

La prima tipologia, pare fortunatamente in via di estinzione, è l'uomo col cellulare attaccato alla cintura e custodito in quelle respingenti bustine plasticate. Quando il suddetto telefonino suona o vibra, ecco che il nostro, con suprema stupefazione, si scosta la giacca (ma ci sono anche quelli che lo tengono «a vista») «sbottona» la custodia, armeggia per completare l'estrazione e finalmente, dopo quel buon minuto di piacevole esecuzione di suoneria polifonica (da Mozart all'inno di Forza Italia), risponde alla chiamata.


La seconda tipologia è quella dell'uomo-moschettone, che appende una bella manciata di chiavi (chiavi di che, esaurita la sequenza casa-garage-scrivania dell'ufficio? boh) alla cintura dei pantaloni e poi la sistema nella tasca posteriore o anteriore, salvo prodursi in imbarazzanti contorcimenti quando deve sedersi o appoggiarsi da qualche parte.


La terza è duplice: il vecchio estimatore del borsello a mano o a tracolla, razza in via di fisiologica decimazione, il ragazzo con lo zainetto, di solito prossimo ai cinquanta e a caccia di conferme, il palestrato con il tascapane a tracolla che sfreccia su due ruote verso il mare con dentro Men's Health. Dal prossimo inverno, ci dicono gli stilisti, cambierà tutto. L'uomo alla moda avrà la «sua» bella borsetta, una specie di enorme shopping bag in materiali spiritosi, tipo plastica o corda, e naturalmente supergriffata. Piacevole veder sfilare in passerella disinvolti maschioni in pantaloni attillati e polo di cashmere che fanno ondeggiare vezzose sportine vuotissime, fingendo talvolta di frugarvi alla ricerca dell'unico oggetto contenuto: l'iPod.


Prevedibile che il nuovo accessorio non abbia il ben che minimo effetto pratico, salvo stuzzicare quei tamarri da copertina che, insieme alle catene dorate, al tatuaggio sul bicipite, al mocassino tutto-logo, si doteranno anche della maxi-borsa con cui trotterellare all'happy hour.
twitter@boria_a

venerdì 13 luglio 2007

E' ITS Six A TRIESTE
Al tailandese Ek Thongprasert la sesta edizione del fashion contest

TRIESTE ITS Six è stato vinto dal tailandese Ek Thongprasert, che si è aggiudicato 20mila euro per la Fashion Collection of the Year. Il Diesel Award è andato al giapponese Taro Horiuchi, il premio speciale alla lituana Migle Kacerauskiene. Due premi a Justin Smith (i-D Award e Maria Luisa Award), mentre il Vertice Award è stato vinto dall'indonesiano Heaven Tanudiredja. Al primo posto per gli accessori la tedesca Susanne Happle, il Ykk Award all'israeliana Liron Braker e il premio speciale ad Anna Sheldon. Per la fotografia ha vinto due premi Jing Quek di Singapore (uno a pari merito con l'italiana Maria Giulia Giorgiani). Anno di studio a New York a May Heek.

L'uomo di Ek Thongprasert

Ex Pescheria, piazza Venezia, imbocco di via Diaz. Nel cuore della pigra Trieste estiva un triangolo umano «anomalo». Il piazzale antistante il Salone degli Incanti è animato da un'indecifracile koinè linguistica: inglese per tutti e poi una babele di idiomi  ncomprensibili, dall'Estremo Oriente alla Lituania. È la tendopoli della moda che come ogni anno, nelle giornate di ITS, invade gli spazi del centro con i suoi spiazzanti ospiti arrivati da mezzo mondo e che in questo weekend si è trovata contigua agli ingombranti camion della produzione cinematografica di «Rebecca», parcheggiati fuori dal Revoltella, tra estemporanee comparse in abiti degli anni Trenta e gli inconfondibili «aò!» romaneschi.
Trieste sottosopra, per dirla alla Mauro Covacich. Chi la riconosceva, ieri notte, serata conclusiva del concorso di moda, accessori e fotografia, quando la musica rutilante dei dj Electrosacher faceva rimbombare i grandi spazi del fu mercato del pesce e sulla passerella cavalcavano modelle slavate dell'Est, mostrando quella che per ventidue aspiranti stilisti, i finalisti dell'edizione 2007, sarà la moda del futuro?
Tra pochi giorni questi spazi saranno attraversati dai bianchi e neri delle sculture di Marcello Mascherini e dei suoi coevi, ma ieri notte dominavano i colori, i decibel sparati a palla, la fantasia esasperata, i sogni di questi ragazzi pieni di sogni che hanno trasformato e frullato kimono, obi, smoking, plissè fino a farne involucri irriconoscibili, mostruosi perfino, che colpiscono a volte per l'apparente importabilità, ma che nascondono, a guardarli da vicino, a toccarli, lavorazioni certosine, da artigiani raffinati.
Fuori, davanti al golfo, cuscini e chaise longue colorati, importati dal riminese, davano un che di «morbido» al pur radicato edonismo triestino. Dentro, una serie di quinte nere, dove sono state appese le immagini dei tredici finalisti della sezione fotografica di ITS Six, per giudicare la quale è arrivato un maestro come Gianni Berengo Gardin.
E poi tanti parallelepipedi illuminati per mostrare al pubblico gli accessori in concorso: stivali, borse, anelli, collari, bracciali. Accanto, i cappelli di un folletto inglese coperto di tatuaggi, con un paio di treccine alla Pippi e i lobi delle orecchie incapsulati in una fila di anelli dorati. Si chiama Justin Smith, diplomato sei mesi fa al Royal College of Art di Londra, e immagina donne che portano architetture di ventagli, calotte con piume, tese larghissime che poi si avvoltolano e diventano coprispalla. «Trieste? Mi avevano detto che era un posto così
piccolo e invece ho deciso di starci un giorno in più, voglio vederla meglio, sono sicuro che mi darà qualche ispirazione», dice Justin, meritatamente pluripremiato, con la pelle mielosa dei britannici aggredita senza pietà dal sole delle Rive. «The weather? "Too" wonderful for me», tempo troppo «meraviglioso» per lui.
Una qualche aspettativa diversa sulla metereologia locale l'aveva anche uno degli ospiti illustri in giuria, Colin McDowell, responsabile della sezione «style» del londinese Sunday Times e tra i più autorevoli commentatori internazionali di moda. «Meraviglioso vivere qui. Finalmente un posto - sospira - dove non incontri quegli insopportabili turisti inglesi e americani. Ma mi avevano detto che qui c'è vento. Io sono scozzese - dice allargando un sorriso attraverso le guance rosse - non mi sarebbe dispiaciuto...». 
McDowell oggi sarà a Milano, al balletto di Bejart con cui la Scala ricorda il decennale della morte di Versace. «"Sei a Trieste???", mi hanno detto i miei amici milanesi», racconta. «"E che ci fai là??". Loro non ci sono mai venuti, come me, ma gli ho detto che è una città "terrific", bellissimo anche il concerto dell'altra notte in piazza Unità, mi sono divertito da matti a guardare le facce della gente. Milano è troppo commerciale, dominata solo dai grandi nomi, Prada, Dolce&Gabbana. Qui si respira un'aria diversa, ma non è rilassante, questi ragazzi ti obbligano a un'attenzione costante, è difficile scegliere i vincitori».
In prima fila, alla sfilata nell'ex Pescheria, Renzo Rosso, il tycoon del denim, che già venerdì, insieme al suo direttore creativo Wilbert Das, si aggirava tra le mostre, in pantaloni bianchi e flip flop, fiutando talenti da reclutare per la sua scuderia. Più in là, con signora, il sindaco
Dipiazza, che pare abbia gradito questa momentanea rivoluzione della Pescheria, e ancora l'assessore regionale Roberto Cosolini, e l'assessore comunale Maurizio Bucci, un amico della prima ora di Barbara Franchin e di tutti gli organizzatori di ITS Six, che ieri sera, giorno del suo compleanno, è stato simbolicamente ringraziato con una candelina. Venerdì da queste parti è passato pure l'assessore alla cultura Massimo Greco, con un filino di curiosità.
Victoria Cabello scandisce i vincitori. Uno, ed è la novità, lo sceglie il pubblico via sms. L'ultima passerella è per tutti i finalisti, per la prima volta quest'anno arrivati anche da Estonia, Lettonia, Lituania, Romania. I più visionari, però, parlano le lingue dell'oriente, Thailandia, Sud Corea, Indonesia, Singapore, Giappone. Hanno nel dna manualità e cultura antica, più la capacità di intercettare il futuro. Quel futuro nella moda che, per qualcuno di loro, ieri notte è cominciato da qui.

twitter@boria_a

martedì 10 luglio 2007

MODA & MODI: estreme estremità

Meghan Cleary (www.missmeghan.com)

La pazza estate è cominciata, soprattutto dietro le scrivanie. Il caldo affloscia i freni inibitori e il primo a saltare è quel dress code da ufficio che, per quanto trito, nei mesi invernali impedisce alla dignità estetica di finire allegramente sotto i piedi.
I piedi, appunto, sono i primi a beneficiare della liberazione selvaggia dall'indumento. Ecco allora che lui infila il piede nudo nel mocassino o nella scarpa da ginnastica perchè ha seguito con attenzione le ultime passerelle della moda maschile, salvo poi - visto che in genere la sua giornata dura più dei due minuti della passerella - doverlo scrostrare ogni sera con laboriose operazioni. Meglio nudo, comunque, che infilzato nell'obbrobrioso «fantasmino», quella mezza calzetta, in tutti i sensi, che molti davano prossima a morire già nelle scorse stagioni e che invece continua a godere di ottima salute e soprattutto fuori dalle palestre, dove invece dovrebbe essere confinata.
Non c'è niente che accasci di più qualsiasi tipo di velleità, giammai erotica ma pure di semplice conoscenza, che vedere quel piccolo ritaglio di stoffa spuntare dal bordo della scarpa, bianco o anche blu che fa più distinto, come ad affermare una sua orgogliosa presenza («fantasmino», lo dice già la parola, ha un che di infantilmente burlone e finisce per risalire sempre da qualche parte, per quanti sforzi si facciano per schiacciarlo verso la pianta del piede). E che dire di quei sandaloni marroni, bisex, da teutonico in vacanza che hanno il duplice effetto di dare al piede la linea di una bistecca oltre ad appiattire verso il basso tutto il polpaccio?
D'estate poi si assiste a uno strano fenomeno di mutazione genetica femminile: le «zoccolanti», che d'inverno infilano i jeans con le tasche posteriori griffate dentro stivaloni da mandriano e che deambulano con la stessa leggiadra gentilezza, si trasformano nelle «ciabattanti», il cui arrivo è annunciato dall'inconfondibile «s-cic s-ciac» delle infradito di gomma, un tempo la calzatura dei vacanzieri che sciamavano mestamente verso le spiagge i massa, oggi sdoganate per la vita urbana.
Meghan Cleary ne «La tenuta perfetta» mette in guardia: «Le scarpe rappresentano il tuo stato d'animo. Indossare flip flop in ufficio non è un buon messaggio. Vuol dire che ti senti rilassato e in vacanza» (suggerimento applicabile anche agli stivaloni, altrettanto rumorosamente «ludici»). Banche e grandi società inglesi e americane le hanno specificamente vietate, mettendo un argine alla deriva balneare del «casual friday», l'abbigliamento sportivo concesso nel venerdì che precede la pausa del weekend.
Ma l'allegra estate dell'ufficio non finisce qui. Spuntano camicie fiorate, quelle che di solito si mettono una volta sola, nel viaggio di ritorno dalla vacanza esotica, ombelichi e pancette a vista, canotte, pantaloni informi, polo stazzonate che rivelano ogni debordaggio, cinture taroccate, «crocs», abiti sottoveste che non aiutano nemmeno la carriera, visto che, dicono gli psicologi, mostrare le proprie imperfezioni abbassa l'autostima e suggerisce indecisione (indecisione? Caso mai coraggio...).
La ricetta? Un po' di buon senso. A cominciare dalle estremità. E se proprio si è tentati dai bermuda, ricordare che Armani li considera di suprema eleganza per l'uomo, purchè portati con giacca e cravatta. E sempre, sempre, con i calzettoni.
@boria_a

martedì 26 giugno 2007

MODA & MODI

Piedi (e lacrime) di coccodrillo



Su Internet il dibattito è rovente: le «crocs» sono pratiche e divertenti o vanno archiviate tra le nefandezze che ogni estate invariabilmente sforna? Da noi questi zoccolotti di cellulosa granulare, con i buchi sulla tomaia per favorire la circolazione d'aria, sono arrivati con oltre un anno di ritardo rispetto agli Stati Uniti e ad altri paesi europei e non hanno sbancato, nonostante il colorato ciabattare in video degli allegri chirurghi di Grey's Anatomy, una delle serie tv più amate. Questi «coccodrilli» da calzare (così detti perchè vanno bene sia sull'asciutto che sul bagnato) si avvistano ai piedi dei turisti, che le prediligono nei colori rosa maiale e verde flou (c'è da scegliere tra ben sette «nuances» tipo evidenziatore), o dei bambini sotto i dieci anni, non ancora fieramente renitenti alle mamme modaiole.
I bloggers si confrontano con argomenti stringenti: c'è chi le definisce orripilanti, disgustose, roba da «fintissimi medici supercool» (quelli, appunto, della tv), chi confessa di adorarle, anche di più se piene di «jibbitz», ovvero quei bottoncini a forma di animaletto studiati apposta per personalizzarle.
Una chiave di lettura interessante (www.malvestite.net) parla di «compiacimento da schifezza». Le crocs sono talmente brutte che nemmeno ci si azzarda a difenderle, mentre scatta, soprattutto nei fruitori attempati, una sorta di trasgressione geriatrica, del tipo «ahò, guardate quanto so' coraggiosamente autoironico», un po' come per i pinocchietti, le bandane e le mutande taroccate a vista (tornate prepotenti dopo le ultime pubblicità di Dolce & Gabbana).
Anche sul fatto che le crocs siano una manna per l'olfatto nella calura estiva, i pareri restano discordanti. Qualcuno ne esalta l'aereazione, altri confessano che tenerle ai piedi per dieci minuti dà la stessa sensazione che pestare il catrame «fresco» il 15 di agosto. Quel che è certo - come riferisce The Guardian - è che negli ospedali svedesi le hanno vietate, non per motivi estetici - perché, anzi, questi zoccoloni hanno un indubitabile che di kitsch nordico - ma perché genererebbero elettricità statica pericolosa per il buon funzionamento di macchinari e respiratori.
In America c'è la fila di star paparazzate con le crocs ai piedi, come qualche anno fa avveniva per le altrettanto disdicevoli «ugg» (ricordate? Quella specie di calzare da puffo, asseritamente fresco d'estate e caldo d'inverno...). Da noi, hanno risvegliato piuttosto una sorta di orgoglio podologico, provocando l'insurrezione dei cultori di fly-flot, birkenstock, dr.scholl rimodernate, persino delle defonseca con il muso da leone, al grido di: «brutte comunque sono, ma la loro efficacia è comprovata».
Intanto, nella galleria degli orrori, ne entra a buon diritto un altro, molto più inquietante. Avete presente le «fivefingers», quelle scarpette supertecnologiche con le cinque dita dei piedi separate, perfette per sentire il terreno quando si fa trekking o si zampetta tra la verzura dei campeggi? Se le crocs suscitano tenerezze (e indulgenza) da barbapapà, qui siamo all'incubo futuribile, al ritorno del piede prensile da Star Trek.
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martedì 12 giugno 2007

MODA & MODI

Il vintage nella rete


Sophia Loren in Nolan Miller (www.thefrock.com)

Il più organizzato? Prototypevintage.com, autentica miniera di abbigliamento, accessori, bijoux che attraversano le epoche, dagli anni '20 agli '80, con infinita varietà di scelta e facilità di consultazione. Il più elegante? Vintage-paris.com, che offre un'accuratissima selezione di Chanel d'antan, accanto ad altri modelli di storiche griffe francesi, da Hermes a Celine, con qualche stupenda concessione a Elsa Schiaparelli. L'indirizzo per le patite di borsette? Ubny.com, recapito on-line dell'Unique Boutique di New York, dove molte case cinematografiche vanno a pescare pezzi d'epoca ormai quasi introvabili, Gucci e Roberta da Camerino in testa. L'asettico? Decadesinc.com, boutique di Los Angeles frequentatissima dalle star, che haaperto alle vendite anche in rete con collezioni di Courreges, Ossie Clark, Azzaro.

Siti stranieri da perderci gli occhi per le patite del vintage. Alla faccia degli sbiaditi revival della moda attuale (quest'estate sono fiorellini neo-hippy riesumati dagli anni '70...), via Internet ci si può assicurare usato d'autore, il più delle volte in perfette condizioni e aprezzi competitivi. La caccia è davvero a colpi di mouse, basta tener d'occhio gli indirizzi preferiti e vedere con quanta velocità spariscono soprattutto gli accessori, borse e scarpe griffate italiane e francesi al primo posto, sostituite in men che non si dica dal laconico cartellino «sold». Una Gucci col manico di bambù, una Dior col classico monogrammaincrociato durano lo spazio di qualche ora, ma altrettanto avviene, insospettabilmente, per le «zeppone» anni Settanta.


Vi piace sognare? Allora è d'obbligo cliccare thefrock.com, vetrina distupefacenti abiti che vanno dall'età Vittoriana a fine Novecento. C'è anche una sezione dedicata al guardaroba di alcune dive, dove si può acquistare, per esempio, un abito del '75 di Sophia Loren, di taffetà a grandi rose rosse, con stola, firmato da Nolan Miller che ne fece solo due esemplari (uno è rimasto nel suo archivio) e proveniente da un'asta benefica della radio e tv araba del Cairo. L'abito «statico», per la verità, non fa impazzire, ma la foto che lo ritrae addosso a una giovane e radiosa Sophia merita di per sè una visita al sito: sprigiona vita.


Balmain, Lanvin, Givenchy, Oscar de la Renta sono alcune delle griffe storiche della collezione, che firmano anche gli abiti da sposa (ce n'è di stupendi, costano molto meno di quelli contemporanei e hanno un'aria fascinosa inarrivabile). Per chi ha a disposizione una sarta fidata ma ancora poche idee, c'è un Dior del 1955, di pizzo color crema, al quale non costa nulla ispirarsi... Dior festeggia sessant'anni: è come mettersi addosso un pezzo di storia dell'alta moda.
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