martedì 29 maggio 2007

MODA & MODI: il costume intero che non c'è.....

Costumi Cole of California su Grazia, 30 giugno 1963 dal libro "Costumi da bagno" di Doretta Davanzo Poli ( Zanfi Editore)

Più o meno ad ogni avvisaglia dell'estate, riviste femminili e giornali di moda, ci incoraggiano: «Quest'anno grande ritorno del costume intero». Succede regolarmente, a cadenza annuale, e a tale suggerimento ormai si dà lo stesso peso che a «non esistono più le mezze stagioni», luogo comune inoffensivo e perdonabile, perché assolutamente privo di significato. Primo: il costume «intero» non esiste più. Di solito, alle solenni proclamazioni dei magazine, seguono pagine pubblicitarie che propongono modelle avvolte in complicati intrecci di lycra, adattissimi a chi aspira a ritornare da una giornata di sole con il corpo decorato a ragnatela, o infilate in costumi talmente tagliuzzati, scavati, ritagliati, che l'unico punto davvero «intero» è la congiunzione, pressochè infinitesimale, tra le diverse parti.
Secondo: il culto dell'abbronzatura senza soluzione di continuità, anticipato già in pieno inverno con la pratica preparatoria dei «lettini», non ammette segni sulla pelle, né bretelle, né oblò, né fenditure. In spiaggia assistiamo piuttosto a febbrili contorsionismi per ridurre ogni strisciolina, per abbassare ogni triangolino, per minimizzare gli involucri e ampliare le porzioni di pelle esposta. Se il bon ton bandisce perizomi e fili interdentali, a meno di non avere intorno ai vent'anni e un sedere carioca, la sdraio offre una sorta di «zona franca» dell'estetica, dove anche chi ha da tempo superato gli «anta» si destreggia nel ridurre gli slip e nel liberarsi dal reggiseno, almeno a schiena in su. Perché il decalogo della doratura vieta che i top, gli abiti a sottoveste, le trasparenze, le scollature più generose dell'estate, mettano in mostra i binari di pelle bianca lasciati dai costumi, perimetrino con la differenza di colore un corpo che, al contrario, deve sempre dare l'impressione della perfetta nudità.
E l'intero, allora, che fine fa? Nella versione classica è divenuto sinonimo di «contenitivo», serve a reprimere gli eccessi, a raccogliere i dispersi, a modellare i tronchi, a scolpire i fianchi. Non a caso la versione classica parte dalle taglie abbondanti, mentre, intorno alla quaranta, l'«intero» equivale a «creativo». Ecco allora le incredibili versioni di quest'anno, squarciate da ampi tagli lungo l'ombelico, arricchite da cinture o dall'inserimento di pietre e finti gioielli, trasformate geometricamente in due triangoli che si uniscono nel punto vita, a volte addirittura con un accenno di manica, quasi un top da palestra, o decorate da tali intrecci e intersezioni che l'eventuale abbronzatura assomiglia più alla body decoration, a un tatuaggio integrale.
I prezzi di queste dissertazioni sartoriali non inducono certo a esporle agli strapazzi di spiaggia e mare. Chi si avventura in un tale investimento economico, pensa già a promuoverlo a vero e proprio capo d'abbigliamento o a sfruttarlo come top prezioso per la sera, o, al limite, a farci una breve passeggiatina glamour prima di infilarsi in qualcosa di più adatto all'operazione solleone.
@boria_a

martedì 15 maggio 2007

MODA & MODI

C'era Izzy a Trieste, talent scout infelice
Isabella Blow con un cappello di Philip Treacy

Qualcuno forse la ricorderà, superospite della prima edizione di ITS al castello di San Giusto. Quella signora apparentemente fuori contesto, con le labbra rosso fuoco e gli occhi saettanti sotto singolari cappelli che non toglieva mai. Era eccentrica, infastidita, annoiata, simpatica a pochi. Caracollava sul ghiaino, nel cortile del castello, in equilibrio su tacchi a matita, fasciata in un abito di pizzo verde tenero e sempre seguita da un'assistente. Isabella Blow era la componente più autorevole della prima giuria del concorso di moda triestino. Un personaggio il cui nome, ai giovani aspiranti stilisti arrivati a Trieste da tutto il mondo in quella torrida estate 2002, non diceva pressochè nulla.
Ma la capricciosa Izzy, talent scout della moda di fama internazionale, aveva fatto la fortuna di due perfetti sconosciuti come loro, spedendoli all'anonimato tra le stelle: l'enfant terrible Alexander McQueen, che aveva scoperto in una cantina di Piccadilly a Londra, e il pazzo cappellaio inglese Philip Treacy, le cui creazioni continuava a indossare. Lo fece anche alla premiazione del concorso a San Giusto, consegnando, impacciata e quasi controvoglia, il premio più importante al vincitore, Daniele Controversio, la cui creatività poco imbrigliabile l'aveva subito intrigata. Vestiva un abito nero semitrasparente di McQueen e un surreale copricapo a forma di vascello di Treacy. Sparì subito dopo, senza concedersi alla festa notturna per i vincitori, ma lasciando agli organizzatori del concorso una frase su cui meditare: «Non mi interessano i disegni, voglio vedere quei maledetti abiti che si muovono sulle persone». Era diretta e aveva un fiuto infallibile.
Non a caso, prima di lavorare come fashion editor per l'edizione inglese di Vogue, per il Sunday Times, per Tatler, prima di essere consulente di aziende come Dupont (che l'aveva invitata a Trieste) e Swarovski, era stata assistente a New York di Anna Wintour, la direttrice di Vogue America che ha ispirato «Il diavolo veste Prada».
Isabella Blow è morta nei giorni scorsi, a 48 anni, suicidandosi con una dose di diserbante nella tenuta di famiglia, vicino a Gloucester. Agli ospiti, tra cui Treacy, aveva detto: «Vado a fare shopping». Lottava con un tumore, ma più che la malattia fisica l'hanno consumata la maternità mancata, forse l'ingratitudine di qualche pupillo (McQueen, quando vendette il marchio a Gucci, la mise da parte...) e la depressione che, confessava al marito, il nobile Detmar Blow, non «riusciva a sconfiggere». Nella sua storia familiare, un filo tragico: il nonno nobile, sospettato di avere ucciso un rivale in amore, pure lui suicida, un fratellino annegato sotto i suoi occhi nella piscina, mentre la madre, impenetrabile, era corsa in casa a mettersi il rossetto. «Questo può avere qualcosa a che fare con la mia ossessione», ammetteva Izzy. Quando la sentivano arrivare, proprio come la Miranda del film, le sue collaboratrici si affrettavano a ritoccarsi le labbra, perchè Izzy non parlava con chi non portava rossetto. Aveva già tentato il suicidio due volte, la prima gettandosi da un cavalcavia di Londra, che considerava un'icona degli anni Sessanta.
Quando venne a Trieste, si aggirava tra i giovani stilisti quasi disinteressata. Eppure non le sfuggiva un dettaglio, le bastava uno sguardo per misurare le novità, capire le potenzialità di un'idea, scartare la ripetitività. Aveva un linguaggio colorito, tagliente, disegnava o
cancellava un vestito con due aggettivi. Ma Izzy era insofferente al lavoro di giuria, riteneva il suo parere indiscutibile e non mediabile.
Alla fine non è riuscita più a trovare una casa nel mondo e tra i guru che aveva contribuito a creare. A sentire calore sotto quelle luci che, alla lunga, stancano, e poi ghiacciano.
twitter@boria_a

martedì 1 maggio 2007

MODA & MODI: new nude

Penelope Cruz alla notte degli Oscar (ph. Vince Bucci/ Getty Images)

Cipria piace più di nudo. Evoca una sfumatura aerea e soffusa, un'idea di incarnato perfetto, non quella del cerotto o delle calze correttive. Lo si chiami come si vuole, questo difficilissimo colore è arrivato sulle passerelle e nei negozi: abiti, costumi da bagno, accessori, scarpe, make-up, boccette di profumo dalla nuance indefinibile, che precede e scivola nel rosa. Tutto concorre a creare una seconda pelle: disegna il corpo ed esalta le forme, pur coprendolo come quello di una suora.
Perché il new-nude è il contrario dell'esibizione. Allude, ispira, suggerisce, propone sottovoce, s'insinua nella fantasia invece di propinartela già bella e confezionata. Davanti alla parata quotidiana di glutei carioca perfettamente bronzati, spiazza la scelta di infilare le donne in abiti così cromaticamente indefinibili, per nulla gridati, che si appoggiano sulle curve e non le piallano. In costumi da bagno che sembrano tutt'uno con la pelle. E' un'allusione di nudità che diventa un'illusione, ristoratrice in tempi di vallettopoli conclamate, dove tutto è levigato, modellato, spianato, gonfiato, scolpito e in offerta speciale. Sarà che ormai, per suscitare un qualche remoto interesse nell'osservatore, bisogna negarsi alla perfezione e all'esposizione. Ed è più che mai confortante scoprire che magari è l'asimmetria, il difetto, l'irregolarità a intrigare di più. Il corpo nudo (o la sua idea), anche con i suoi piccoli cedimenti, confonde ancora, nella sua normalità.
Si è sempre detto: il rosa carne «sbatte», sta bene a poche, fa sembrare un'insegna al neon anche il più timido accostamento colorato. Allora gli stilisti spezzano l'uniformità con ragnatele di pizzi neri, con sovrapposizioni di ricami e intarsi, con discese di pietre dure e applicazioni glitterate, che si allungano anche su scarpe e borse, con bordature sui costumi per «perimetrare» l'effetto pelle. Un trompe l'oeil sofisticato eppure minimale.
E per ammorbidire il crudo termine «fleshy» (l'inglese usato per definire questa tentazione «epidermica»), che sa un po' da tavolo anatomico, basta pensare, per ispirarsi, a due bellezze, opposte, che hanno osato: la diafana Nicole Kidman, in tailleur carne alla Mostra del Cinema di Venezia, e, più recentemente, la bruna Penelope Cruz, alla notte degli Oscar 2007, in uno stupefacente Versace già virato al rosa con lunga gonna di piume.
Femminilità più sussurrata, senza invito esplicito. Discover what is Inside, dice la pubblicità del nuovo profumo di Trussardi, boccetta trasparente, lei che si fa abbracciare in abito-sottoveste e sandali alti color pelle, su uno sfondo delle stesse tonalità. Perchè, dicono gli esperti, adesso che la fisicità è così comune e dilagante, il nudo assume una dimensione quasi astratta. Donne vestite ma come se non lo fossero: l'attrazione passa tutta attraverso la testa.
@boria_a

Inside di Trussardi


IL LIBRO
Laila Wadia: amiche per la pelle in via Ungaretti

La scrittrice indiana Laila Wadia

C'è un microcosmo etnico in via Ungaretti 25, una strada di Trieste rannicchiata giusto a metà tra la città neoclassica di Ponterosso e la ristrutturata Cittavecchia. E' una strada di cui si sono dimenticati sia l'amministrazione che il sole, come le calze vecchie con i buchi che si pigiano in fondo all'armadio ripromettendosi di trovare il tempo, e la voglia, di rammendarle.
In questa via c'è un palazzo muffoso, tozzo e sciatto, dalle cui finestre escono luci diverse, rivelatrici dei singolari inquilini che ci abitano, dei loro caratteri e dei loro segreti. Al primo piano, in un'atmosfera rossa e soffusa, filtrata dai lampadari di carta di riso, vive la famiglia cinese Fong, mamma, papà, nonna e un nugolo di bambini legati tra loro da un'incerta parentela. Al secondo piano, in un gioco di neon blu e verdi, dall'effetto Star Trek, ci sono gli albanesi Dardani, mentre al terzo, illuminati da lampadine a cento watt che penzolano tristemente da fili neri, come impiccati, abitano i profughi bosniaci Zigovic, Slobodan, Marinka e i loro figli gemelli, e gli indiani Kumar, la cui giovane Shanti, mamma della piccola Kamla e moglie del cameriere Ashok, è la voce narrante di questa storia.
Shanti ha visto suo marito solo il giorno delle nozze, a Sholapur, prima di partire per l'Italia, scostando i gelsomini e le tuberose che, dal turbante, gli pendevano davanti al viso: con quell'uomo, dalle mani grandi e ruvide, scoperte solo quando il bramino le ha unite con un foulard di seta, Shanti è partita per un paese e un destino sconosciuto, pregando in cuor suo che quelle mani non si alzino mai su di lei.
Ma c'è anche un'oasi di «triestinità» nel palazzo. E' lo scorbutico gattaro signor Rosso, uno zitellone inacidito tra sigarette, libri e mastodontici mobili impero, che tutti i condomini ormai, cancellando le r come fa Bocciolo di rosa Fong, chiamano signor «Lo So». Ricevendone in cambio, in qualche raro incrocio sul pianerottolo, un secco: «Cazzo, altri negri».
Via Ungaretti non esiste. L'ha inventata Laila Wadia, la scrittrice indiana e triestina d'adozione, per ambientarci il suo primo romanzo, «Amiche per la pelle», pubblicato dalle edizioni e/o, che sarà in libreria l'11 maggio, il giorno dopo la presentazione al Salone del libro di Torino.
Non è una storia di migranti, quella scritta da Laila Waida, o meglio, non è solo questo. L'autrice - quando per la prima volta parlò di questo romanzo in nuce, un anno fa, in un'intervista al «Piccolo» - aveva pensato di intitolarla «Via Ungaretti», perché sono proprio il poeta e i suoi versi a raccogliere idealmente e a districare tutti i fili delle storie che si intrecciano nel palazzo. Storie di sensibilità e provenienze lontane, che trovano un loro miracoloso equilibrio grazie alle quattro donne, le vere protagoniste, Bocciolo di rosa, dolce e burrosa, l'albanese Lule, che sfoggia un benessere ordinario e chiassoso, di oscura provenienza, la dura Marinka, dal cuore disseminato di cicatrici, e Shanti, forse un po' l'autrice, quella in cui la voglia di integrazione è più forte e matura e anche la capacità di intravedere un futuro al di là di quella strada.
E poi c'è Kamla, Camilla come la chiama il signor Rosso («almeno non hai un nome da negra...»), la piccola che per prima entra nell'antro fumoso del gattaro e ci scopre la magia dei versi, delle parole che si combinano in un puzzle dai suoni affascinanti ma dall'immagine ancora indecifrabile. Kamla trova la chiave di un cuore indurito dal tempo e dalla solitudine e cambia il destino di tutti.
E' una lettera a gettare nello scompiglio il microcosmo multietnico di via Ungaretti. Il proprietario dell'edificio è morto e l'erede intende al più presto far sloggiare quei pittoreschi inquilini in nero per ristrutturare gli appartamenti. La Lettera è un nemico subdolo, a tutti quasi incomprensibile. Sta lì, nel soggiorno «internazionale» di Shanti, arredato con il piatto con l'immagine di Durazzo, dono di Lule, con il vaso cinese scheggiato, che la cugina di Bocciolo di rosa non riesce a vendere nella Chinatown triestina di via Ghega, con la poesia di Saba scritta a mano, regalata dal signor Rosso a Kamla, quella poesia che la prima volta che la leggi non la capisci bene... Triestehaunascontrosagrazia...
Lo sfratto è un po' come le lezioni di italiano di Laura, l'insegnante che le quattro donne hanno trovato grazie al «Mercatino» per imparare la lingua: obbliga tutti a fare i conti con il proprio passato.
Marinka non riesce a imparare le frasi comparative. «In Cina c'è più gente che in Italia», dice Bocciolo di rosa. «In Italia c'è più pulizia che in India» le fa eco Shanti. «In Italia c'è meno odio che in Bosnia» riesce a malapena ad articolare Marinka, che in via Ungaretti ha trovato un approdo alla furia della guerra. Lasciare la casa è riaprire una ferita, trovarsi di nuovo sballottata da un destino incontrollabile che annienta ogni fragile certezza, conquistata con i denti.
Ma anche in via Ungaretti non tutto è come sembra e la Lettera apre la strada a una raffica di piccoli colpi di scena. Perché il signor Rosso non reagisce alla minaccia dello sfratto? E chi è quel giovane dalla pelle scura che si presenta a chiedere di lui? Quale segreto ha custodito per tutta la vita l'unico triestino di via Ungaretti 25?
Quando ormai tutto sembra deciso e le amiche per la pelle destinate a separarsi per sempre, ecco che la storia cambia verso e si avvia al lieto fine. E, ancora una volta, la soluzione arriva attraverso una poesia, magari zoppicante e dalle rime incerte, così diversa da quelle brevi e folgoranti su cui Kamla ha imparato a parlare l'italiano meglio dei suoi genitori.
Sottile e compiuta come una filigrana, senza la pretesa di incrociare i grandi interrogativi che accompagnano i movimenti dei popoli, «Amiche per la pelle» è una favola leggera sull'integrazione possibile e necessaria, attraverso la parola di uno, che poi diventa la parola di tanti, anche se dissimili. Come nei suoi racconti, che hanno vinto tanti premi di letteratura migrante ma non solo, Laila Wadia racconta Trieste, i suoi «triestini», «taljani», «negri», con ironia, senza indulgenze ma con l'affettuoso disincanto, perfino un po' complice, del residente. Lo dice Shanti, leggendo «Trieste» di Saba, dono del signor Rosso: «La prima volta non la capisci bene, ma poi ti penetra nel cuore, come questa strana città».
twitter@boria_a

 La copertina di "Amiche per la pelle" (edizioni e/o)