martedì 30 dicembre 2008

MODA & MODI: Carlà a sorpresa tra le malvestite
Victoria Beckham con la "Miss Sicily"
Per riemergere dalla melassa buonista del periodo festaiolo, non resta che consultare le classifiche più gustose di fine anno, compilate non solo dai magazine di moda ma molto più sadicamente dai gossipari on-line: le malvestite per eccellenza del 2008. Che, più estensivamente, vengono incoronate reginette (e reginetti) del cattivo gusto. Nonostante gli sforzi e le decine di migliaia di euro profuse allo scopo, Victoria Beckham non ce la fa proprio a mollare la top-ten, con lievi oscillazioni ristrette sempre ai primissimi posti. Anche nel suo sbarco milanese non ha deluso, incerottata nel prevedibile tubino nero dipinto sulle ossa, le ginocchia uscite dal temperamatite e la borsona di coccodrillo «Miss Sicily» del suo amato duo di stilisti, un assurdo fashion-etnografico. Con lei, tengono strenuamente la classifica l'eternamente derelitta Amy Winehouse, caricatura ormai quasi eroica della barbona, e Lindsay Lohan, che, sotto gli abitucci sbrilluccicanti, quest'anno ha avuto perfino un'iniziativa modaiola, creare una sua linea di leggings: neri e attillati, una creatività insospettabile in un esserino così frastornato.
Tra le new entry del cattivo gusto, la laccatissima Sarah Palin,
Sarah Palin (Gary P Jackson)
con i tailleur legnosi quasi quanto il suo chignon e, a sorpresa, la première dame Carla Bruni, giudicata molto più credibile nelle foto ero-chic che nel guardaroba precisino e monocolore che Dior le ha disegnato addosso per il nuovo ruolo. Madonna è relegata tra i casi ormai irrecuperabili: quale vestito potrebbe donare addosso a questa strana creatura, che tra bisturi, tiramenti di muscoli e palline di silicone ha la gelida elasticità di un manichino? Bocciati senza appello pure i «Brangelina», Brad e Angiolina, con la loro famigliona metà comprata e metà in provetta, che quando si muovono sia per lavoro che per diletto (o per partorire tra la natura, perchè sono persone semplici) finiscono per sequestrare un intero paese. La classifica delle italiane riserva poche sorprese. In tv, vallettume a parte, bocciate l'eterna quindicenne Paola Perego e l'animalista Licia Colò, l'unica conduttrice in grado di presentarsi sullo schermo con le calze color brodo negli stivali neri e una felpetta rossa natalizia. Non pervenute Valeria Marini, che ormai per passarsi il rossetto ha bisogno del pennello Cinghiale, ed Elisabetta Gregoraci, pure lei come Lindsay annoiata al punto giusto per lanciare la sua linea di moda, il brand «Billionaire», minacciato per il nuovo anno, con capi sportivi, eleganti, gioielli a tiratura limitata e abbigliamento per bambini innocenti.
Le signore della politica sono una riserva inesauribile e, a guardarsi in giro, sono anche quelle che seminano più solerti imitatrici, come si dice in questi casi, «sul territorio». Daniela Santanchè, dopo il flop politico, va in giro come una ragazzina, truccata da sembrare struccata, mentre Mara Carfagna si ostina a castigarsi in quei tailleur che dovrebbero trasferire sull'interlocutore una sensazione di solida autorevolezza e che finiscono per farla sembrare sempre fuori posto: subrettina al governo e ministra che promuove pentole. A sorpresa, i blogger salvano Maria Stella Gelmini: gli occhialini, il twin-set e quel filo di perle la fanno sembrare sinistramente perversa, una che, in qualsiasi situazione, fa male.
@boria_a
Carla Bruni col marito al Castello di Windsor nel 2008 con la regina Elisabetta e il principe Filippo

martedì 16 dicembre 2008

MODA & MODI

Re-design d'autore

Riciclo? Sì, ma creativo, bizzarro, imprevedibile e curato nel dettaglio come un capo di sartoria. Microscampoli inutilizzabili che diventano cinture obi, pezzi di tappezzeria trasformati in deliziose pochette o borsette da sera, vecchi bottoni fuori moda recuperati in bracciali stile Chanel, assemblaggi di lane per sciarpe lunghissime come un paramento, cappelli a metà tra il cuoco e il dignitario, maxi-spille a fiore confezionate con ritagli di sete vintage, collane di quadratini di vecchi tessuti uniti da un filo unico, persino un bustier ottocentesco color sabbia di lino grezzo per chi non ha paura di attirare gli sguardi. E c'è pure il riciclo ironico, la finta Fendi di tessuto a righe, da regalare all'amica che del logo proprio non può fare a meno...


Ines Paola Fontana e Roberta Debernardi, il duo artigianal-creativo che si nasconde dietro il marchio Studiocinque e altro (www.studiocinqueealtro.com), pare che lo facciano apposta ad arrivare sotto le feste senza una collezione di gioielli e accessori di tessuto «ortodossa», ma soprattutto «pronta». Il che, per le clienti affezionate, è la conferma di una certezza: ogni pezzo è unico ed è pure un work in progress... Chi entra nello storico negozio di tendaggi di viale D'Annunzio, infatti, capita che non comperi il pezzo già confezionato, ma che finisca per creare e sperimentare combinazioni di stoffe e uscire con un'idea di futuro accessorio studiato lì per lì, da ordinare e aspettare. Loro, infatti, consigliano ma non spingono: così si ritrovano ad assecondare desideri bizzarri, come quello di una borsa «istrice», disegnata e realizzata da Roberta con le stecche utilizzate per i bustini, e a mettere a punto sempre nuovi pezzi per una collezione che, tutta intera, non si vedrà mai. Commercialmente un disastro, ma vuoi mettere la soddisfazione.


Le idee regalo più originali nascono dal progetto «Re-Design» organizzato nel giugno scorso ad Ariis di Rivignano come tappa di «Maravee»: mostra e sfilata all'insegna del recupero e riutilizzo intelligente, filosofia che «ealtro» pratica da sempre. Ci sono microborsette  ssemblate con gli scarti della lavorazione delle tende, minuscole ma consistenti, un grande bracciale a disco composto da ottocento bottoni di modernariato trattenuti da filo d'acciaio, collane leggerissime e anelli sempre di un'inesauribile «eredità» di bottoni ormai fuori produzione, alcuni in una sfumatura glicine molto modaiola, e ancora sciarpe, cappelli, cuscini. Tra gli oggetti propri, anche alcune «ospitalità», come i piattini reinventati di Lucy.d: residui di servizi sopravvissuti a catastrofi domestiche o rimasugli di rigatteria che trovano una nuova dignità di servizio con l'applicazione di foglie di platino e d'oro, le borse fatte di camere d'aria e firmate Kontiki, i vasi di F Maurer che non sono altro che bottiglie decapitate.


Ogni gioiello o accessorio tessile è vintage e riciclo (i cappelli o gli inserti delle stole sono pezzi di vecchi pantaloni o di stoffe da pantaloni mai diventati tali...) ma la loro origine è irrintracciabile e inimmaginabile. Resta quel sottile fascino di fuori moda diventato, di nuovo, di moda.


twitter@boria_a



venerdì 12 dicembre 2008

IL LIBRO

Michel Pastoureau, un black carpet lungo i secoli
Monica Bellucci alla premiere de "L'uomo che ama"
Monica Bellucci imperiale in una fasciantissima guaina sull'ultimo red carpet romano per la presentazione del film «L'uomo che ama». Carla Bruni allungata come una pantera su una dormeuse Luigi XVI per l'obiettivo di Patrick Demerchelier. Penelope Cruz strizzata in una mise a clessidra per lanciare a New York «Vicky Cristina Barcelona» di Woody Allen. Sinuose, intriganti, raffinate, peccaminose. E di che color vestite? Nero. Fanno venire in mente la celebre frase della stilista Sonia Rykiel: «Il nero è indecente quando lo si indossa bene». Indecente e intellettuale, come ci ricordano i maschi total black, dallo scrittore Peter Handke al regista Peter Stein, dal critico Germano Celant al filosofo Bernard-Henry Lévy. È il colore, o non colore, più usato e meno etichettabile: se lo mettono le signore per non sbagliare alle prime, lo preferiscono le giornaliste di moda, come una divisa che fa sentire nel branco eppure distingue. Grida trasgressione se sono i fuseaux a rete di Madonna, rassicura nella versione «little black dress» con cui Chanel ha condannato milioni di donne all'uniforme più democratica e più tirannica. Naturalmente ha un intero guardaroba nero l'affascinante Fleur Daxeny, mangiauomini letteraria creata da Madeline Wickham, vero nome della shopaholic Sophie Kinsella: la «signora dei funerali», appena uscita in libreria, s'imbuca alle esequie di sconosciute, lacrimosa ma anche conturbante al punto giusto per rimorchiare subito il vedovo inconsolabile.
Nero colore che unisce opposti estremi, fin dalle origini con una simbologia ambivalente: esprime fertilità e autorità, ma anche inferno e morte. Comunque sempre alla moda e «moderno», come decretarono, all'inizio del '900, Paul Poiret, sarto amante dell'arte, e Marcel Proust, che vestiva di nero la sua Odette de Crécy, moglie di Swann elegante e libertina. C'è pure il nero lussuoso, nato nel XIV secolo e oggi utilizzato per il packaging dei profumi più preziosi o delle creme per il viso che promettono il miracolo: non si chiama forse «la nuova crema nera» quella di Armani che nasce dal vulcano di Pantelleria, dove lo stilista ha uno dei suoi lussuosi rifugi?
Perchè ci piace il nero? Perchè ci fa sentire maudit, perchè snellisce, perchè si sporca meno, perchè è distinto, o perverso, o funerario, o eccitante? Per scoprirlo c'è un viaggio colto e curioso, «Nero. Storia di un colore» (Ponte alle Grazie, pagg. 210, euro 34), firmato dal cromatista Michel Pastoureau, docente alla Sorbona, che quattro anni fa, con la stessa casa editrice, aveva pubblicato un altro intrigante percorso dedicato al blu e, prima ancora, con «Il Melangolo», un saggio sul rigato, la stoffa del diavolo.
Nero colore difficile, soprattutto da ottenere. Fino alla metà del XIV secolo si tratta piuttosto di «grigiastro», «bluastro», «brunastro». I tintori non sono in grado di produrre un nero nè monocromo nè brillante, come invece già da tempo fanno per il rosso o il blu. Per i rigidi codici professionali, poi, non possono tingere il nero se specializzati in altro colore. Per ottenere pastosità e omogeneità si usano la radice o la corteccia del noce, albero che sia il sapere botanico sia le credenze popolari considerano mortifero e che, sull'uomo, non può non attirare gli influssi malefici del diavolo. Finalmente, con la «noce di galla», si ottiene il total black: un'escrescenza tonda sulle foglie di certe querce dove gli insetti depongono le uova, viene raccolta prima dell'estate, seccata, addizionata con sali di ferro e, alla fine di questa tortuosa procedura, diventa una tintura efficace ma carissima.
La tecnica dunque trascina la corsa al nero nel guardaroba? Attenzione, spiega Pastoureau, è il simbolo che precede la chimica. Neppure la terribile peste che, tra il 1346 e il 1350, si porta via un terzo degli abitanti dell'Europa, determina, per reazione, un abbigliamento penitenziale. Sono piuttosto giuristi, magistrati, religiosi ad adottare per primi il nero come simbolo di austerità e virtù, così come i principi del lusso, il francese Filippo il Bello e l'inglese Edoardo, nei cui regni, a cavallo tra il 1200 e il 1300, il nero dilaga.
Di qui è tutta una galoppata attraverso la cromofobia della riforma protestante, lo spettro dei colori scoperto da Isaac Newton, che mette al bando gli estremi, il rifiuto del nero nel secolo dei lumi e la sua esaltazione da parte di romantici e preraffaeliti, la modernità del nero all'indomani della Prima guerra mondiale, il nero mortale della dittatura del Novecento, oggi il nero della «first family» d'America. E, a proposito di colore «politico», neri sono gli abiti entrati nella lista di quelli che hanno cambiato il costume degli ultimi cent'anni: i completi a vita alta e i cappottoni di Malcom X, leader dei musulmani afroamericani, nero su nero su nero.


Marlene Dietrich ne "L'angelo azzurro"

Eppure, di trasformazione in trasformazione, è rimasto sempre il profumo del proibito. L'intimo insegna: un secolo fa sulla pelle non si poteva indossare che bianco, il nero era per donne di malaffare, quantomeno ritenuto poco igienico. Bustier, culotte, giarrettiere, sottovesti nere eccitavano, turbavano, si indossavano nel boudoir e si guardavano da buco della serratura. La filmografia ha un'intera galleria di seduzione in nero, entrata nell'immaginario di tutti: nero è il reggicalze di Sophia Loren in «Ieri oggi e domani», nere sono le calze di Silvana Mangano in «Riso amaro» e quelle di Laura Antonelli in «Malizia», nero è l'abito di Anita Ekberg nella fontana di Trevi de «La dolce vita», nero lo smoking di Marlene Dietrich ne «L'angelo azzurro», neri sono gli abiti di Kim Basinger quando incontra Mickey Rourke-John in «Nove settimane e 1/2».
Kim Basinger in "Nove settimane e 1/2"
 


Oggi la lingerie è technicolor, passa dal tartan al ciclamino e le ragazzine riscoprono addirittura il terribile beige. Ma le linee «hot», quelle che propongono modelli come ragnatele dai nomi inequivocabili, «burn», «flame», «batgirl», sono tutti, sempre, «black label»...
twitter@boria_a
Penelope Cruz sul red carpet di Vicky Cristina Barcelona

martedì 2 dicembre 2008

MODA & MODI: tutte aspiranti Jackie

Quale first lady detterà legge in materia di stile nei prossimi mesi? Sarà la premiere dame di Francia, Carlà Bruni Sarkozy, o il suo primato verrà polverizzato dalla nuova stella fashionista, Michelle Obama, le cui scelte dividono il popolo dei blogger e fanno titolo sui giornali? Il match a distanza appassiona il settimanale francese «Le Nouvel Observateur», che non si nasconde come la splendida Carla abbia finalmente trovato pane per i suoi denti. Troppo facile il gioco contro la principessa consorte d'Inghilterra, la goffa Camilla, che accanto all'ex top model, per quanto in grigio e monacalmente bon ton come nell'ultima visita ufficiale nel Regno Unito, sembra sempre la governante vestita da domenica. E troppo scontata la vittoria anche contro le altre signore osservate speciali dai media, la garrula Hillary Clinton, tanto pastellosa, la maestrina perversa Sarah Palin (che pare la versione corn flakes della Gelmini), con quei tailleur griffatissimi e noiosi, l'uscente e severa Condoleezza, mai un guizzo, le signore italiane, squalificate già al nastro di partenza, così labbrute, liftate, fasciate, esposte.

Carlà e Camilla: confronto impietoso
Il prossimo grande appuntamento fra Carla e Michelle sarà il 20 gennaio 2009, giorno dell'investitura di Barack Obama alla presidenza americana. Michelle finora non ha sbagliato un colpo: ciclamino per l'accettazione della candidatura dei democratici da parte del marito, un diavolesco rosso e nero per la notte della vittoria e, in mezzo, tutta una serie di soluzioni, certamente suggeritele con intelligenza, che vanno dal vestituccio del grande magazzino, in sintonia con la recessione internazionale, allo stilista emergente, alla firma di nicchia, misurata ma comunque trasgressiva. Carla, quando ancora all'orizzonte non si profilava nessuna rivale di stile, ha esordito subito con un colpo da maestra: quella lunga guaina da sera color prugna con cui ha fatto sapere al mondo che non gliene importa nulla delle superstizioni e dei luoghi comuni, costringendo la stessa Michelle a seguirla su questa strada. Modello di entrambe, secondo «Le Nouvel Observateur», è Jackie Kennedy, come entrambe hanno deciso di indossare prevalentemente il «made in» dei rispettivi paesi. Michelle preferisce Maria Pinto, stilista di Chicago (quella dell'abito ciclamino sbracciato e con cintura nera in vita), il tailandese Thakoon Panichgul e Narciso Rodriguez, autore del modello nero e rosso della vittoria. Carlà, da quando ha deciso di essere francese fino in fondo, veste solo Dior o Hermes. La first lady ama lo stile colorato e casual chic, mentre la premiere dame ha un'eleganza più classica e raccolta e predilige i grigi, il blu, le nuance del viola. Scarpe basse per tutte e due: l'una per non far sfigurare troppo Nicolas, l'altra perchè con un metro
e 82 centimetri distribuito su un fisico da giocatrice di basket non ha bisogno di aggiungersi altro. Portamento? La rivista francese boccia Carlà, «troppo posata», e promuove la dinamica Michelle, perchè tutto in lei dice «sì, si può». E per quanto riguarda il marito? In attesa di capire chi imiteremo su borse, scarpe e make-up, in fatto di uomini il settimanale della sinistra francese dà l'americana in vantaggio: l'atletico Obama straccia il nanetto Nicolas.
@boria_a
Michelle Obama in Narciso Rodriguez con Jill Biden, moglie del vicepresidente Usa Joe

martedì 18 novembre 2008

MODA & MODI

First red ladies

Il rosso? Colore più politico che mai. Avete presente quello indossato dall'ormai ex aspirante first lady americana, Cindy McCain, in campagna elettorale? Vivo, carissimo, reso ancora più sfacciato da quelle spillone patriottarde di strass.

La cinquantaquattrenne ereditiera della birra non ha mai fatto mistero di amare firme inarrivabili per la middle class americana, come Escada e Carolina Herrera, tant'è che le sue preferenze in fatto di abiti sono state paragonate a quelle di Nancy Reagan, anche lei, guarda caso, innamorata di un «rosso» da migliaia di dollari, quello di Valentino.

Cindy McCain col marito John (Getty Images)
Peccato che giacche e guaine color fuoco non abbiano giovato alla battaglia di Cindy, portando a galla un po' della sua anima da «rodeo girl» dell'Arizona fuori tempo massimo. Soprattutto se abbinati a quei perfetti «republican hair», mai un capello fuori posto, che alla fin fine l'hanno bollata come la Bree Van De Kamp della politica, la perfettissima casalinga disperata pronta a far fuori il marito con la massima nonchalance, ergo, alla Casa Bianca, un tipetto molto poco rassicurante.


Eppure la platinata Cindy aveva vinto proprio la prima sfida del rosso, quella con la sua diretta concorrente, Michelle Obama. Durante la maratona elettorale, strizzata in un abitino a manica corta con un taglio che sottolineava il busto importante, Miss McCain, broche inneggiante ai marine a parte, sembrava molto più seduttivamente disinvolta di Miss Obama, che aveva scelto, pressochè nella stessa tonalità lampone, un vestito con giacca ton sur ton, effetto pacco regalo sulla sua figura piantata.


Michelle è passata attraverso un guardaroba allegramente technicolor: rigati, pesca, verde pisello, spesso comprati in catene da pochi dollari come Gap, H&M e White House Black Market. Proprio in questo store si scatenò una corsa all'accaparramento del modello stampato della stilista Donna Ricco, costo «miseri» 148 dollari, indossato dall'allora aspirante first lady alla trasmissione tv «The View» della rete Abc.


Ultimo colpo di scena l'incredibile ciclamino senza maniche e con cintura nera in vita, disegnato da Maria Pinto e sfoggiato da Michelle sul palco di St. Paul, in Minnesota, quando il marito raggiunse la quota di delegati in grado di assicurargli la nomination democratica.

Ma il colore della vittoria e della rivincita è ancora il rosso. Non solo quella spruzzata diavolesca sull'abito di Narciso Rodriguez per la notte dell'incoronazione, ma il rosso totale, imperativo, potente della prima visita alla nuova residenza e quindi alla first family uscente.


Una guaina semplicissima «sfilava» la tornita Michelle, con una svirgolata di pieghe sul davanti che pareva proprio la «V» di vittoria. Ironia della sorte anche Laura Bush aveva scelto una nuance di rosso, lo spento e autunnale mattone e un modellino bon ton con cintura sulla vita abbandonante, che faceva proprio «mi sono vestita per il trasloco».

Il coraggio cromatico del trionfo e l'uscita di scena malinconicamente dignitosa, da upper class repubblicana che ha accusato il colpo.
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 Michelle Obama e Barack in visita al presidente in carica George Bush e alla moglie Laura, 10 novembre 2008

martedì 4 novembre 2008

MODA & MODI: recession chic

L'aver buttato all'aria 125 mila dollari, tra Neiman Marcus e Saks, per rinfrescare il guardaroba, ha fatto crollare le quotazioni di Sarah Palin, aspirante vicepresidente degli Stati Uniti. Nell'America annichilita dall'altalena delle borse, le ragazze spendaccione di «Sex and The City» sono mestamente over e anche le più incallite «fashioniste» si stanno riposizionando. Parola d'ordine: sottrarre. O adottare le versioni cheap di abiti e borse che scopiazzano le firme, la cosiddetta fast fashion di Zara ed H&M. Quelle paginette comparative adottate per prime sui magazine femminili americani che, facendoti sentire una perfetta cretina, ti dimostravano come potevi aver un'immagine del tutto simile a quella di Gucci-Dolce&Gabbana-Cavalli-Prada-Armani spendendo appena una terzo, non sono più trattate con sufficienza anche sulle bibbie modaiole italiane, sempre un po' snob. Millequattrocento euro per il tubino di pizzo, quintessenza della stagione? Ne bastano poco più di cento per avere lo stesso glamour, vedere da Banana Republic. E pazienza se i numeri dell'abito sono da collegio e le taglie vanno fino alla cinquanta, sarà l'accessorio a fare la differenza.
Benvenuto «recession chic», glamour ai tempi della crisi economica. Che, in rete, è già diventato il frequentatissimo blog di Mary Hall, marketing manager californiana riconvertita all'austerity, che condivide con noi il suo diario quotidiano su dove e cosa tagliare. Gli esperti di marketing più scafati hanno già fiutato l'affare. Bourjois, per esempio, una linea di makeup francese non particolarmente cara, lancia il mascara e il gloss più a buon mercato come «the Recessionista Collection». E perfino a Manhattan, dove Carrie e le sue amiche erano disposte a mentire e tradire pur di scavalcare la lista d'attesa per la borsa «Birkin» di Hermès, c'è un salone che manda in giro e-mail promuovendo la «Recessionista beauty», ovvero sconti sul taglio di capelli e la depilazione delle sopracciglie. Lo slogan è «be smart and thrifty», sii elegante e risparmiosa, rispolverato direttamente da un catalogo del 1930, in piena grande depressione.
Sottrazione, dunque. «Keep the lightness, but cut the sweetness»: mantieni la leggerezza, ma taglia la dolcezza, dice Suzy Menkes, guru delle giornaliste di moda, sulle colonne dell'«Herald Tribune». Via fiori, fiocchi, volants. Via quelle orribili marche esibite, quelle riconoscibilissime iniziali, quei loghi disseminati dappertutto, perfino sulla punta delle scarpe. Trionfa la linearità: il maxicardigan che fa da microabito, il tubino senza un bottone nè una cucitura di troppo, la tunica che non vuole neppure una cintura, il cappottino corto e sobrio. Dilagano i colori poco gridati: il grigio, il beige, il bianco, l'armaniano «greige». Lo chic «recessionista» fa tornare le donne d'affari a un'austera sartorialità, ammoniva già mesi fa Lisa Armstrong sul «Times» di Londra. Sarà per questo che va per la maggiore la defilata griffe Akris, maison svizzera che fa cappotti, maglie e pantaloni grigi, per niente trendy. Piace a Condoleezza Rice, al passo con la recessione molto più della Palin...
@boria_a
Akris, autunno-inverno 2007-2008


martedì 7 ottobre 2008

MODA & MODI: too much pizzo

Che cos'è che accompagna da secoli la vita delle donne, dalla nascita alla vedovanza, passando per matrimoni e avventure sentimentali? Prada ha risposto con un'intera collezione, tutta intorno a un unico tema: il pizzo.
L'articolo, confessa, esteticamente la ripugna e l'ha preso come una sfida, cercando di evitare il prevedibile, scontatissimo e stanchevole «sexy». Ecco, dunque, il pizzo degli anni Duemila, il pizzo «pradesco», comprato da antichi laboratori svizzeri e fatto a mano, che inevitabilmente è diventato il cult di quest'inverno: spesso, gotico, fetish, fatale più che sensuale, un poco inquietante.
Più che il pizzo da commedia all'italiana vengono in mente le donne dei film di Hitchcock, più che l'erotismo spiccio una seduzione tortuosa, psicologicamente sottile. A partire dal colore, che non è soltanto il nero, anzi, ma la difficilissima tinta «brodo», o il grigio, il senape, il verde spento, tutta una palette ricavata dal guardaroba di una governante minimale e un po' perversa. Il messaggio è questo: se avete un pizzo nell'armadio, magari ereditato e vagamente canforato, siate implacabili. Il pizzo reloaded va adattato. Niente di troppo  assicurante, tantomeno romantico: gli abiti si stringono in vita per diventare tubini, le camicie non sono quelle da viaggio di nozze ma hanno colli alti tipo gorgiere, le gonne sono attillate e segnano molto, il macramè è pesante, corposo e se lascia intravedere lo fa a un osservatore che ha molta pazienza e non si accontenta del colpo d'occhio... È un pizzo duttile che ama gli estremi, salta dalla lolita dark alla reginetta del ballo, dalla lavorazione crochet di ispirazione vittoriana alla nostalgica punk. Bodouir escluso, bisogna giocare di fantasia.
E bando anche agli accessori da brava bambina, il girocollo di perle, la scarpa a mezzo tacco quadrato, il golfino rubato al twin-set perchè, si sa, il pizzo e le sue trasparenze mettono sempre qualche brivido. Se è pizzo fetish, la scarpa non può che essere a stiletto, o una sorta di scultura a creste di drago, i guanti di pelle fino al gomito, perfino la retina per i capelli non è quella da «maestra unica» ma una ragnatela bondage, da dominatrice.
Sarà difficile sottrarsi a uno scampolo di pizzo, quest'inverno. Prada strafà e ci propina anche il bauletto in cervo, già opzionato da stelle e stelline nostrane e d'oltreoceano, Valentino preferisce una più serale clutch a forma di fiocco percorsa da ramages, René Caovilla la borsa-pagoda su stivali pure di pizzo, mentre Cavalli insiste col tronchetto nello stesso materiale.
Se l'inventiva manca ci si può rifare a Chanel, omaggiata in tv con una fiction che ce l'ha messa proprio tutta a non farci capire perchè mai Coco sia considerata una delle stiliste che ha rivoluzionato la moda del '900. Bastava, per l'appunto, cominciare dal pizzo, che Madame usò moltissimo e in modo minimale, come simbolo del suo credo: less is more.
@boria_a
 Bauletto di pizzo "pradesco"

martedì 23 settembre 2008

MODA & MODI: unghie technicolor
La french manicure non piace più. Out le unghie trasparenti o perlate con la lunetta bianca, la pazza moda delle estremità le vuole lunghissime e multicolori, con smalti accesi su cui vengono certosinamente applicati fiori, microdisegni o decorazioni di swarovski, strass e perline. Dovrà aggiornarsi anche una nota inviata televisiva negli Stati Uniti, che, a ridosso dei tornado dai nomi umani, sfoggia ancora un'impeccabile ma ormai superata french. Perchè è proprio l'America, sempre maniacalissima in fatto
di unghie, a lanciare la tendenza. Vezzosi artigli in technicolor e non solo per le donne. L'avete visto Al Pacino, ripreso a Roma qualche settimana fa, nel tour di promozione del suo nuovo film con De Niro? Nella limousine con autista, imbustato in un classico abito scuro, sfoggiava eccentriche e incredibili unghie laccate di azzurro.
Cambiare corso a mani e piedi, è da anni facilissimo negli States, dove una donna con le mani non impeccabili suscita la stessa curiosità che se girasse nuda. Basta entrare in uno dei comuni e dilaganti «nail parlour», dove, senza l'appuntamento-capestro e a una cifra accettabile, in mezz'ora, massimo un'ora se ci sono anche i piedi, silenziose estetiste orientali tolgono la pelle in eccesso, incremano, massaggiano, ridanno forma a estremità spezzate o smozzicate e applicano smalti e decorazioni senza mai sbagliare.
Nella pausa pranzo è un rito. E non infrequente trovarsi accanto a qualche maschio (anche etero) che si fa curare e limare le unghie, ormai talmente allenato da riuscire, senza attorcigliarsi, a tenere le dita di una mano in ammollo, consegnare l'altra alla manicure e parlare al cellulare o leggere una rivista, il tutto in quei microscopici banchetti dove la nostra recente ossessione per la privacy fa sorridere.
Esagerate e colorate. Unghie come piacevano a Diana Vreeland, mitica direttrice di Vogue America e poi del Costume Institute del Metropolitan Museum di New York che per tutta la vita, fin dagli anni '30, le portò lunghissime e rosse. Di un rosso particolare, però, che aveva visto ancora bambina nel quartiere delle geishe di Kyoto, durante un viaggio in Giappone con la famiglia. E siccome l'incontentabile Diana, dopo anni di ricerche, non aveva trovato la «nuance» dei suoi ricordi, la commissionò direttamente ad Helena Rubinstein, aggiungendo che il nuovo smalto avrebbe dovuto pure asciugarsi subito e non dopo le proverbiali tre ore dei cosmetici anteguerra.
Sarà pure tendenza, ma le unghie lunghe, se non sono perfette, diventano un terribile boomerang estetico. Difficile immaginare che le decorazioni a fiori e frutta, o i minuscoli swarovski che quest'estate hanno spopolato nelle località marine, resistano a lungo agli attentati quotidiani, domestici e lavorativi. E un lui che tenta l'approccio con lo smalto bluastro? A meno che non sia Pacino, e purtroppo è raro, roba da ridere...
@boria_a

Le unghie blu di Al Pacino (stylosophy.it)

martedì 9 settembre 2008

MODA & MODI: il viola che non fa più paura

Ingrid Betancourt dal presidente Sarkozy e signora
Se è il colore preferito da Michelle Obama, possiamo stare tranquille: chi più di lei ha bisogno di togliere di mezzo la sfortuna? L'aspirante first lady americana indossa spesso nelle occasioni ufficiali la nuance «ciclamino», particolarmente delicata sulla pelle nera. E c'è un'altra presidentessa che lo ha eletto a suo colore preferito per gli appuntamenti pubblici, Carla Bruni Sarkozy, tutta Audrey in quei deliziosi tailleurini di Dior tinta melanzana, prugna, fiordaliso, glicine. Sfumature comunque soffici, che donano al suo incarnato bianchissimo, senza congelarlo in un pallore livido, un po' funebre. Ingrid Betancourt l'ha scelto per presentarsi al presidente francese dopo la sua liberazione: uno «sdoganamento» ai limiti dell'audacia.
Guardatevi in giro. Non c'è vetrina dove non dilaghi. Timido nella ricomparsa, un paio di stagioni fa, oggi quasi invadente. Il viola non si nasconde più. Borse, scaldacuore, cappelli, sciarpe, calze, ma anche cappotti, vestiti, piumini, chiodi, e ancora pigiami e lingerie raffinata.
Viola perfino nell'abbigliamento per bambini e per camicie e pullover maschili, stemperato in malva, lilla, mirtillo, più accettabili e adattabili anche in guardaroba ingessati dal grigio e nero. Bando alle sciocche credenze, dire che porta male, questo davvero non va più di moda. Se nel Medioevo era il colore dei paramenti sacri della Quaresima, quando il teatro era bandito e gli attori facevano la fame per quaranta giorni, oggi più di una star dello spettacolo lo sfoggia in palcoscenico polverizzando secoli di fama jettatoria e non c'è tappeto rosso o prima in cui non compaia, imperativo e invasivo. Poche ricordano che la divina Duse, la prima a sfidare la sorte e il luogo comune, morì su un palcoscenico di Pittsburgh, il 21 aprile, 1924, fulminata in un abito viola... Men che meno Madonna, in lucidissima vernice malva (e non solo: praticamente ha saccheggiato tutta la palette) nel tour di «Confessions on a Dance Floor», il suo decimo album. E tantomeno Patricia Field, costumista guru di «Sex and the City», che veste Carrie in un abito viola-paramento al secondo matrimonio della sua amica Charlotte, dove ben altri sono i segnali di una presunta sfortuna: il vino versato sull'abito da sposa, il bicchiere che non si rompe sotto i piedi dello sposo, il foglio con il discorso che prende fuoco.
Mila Schön, la stilista dalmata scomparsa pochi giorni fa, fu tra le prime a farne un colore «portabile», insieme ai grandi della moda, Saint Laurent, Dior, Givenchy, Ungaro. E in «Rara avis», la bella bella mostra che il Metropolitan di New York ha dedicato a Iris Apfel, icona della moda americana (difficilmente arriverà in Europa, ma è corredata da un catalogo di Thames & Hudson), ci si può ispirare con un irriverente modello da sera di Lanvin, anno 1983: full-viola cangiante, modello monsignore, con tanto di bijoux a croce. Mai prima delle sei del pomeriggio, come vogliono gli ortodossi del dress-code? Gli stilisti dicono di no. Il viola più discreto si porta a tutte le ore, combinandolo col nero, col grigio, col verde, perché a dispetto della sua apparente rigidità cromatica, è un colore che si sposa volentieri con gli altri, li galvanizza, li «muove», li ammorbidisce. L'unico rischio è cadere nell'estremo opposto: è comunque una tinta imperativa, ne basta un po'. Personalmente ho ceduto su tutta la linea e, in una miniera del vintage, ho trovato tre nuance perfette, datate e immeritatamente abbandonate: giaccone prugna Donna Karan per i primi freddi, gilet mirtillo Westwood, borsina francese da sera melanzana anni Quaranta, a prova di superstizione.
@boria_a
Madonna in "Confessions on a Dance Floor"

martedì 26 agosto 2008

MODA & MODI

Voglia di quadrettoni

Audrey Hepburn (ph. da Venette Waste)

Non c'è inverno senza tartan. Lo scozzese, declinato ormai in tutte le variabili cromatiche e in tutte le dimensioni, non rispetta più nemmeno la regola non scritta della moda, un'alternanza di almeno un paio d'anni prima del ritorno in passerella. Puntuale come gli allarmi sulla recessione dell'industria dell'abbigliamento, e forse per questo più rassicurante e confortevole che mai, il quadrettone dilaga anche nell'inverno 2008, senza grandi voli di fantasia, piuttosto scontato, prevedibile, ordinario, quasi a voler sottolineare una continuità con le stagioni precedenti, tessuto praticamente intramontabile, un placebo nel bombardamento di aumenti, ritocchi, percentuali che salgono e spese voluttuarie in caduta libera.


Chi non ha nell'armadio una giacchettina-plaid, un vecchio kilt di quelli che ti piange il cuore buttar via perché sembrano senza tempo, una camicia con un guizzo di volant, un gilet, forse un paio di pantaloni con una punta di rosso per vivacizzare cappottini grigi già un po' esangui? Bene, è ora di tirarli fuori senza troppi scrupoli.
Le origini del tartan sono antichissime, come dimostrano le citazioni nell'antica letteratura scozzese. Al 1471 risale uno dei primi documenti sul suo utilizzo regale, la registrazione contabile del tesoriere di re Giacomo III, che lo acquistò per la coppia sovrana. Oggi sfogliare un ideale album fotografico del tartan è ripercorrere la storia della moda degli ultimi decenni: negli anni Quaranta è materiale nobile da couture, come dimostrano le dive in abito da sera a quadrettoni fotografate sulle copertine delle riviste, poi tessuto da icone del bon ton come Audrey Hepburn, che negli anni Cinquanta lo porta in versione tailleurino, con camicia bianca e micropapillon.


Negli anni Settanta, minigonna per lei, pantaloni per lui, diventa il simbolo della Swinging London, quindici anni dopo, abbinato a giubbotti di pelle e aghi da balia, vive un'estemporanea  svolta punk. Poi, dagli anni Ottanta, adottato da stilisti come Yves Saint Laurent, Ralph Lauren, Vivienne Westwood, entra definitivamente nell'alta moda, utilizzato per gonne voluminose su corpetti di velluto nero, per abiti da sera di foggia settecentesca o per guaine incollate alla figura, da dive della prima Hollywood.

Ed eccoci al presente. D&G lo saccheggia, sembra quasi a corto di idee: cappottoni e cappottini, gonne e camicie quadro su quadro di colori diversi, il tutto abbinato addirittura a calze-tartan, con un (voluto?) effetto saturazione. Dsquared lo utilizza per il dorso di gilet di montone, Ralph Lauren, maestro assoluto del genere, per camicie di cachmere e cappotti con maxicolli. Al seguito, tutta una serie di stilisti e aziende le cui proposte già vediamo nelle vetrine invernali: soprabitini, soprattutto con il rosso dominante, giacche, vestiti con colli a fiocco, tailleur con gonne minuscole.


Quadri su quadri, piccoli e grandi, di colori diversi. Calze, scarpe, stivali, borse si adeguano, il total tartan non spaventa, anzi. Se in passato era d'obbligo depotenziare la pesantezza del disegno, adesso sembra un imperativo enfatizzarla. Che gli eccessi facciano da deterrente alle paure dell'austerity?
@boria_a
Audrey Hepburn (ph. da Venette Waste)

martedì 12 agosto 2008

MODA & MODI: l'etiquette dell'etichetta


L'abito firmato merita l'etichetta firmata. Anzi, non solo l'abito firmato. Basta con quei fastidiosi quadratini in poliestere, irritanti per la pelle, pungenti, indiscreti, che spuntano dalla schiena, si intravedono sui fianchi, sempre inopportuni ed eccessivi, soprattutto quando sono appiccicati con poco riguardo su quei nonnulla di pizzi e seta di reggiseni e slip, o agli abitucci sottoveste dell'estate, che richiederebbero etichette minimali e ugualmente eleganti. Perchè stilisti blasonatissimi cadono proprio sulla «firma», consegnandola a stoffe ordinarie e stampe poco raffinate? Vogue America ha dichiarato guerra a quelli che definisce gli orrendi tazebao degli abiti, pure plurimi: la label con il nome dello stilista, quella con il «made in...» (Cina e Corea, soprattutto) e quella con le indicazioni per la tintoria. La paura di incorrere in interminabili diatribe legali con le associazioni di tutela dei consumatori, oltreoceano all'ordine del giorno, spinge tutte le aziende a corredare i capi di veri e propri vademecum interni per il lavaggio, cura e conservazione, formato lavagna ma all'insegna del risparmio e dunque stampati su ruvidissime fibre sintetiche che si trasformano in armi di tortura ad ogni movimento, neppure dissimulate. Bastasse strapparle: sono cucite praticamente a fuoco e, per non tagliare il tessuto, si è costretti a lasciare sempre una strisciolina, pungente come una serie di spilli.
Innanzitutto l'«etiquette» dell'etichetta. Far notare che sporge, a qualcuno con cui non si ha troppa confidenza (è come togliere il classico capello, un gesto sempre un po' indelicato...)? Mi è capitato che una sconosciuta premurosa si alzasse dal tavolo di un bar e provvedesse personalmente a ricacciare all'interno del mio vestito una sinteticissima e indomabile label. La signora si è scusata, confessando di un aver potuto resistere. Al momento sono rimasta basita, poi ho condiviso senza riserve il suo fastidio estetico. Un breve sondaggio mi conforta: le ortodosse assicurano che l'etichetta in libera uscita va segnalata sempre e comunque, anche nel costume da bagno, perchè non c'è niente di peggio per rovinare un'abbronzatura perfetta...
Gli stilisti più sciccosi si sono già adeguati, come il rimpianto Romeo Gigli di molti anni fa, celebre per le sue striscioline color tortora, con l'indicazione di anno e stagione della collezione. Le fa così anche Alber Elbaz per Lanvin, mentre Giambattista Valli, italiano amatissimo in Francia, utilizza nastrini di seta, neri per l'inverno, molto gentili con l'epidermide. In fondo, quando si sborsano cifre considerevoli per una firma e un capo di qualità, infastidisce dover perdere tempo e rischiare di rovinare il tessuto eliminando strisce e strisce di stampigliature da quattro soldi.
Attenzione, c'è un'altra faccia della medaglia. A volte l'etichetta, per quanto importuna, può essere una preziosa alleata della fashion victim. Quante comprerebbero una camicetta i cui bottoni debbano essere certosinamente scuciti prima di ogni lavaggio in tintoria? L'avvertenza è per molte un deterrente, che permette di trovare capi concupiti, anche in taglie gettonate, nel pieno dei saldi...
@boria_a

domenica 20 luglio 2008

E' ITS SEVEN A TRIESTE
Il tedesco David Steinhorst vince la settima edizione del fashion contest

Donne col viso nascosto da maschere soffocanti. Donne con elmetti da guerra. Donne con la testa coperta da cappucci e becchi posticci, animali pronti al combattimento. Donne con occhiali da amazzone urbana. Che sollievo quando esce in passerella la collezione del tedesco David Steinhorst, che veste le donne da donne, le cala con grazia in deliziosi abitini da cocktail blu notte, sotto drappeggi trattenuti da inserti metallici, in proporzioni perfette, tagli di antica sartoria. Ha vinto il premio più importante, la Fashion collection of the year a ITS Seven, David, ed è stato un giudizio sacrosanto.


Il vincitore di Its Seven  David Steinhorst




Le sue sono donne senza maschere, scudi, senza impalcature di gommapiuma o gusci da Calimero sulla testa. Donne libere da strumenti da guerra preventiva. Donne lunghe e fasciate, come le immagina il britannico Ross Barnes, infilando le sue silfidi in interminabili vestiti optical, grigi o giallo acido, bordati da decori a spirale. Va meglio agli uomini, ammorbiditi, coccolati, accarezzati da tre belle collezioni: le lane norvegesi di Siri Johansen, le trasparenze polverose del tedesco Adrian Sommerauer, le camicie e i pantaloni rigorosi dell'italiano Filippo Fanini.
Nero e magenta, per una notte, i colori dell'ex Pescheria. Luci e telecamere. La colonna sonora sparata dagli Electrosacher che fa pulsare i muri bianchi sotto il gigantesco cartello, in cima all'ingresso, come un avvertimento: «La creatività non è un peccato». Passerella conclusiva, ieri sera, per le collezioni dei diciotto giovani finalisti alla settima edizione di «Its», i più lontani arrivati da Tailandia, Cina, Giappone, Corea del Sud. Designer che avranno tempo per misurarsi col mercato, ma che in questa prima, grande prova generale del loro futuro, paiono avere una personalissima e a volte un po' deviante concezione dell'eterno femminino.
Rompono il ghiaccio, ben oltre le nove, le signore della spagnola Amai Rodriguez Coladas, con faretra sulla schiena e maschera incollata ai lineamenti come una seconda pelle (e c'è voluto un pressing mica da poco sulle modelle, giustamente riottose a uscire in passerella su tacchi vertiginosi, in apnea e due fessure al posto degli occhi...). Subito dopo ecco i vestiti dell'israeliana Jan Farhi, pantaloni simil-mimetici dipinti sulle gambe e una testa posticcia da mostro di X-Files. E ancora le creature del giapponese Yuima Nakazato, ispirato dagli studi di Leonardo da Vinci a costringere le sue femmine in armature che si aprono svelando ali metalliche, per finire con il «crazyssimo» e ipertecnologico mondo del triestino Andrea Cammarosano, dove le donne sembrano solo tappe di una fase evolutiva, dai vegetali alle rocce e ritorno.
Pazzie, eccentricità, sperimentazioni. Quella di ITS è forse l'ultima vetrina in cui gli allievi designer possono sfogare la loro visionarietà, spingersi fino ai confini di fantasia e artigianalità, prendersi qualche azzardo, prima di mettersi alla prova negli uffici stile di grandi griffe,
costretti a fare i conti con il mercato, la concorrenza, la vestibilità, la produzione industriale e seriale, i bilanci, le delocalizzazioni. Molti dei loro futuri datori di lavoro erano tra il pubblico del Salone degli Incanti, perchè mai come in quest'edizione il concorso triestino ideato da Barbara Franchin ha visto una «calata» di aziende a caccia di emergenti.
Se una piccola delusione per gli organizzatori è stato il forfait della top model Bianca Balti, impegnata in una campagna pubblicitaria internazionale, nel parterre della Pescheria c'erano rappresentanti di Vuitton, Armani, Gucci, Moschino, Vivienne Westwood, Raf Simons, Margiela, Hogan, Adidas, Morellato, Moroso, Rinascente. C'erano Giovanni Acconciagioco, socio di Lapo Elkann nella griffe del rampollo Agnelli, Italia Independent, insieme al designer del marchio, Andrea Compagnone, e ancora la londinese Mandi Lennard, cacciatrice di talenti, l'americana Diane Pernet, pure lei potentissima «fiutatrice» (era quella affascinante signora che spiazzava i non addetti ai lavori con un look preso a prestito da un telefilm di Zorro...), c'era Elisa Palomino, braccio destro di Diane von Fürstenberg a New York e la direttrice del museo di design e arti applicate contemporanee di Losanna, Chantal Prod'hom, sempre sensibile alle manifestazioni al confine tra arte e moda. Renzo Rosso, il signor Diesel, principale finanziatore del premio, è arrivato col suo jet privato direttamente dalla
Spagna. Non ha mai mancato una finale, perchè dal «serbatoio» di Its sono usciti ed escono ancora molti dei creativi che lavorano alle sue tante linee, dal denim agli accessori al pret-à-porter di lusso.
Ex Pescheria zona franca della creatività. E, per una notte, davvero Salone degli Incanti, nel senso traslato. La passerella di una delle grandi capitali della moda, con la stessa maniacale e puntuta organizzazione, calata negli spazi immensi del fu mercato ittico, mai come in questa occasione apparentemente compressi, insufficienti, vibranti, vivi.
Victoria Cabello conduce la serata in inglese a ritmo serrato, senza i birignao che rendono insopportabile il cerimoniale dei premi. Tra le autorità locali, un parterre abbastanza nutrito: sindaco Dipiazza e signora, la presidente della Provincia Bassa Poropat, gli assessori comunali Greco e Rovis e il consigliere regionale Bucci, fan della prima ora, quando in piazza Unità a «Its» credevano in pochi, forse nessuno. Non si avvistano assessori, o assessore, regionali. Dopo la proclamazione dei vincitori, l'ultima passerella è per tutti. Un frullato, più che un incrocio, di nazionalità, di lingue, di pelli, di tratti. Come gli abiti che sono appena usciti: quelli di un giapponese sedotto da Leonardo o di un'italiana, Alithia Spuri Zampetti, che guarda all'architettura di Tadao Ando. Di un cinese, Yang Du, affascinato dall'Egitto, e del tailandese Ek Thongprasert, il vincitore dell'anno scorso, che ha portato a Trieste il risultato del premio, una raffinata collezione nelle sfumature di Renoir e Van Gogh.



Diane Pernet
Società globale sembra una parola fuori posto, sfruttata e inadeguata. Qui gli incastri sono infiniti e più sottili, come quelli di un caleidoscopio. E il gene comune è la capacità di immaginare e intercettare il futuro, proprio quello che Trieste aspira a fare.

martedì 15 luglio 2008

MODA & MODI: vestaglietta "wrap"

Il "Linda" wrap dress di Diane von Fürstenberg

Nell'epoca delle mamme si chiamava la «vestaglietta» e non aveva un sapore tanto glamour. Anzi, quelle fantasie fiorate mettevano perfino un po' tristezza, facevano casalinga disperata ante litteram sull'orlo della passeggiata della domenica pomeriggio. Oggi la modesta vestaglietta da casa è diventato il molto più sciccoso, a partire dal nome, wrap dress, ritornato improvvisamente negli armadi delle star e rispolverato in grande stile proprio dalla stilista che lo inventò, Diane von Fürstenberg.
Era il 1974 e la nobildonna conquistò l'America con un abituccio semplice semplice, che si allacciava davanti, ma riusciva a evidenziare le curve e quello che allora le mamme, appunto, chiamavano «personale», in modo tutt'altro che pudico, soprattutto se il tessuto scelto era il fasciante jersey. A Firenze Diane ha rispolverato la sua creazione più fortunata e ne ha popolato un'intera collezione «da crociera», insieme a short, prendisole, sciarpe.
Chi non avesse conservato l'archeologia dei capi di famiglia puntando con lungimiranza sui periodici «ritorni» della moda, nei negozi vintage può trovare wrap dress fascinosamente anni Settanta, quintessenza e ortodossia della casalinghitudine, con i colori sgargianti, le fantasie a spirale, le righe eccessive o i fiorami annegati nelle nuance zuccherose, azzurro e arancione in testa. Abito di seduzione antica e datata come ci ricordano le Loren, le Mangano, le Lollobrigide di una lunga stagione cinematografica, ma anche una più recente icona della mediterraneità caliente, la Penelope Cruz di Almodóvar, un'attrice intellettuale con Julianne Moore o la curvosa cantautrice Beyoncé.
La neo-vestaglietta o meglio il wrap dress sta bene alle sinuose, fascia seno, vita e fianchi e detesta le ossa sporgenti. Si appoggia sui chili in più e, per una volta, li valorizza. Ama le occasioni diverse: stampato, a righe o a fiori - com'era in origine - si indossa al lavoro ma anche a mezza sera, di seta è adatto a un'occasione importante senza essere troppo ingessato. Ha due contro-indicazioni: chi è troppo magra e senza seno rischia di sembrare un attaccapanni. Chi non sa portare i tacchi, si rassegni: il wrap dress con ciabatte o infradito rimane solo una «vestaglietta», da contemporanea e molto poco allettante «desperate housewife».
@boria_a
Diane von Fürstenberg

martedì 1 luglio 2008

MODA & MODI

Se le mezze maniche fossero le mezze stagioni

La moda maschile è appena scesa dalle passerelle milanesi. Sarà per questo che l'occhio cade più facilmente sulla galleria dei piccoli orrori quotidiani da cui siamo circondati e che in estate, col caldo e l'allentamento dei freni inibitori, anche in un luogo super-istituzionale come l'ufficio, tende ad allargarsi pericolosamente.


D'accordo: il cellulare al collo è - meno male - in netto ribasso, ma c'è ancora qualche irriducibile che si ostina ad appiccicarselo alla cintura, in quelle spaventose custodie di pelle e plastica trasparente che sembrano uno dei gadget di Star Trek. E le crocs? A nulla serve ripetere che ormai se le mettono solo i tedeschi e i fintissimi infermieri delle fiction ospedaliere italiane: c'è proprio chi non si decide a scrostarsele, letteralmente, dai piedi e che esibisce tutta la serie taroccata, acquistata sulle spiagge a un terzo del prezzo dell'originale (dal punto di vista estetico tra l'autentica e l'imitazione non c'è alcuna differenza, ma la plastica nelle seconde è talmente scarsa che porta l'epidermide al punto di fusione...).

Anche il sandalo di cuoio conquista in questi mesi nuovi pimpanti estimatori. Normali signori che d'inverno si muovono in mocassini, simil-pedule, pseudo-clark, scoprono improvvisamente com'è bello avere il piede costretto in quelle armature di cuoio marroni e si aggirano, del tutto estemporanei, in pantaloni con la riga del ferro da stiro e calzature da frate trappista.


Le espadrillas? Pensavamo di averle relegate all'estate da dimenticare (almeno dal punto di vista modaiolo) degli anni Settanta, insieme alle zeppe di corda allacciate intorno alla caviglia. Invece no, sono tornate, bisex e brutte come allora e senza neppure quella carica di allegra contestazione, quel senso di avvolgere il piede in un tessuto naturale, quell'etnico magari un po' scomodo ma molto politico di quarant'anni fa.


Le estremità sono il punto di caduta, una zona franca del gusto. Le calze spariscono e rispuntano i fantasmini, quei copri-dita, spesso bianchi (ma si vedono lo stesso, anzi, si vedono di più...) che dopo un viaggio in lavatrice, a patto di ritrovarli, si sono trasformati in vermiciattoli informi, difficili da riportare alla sagoma di un piede umano. Ma il caldo improvviso induce anche ad altre indulgenze. 


La camicia, per esempio. Se le mezze stagioni non esistono più, le mezze maniche invece resistono. Tristi camiciole tipo pigiama, sbottonate sul petto con buona pace dell'irsutismo diffuso (avete mai incontrato uno che si mette la camicia con le mezze maniche e che si fa anche la ceretta?), che la cravatta non affranca, tutt'altro.
I pantaloni color stabilo boss? Valentino dice che dopo i vent'anni è meglio che una donna si dimentichi la minigonna. Questi pantaloni, per la reciprocità, sono consigliati solo sotto i quaranta e oltre il metro e ottanta.


Ci sono in giro anche giacchettine estreme, nere e con qualche guizzo argentato, tipo prestigiatore. Se ne avete ricevuta una in regalo e ve la siete tenuta (insieme a chi ve l'ha regalata), le recenti sfilate insegnano come portarla: sotto ci va una canottiera (sì, proprio lei, alla Bossi...) a coste larghe. Ma dai pettorali agli addominali, sempre secondo la passerella, la «tartaruga» dev'essere perfetta.
twitter@boria_a


martedì 17 giugno 2008

MODA & MODI: il costume fa il "cutting out" 


Il tempo strampalato ci risparmia uno degli stress pre-estivi: la prova costume. Ovvero il delicato momento in cui recuperiamo dal consueto fondo di cassetto una manciata di reperti sbiaditi e ci colpisce una duplice e sgradevole verità: non si può più rimandare l'acquisto nè ignorare l'aggiunta di una smagliatura, l'ulteriore cedimento del gluteo, una «tendina» più penzolante della passata stagione. Superato lo shock, eccoci dunque al negozio, dove il ridicolo però è in agguato. Se l'abbigliamento «seriale», per scongiurare la crisi, si rifugia in capi rassicuranti, destinati a far fronte a più stagioni, la moda mare fa pazzie, si accorcia, si stringe, diventa asimmetrica o, al contrario, si allunga, nel caso estremo fino a coprire i capelli, diventando il nuovo «burqini», adatto a spiagge islamiche ma inventato da una tonicissima ragazza australiana.
Cominciamo dal «monokini», o meglio dal «tankini», fresca denominazione per quello che le nostre mamme chiamavano «intero». Intero? Oggi, non più, ha fatto il «cutting out». Ha perso una spallina, si è aperto imprevedibilmente su un fianco, ha un oblò a livello  ell'ombelico o la parte posteriore tagliuzzata in striscioline tipo bondage. Per chi prende l'abbronzatura perfetta, dai contorni marcati, il risultato è sexy, indiscutibilmente: nero e bianco in punti strategici, un po' graffito, un po' effetto optical, un po' tatuaggio transitorio. Se invece si tende all'arrossamento a macchia di leopardo, il costume tagliuzzato non fa che esaltare i bordi scottati. Un bel contorno aragosta intorno all'ombelico, o sul seno, o sulla spalla, poco sensuale molto cerotto.
Il monokini non piace? Gambe non troppo lunghe per reggere tutte quelle sforbiciate nei punti cruciali? Allora c'è il «trikini». Il nome sembra rassicurare, ma la moltiplicazione non aiuta. Tre, ovvero reggiseno, slip e pantaloncini, di solito attillati. E che arrivano proprio all'attaccatura tra coscia e sedere, dove si annida quella cellulite che qualche seduta di palestra nell'ultimo mese non può nemmeno lontanamente spianare. Inutile illudersi che mettendo i pantaloncini l'imperfezione si veda meno e si possa con eleganza passeggiare fuori dalla spiaggia anche quando l'anagrafe lo sconsiglierebbe: meglio un bel pareo, che quantomeno «vela».
L'invenzione più perversa si chiama «quadranga», ossia quel bikini, di solito griffatissimo, con lo slip a più lacci sui fianchi. Due, tre, nei casi di accanimento perfino quattro. Stringhe sottili, ma il risparmio di lycra è inversamente proporzionale al prezzo, alto a dispetto dei millimetri coprenti. E ogni laccio non solo è un segno (piuttosto indistinto, a meno di posizionarli sempre allo stesso posto, operazione da ingegnere della Nasa) ma è pure un rotolino di grasso che sprizza fuori in tutta la sua consistenza.
Ho deciso: mi rifugerò nel tradizionale bikini, nel «due pezzi» direbbero le antenate. Non c'è il sole e allora la volonterosa commessa propone le novità di quest'anno, con paillettes o tutto dorato, che riflette i pochi raggi in circolazione. A questo punto speriamo che il tempo rimanga così, perchè col solleone sarebbe come stare sotto un riflettore, con buona pace della cellulite...
@boria_a

martedì 3 giugno 2008

MODA & MODI: la lingerie di Carrie, fuori tempo massimo 


Passi il film, deludente come sempre capita quando una serie geniale - forse il prodotto televisivo più acuto, disinibito, intelligentemente non moralista degli ultimi anni - viene spalmata sul grande schermo solo per una gigantesca operazione commerciale. Forse questo lo si poteva anche perdonare a Carrie e alle sue amiche, che nella versione film di «Sex and The City» sembrano solo diventate più vecchie, a dispetto delle spianature del botox e del chirurgo («are we getting wiser, or just older?» si chiede la protagonista nella terza serie, e vien voglia di risponderle, pur con tutto l'affetto dovuto a un'icona, «ahimè siete diventate solo più vecchie, prevedibili, stridule, domestiche e fate anche poco sesso...»). Ma il merchandising che riprende vitalità intorno alla serie «defunta» o meglio «felicemente cristallizzata» nella nostra memoria di fan della prima ora, è proprio triste, anacronisticamente insopportabile.
Insieme alla pellicola arriva nei negozi la prima collezione di lingerie firmata «Sex and The City». Ben quattro linee diverse, una per ciascuna delle protagoniste e dei loro caratteri: stravagante come Carrie-SarahJessica Parker, sensuale come Samantha, chic come Charlotte e cosmopolita come Miranda. Reggiseni a balconcino, perizomi, babydoll, reggicalze, tulle, bordi animalier, rose diffuse, pizzi smerlati, tutto l'armamentario della seduzione disinvolta e leggera che ci ha fatto sorridere, divertire, sbalordire e magari anche convinto a comprare qualcosa nella lunga stagione delle sei stagioni televisive e che oggi abbiamo sepolto con qualche rimpianto in fondo al cassetto.
Le coetanee di Carrie e delle sue amiche sono diventate come loro: mamme, mogli o in procinto di esserlo, stritolate tra il lavoro, la carriera e tutto il resto, con poco tempo e sempre meno entusiasmo per quei rituali al quale la lingerie in questione sembra finalizzata. Il «sex» del titolo non c'è più nel film: se persino Samantha si cosparge inutilmente di sushi e deve rinunciare ai suoi ragguardevoli standard perchè «lui», che fa l'attore, ha bisogno di un sonno di bellezza, allora quegli hot pants, quei bustier, quei nonnulla di mutande restano solo un business un po' desolante e desolato, fuori tempo massimo. Le «it girls» sono cresciute, pure troppo, e alle generazioni di amiche successive sembra piaccia di più la morigeratezza dei costumi e la praticità dell'intimo. Chi se la filerà, allora, la biancheria così lussuosamente scorretta, così sventata di «Sex and The City»?
Accanto a me, in una celebre catena di cosmesi (molto, molto pubblicizzata nel film) una ragazzina compila la scheda del concorso: tot euro di spesa e la possibilità di vincere cinque giorni nella «City» senza «Sex». Sono sicura che a lei quel rosa e nero del cartoncino, i colori della serie, non dicono proprio niente. E che, se vince, si perderà Perry Street, dove «abitava» Carrie con decine e decine di scarpe, di borse, di abiti, di reggiseni, di amorazzi. Prima di diventare grande.
@boria_a

martedì 20 maggio 2008

MODA & MODI: la rivincita delle pallide

Marcia Cross in "Desperate Housewives"
A queste latitudini chi ha la pelle diafana, lattiginosa, trasparente, non può sottrarsi alla domanda-tormentone: «Ma non vai mai al mare?», «Non sei ancora stata al mare?!», «Non ti piace il mare?», variante estiva dell'invernale «Ti senti poco bene? Sei così pallida...». In una tribù di gente marron già all'inizio della primavera, se non sfoggi un'epidermide da ballerina carioca per il solo fatto di scappare una mezz'oretta al sole all'ora di pranzo, sei guardato come un simpatico eccentrico, uno che non apprezza l'indicibile opportunità di vivere nella città dell'abbronzatura perenne.
Quest'estate, però, il bronzeo non va di moda. E' tempo di rivincita per le pallide. La pelle bianca è chic, come cent'anni fa, e viene esibita, custodita e curata. Una vera controtendenza e un sollievo: se siete costrette ad ancorarvi all'ombrellone per tutte le vacanze onde sfuggire all'eritema a macchia di leopardo, potrete sempre dire che lo fate perchè «è di moda»: non costa nulla, riprovazione sociale zero.
Le pagine della riviste sono piene di attrici bianche come il latte, per assurdo lo sono anche le modelle che promuovono i costumi di stagione. Avete presente Marcia Cross, la casalinga disperata che fa fuori il marito senza che la sua epidermide color cammeo sia percorsa dal più tenue arrossamento? O un'attrice intensa come Julianne Moore, o l'antesignana delle slavate, Jodie Foster, o Nicole Kidman, la prima a osare - a un festival del cinema di Venezia - un tailleur color nudo sull'incarnato candido, per finire con la più sofisticata Dita Von Teese, la regina del bourlesque, cadaverica e con le labbra color fuoco, con quell'ex marito, Marilyn Manson di alabastro come lei.
Pallida fa chic, sofisticata, un po' diva, superiore alle spiagge e alla tintarella low-cost. Una delle blogger beauty più celebri d'America, Nadine Haobsh, che ha la pelle come un proteo, consiglia: protezione trenta, anche d'inverno. Chi è meno talebana ha solo l'imbarazzo della scelta: nuovi solari da città, creme idratanti che accentuano la luminosità della pelle, fluidi e poudre perlati. Pallida fa fragile, simula bisogni mai espressi. E con gli uomini spaventati e in crisi di identità che ci sono in giro, magari aiuta.
@boria_a
Nicole Kidman

martedì 6 maggio 2008

MODA & MODI: la personalità sui tacchi delle scarpe 
Tacchi artistici firmati Miu Miu

Ditelo con il tacco. Piallato per chi non ha il complesso dell'altezza o, comunque piccola, guarda gli altri e gli alti dall'alto in basso. A stiletto? Seduttrice per professione, abituata a calzarli ed esibirli senza dar segni di cedimento, anche dopo una giornata d'ufficio. Nascostamente rialzati? Meno male che se li è messi pure Sarko, nella recente visita in Gran Bretagna, per non sfigurare accanto a Carla (che avrebbe dovuto andare scalza per essere meno «a terra» di così) e ci fa condividere con i francesi l'orrore di un premier nanetto che fa di tutto per non sembrarlo (lui, però, non è calvo, ancora, nè ha quel posticcio pilifero cresciuto come un prato inglese prima delle elezioni...). Zeppona? Una volta equivaleva a nostalgica sessantottina, oggi la piattaforma è così artisticamente lavorata, piena di inserti e decorazioni, che assicura il glamour ma non i rischi dell'elevazione.
Il vento di novità di quest'estate passa attraverso i tacchi. Le borse esagerano genericamente in dimensione, rivolte a un'indistinta acquirente fashion victim, ma le scarpe rivelano più che mai la personalità di chi le indossa, sono una dichiarazione di intenti, un manifesto mentale. E la fantasia, questa volta, si sfoga non lungo il polpaccio, o sulla punta, o alla caviglia, ma sulla suola. Benvenute nel 2008, anno dei tacchi a scultura. Delle pazzie che iniziano dal fondo, dei piedi protagonisti, della sfida a risucchiare gli sguardi verso terra, dove mai si appoggiano, se non in caduta libera dopo una sosta sul fondoschiena. Ami le zeppe? Ci sono quelle che assomigliano a un dondolo o costruite come bolle di sapone una sull'altra. L'inconfondibile stiletto? Oggi, sulle tradizionalissime décolleté, richiama le guglie dell'architettura russa. Per le più estrose e colorate c'è il tacco a manico di tazzina, o la zeppa che ricorda un ventaglio, o vuota in mezzo, con solo il profilo in evidenza, come disegnato nell'aria. C'è il tacco di metallo piantato a metà della suola, che crea l'effetto zeppa trasparente, quasi si fluttuasse su una piattaforma invisibile. Se dotate di grande equilibrio, fisico e mentale (perchè non si sfugge: il tacco suscita esternazioni multiple), si può provare con la scarpa plateau sospesa, che lo elimina del tutto. L'unica invenzione discutibile è a forma di cono di gelato, o, ancora peggio, a bastoncino: sono pesanti, slanciano poco e ingrossano innaturalmente la caviglia, perchè farsi del male?
Sono pazzie, costose e volubili, che dureranno una stagione. Ma il loro effetto consolatorio è garantito. Chi cerca il tacco che non tramonta dovrà continuare con lo stiletto, ormai proiettato verso i quindici centimetri, o rifugiarsi nelle ballerine, uscite di recente dall'anonimato proprio per quella versione proposta da Carlabrunì a Londra, pudica come il cappottone grigio che la ingoffava nè più nè meno di Camilla. Ballerine rasoterra e un'unica debolezza: il bottoncino sulla punta targato Dior, che tutti hanno fotografato quando ha piegato il piede per la riverenza, perchè anche le first lady hanno qualche piccolo, grande prezzo da pagare...
@boria_a
Carla Bruni si inchina alla Regina Elisabetta