martedì 29 dicembre 2009

MODA & MODI: quel vecchio papillon è un gioco da ragazzi
Chuck Bass (fonte Fanpop)
Il papillon? Confinato al guardaroba per l'ultimo dell'anno o per qualche prima teatrale, a meno di non fare il cameriere. Negli ambienti di lavoro perdonato solo ai colleghi un po' attempati, con qualche veniale predisposizione all'eccentricità. Per gli annali della moda maschile, forse l'accessorio più deriso: scioccamente frivolo, ridicolo, privo di sex-appeal. Ingessante come il cappello per le signore: in entrambi i casi i neofiti sono traditi dal collo rigido. Con queste premesse, chi avrebbe mai scommesso sul ritorno in auge della farfallina, il "comeback" del "bow tie", per dirla con i giornali stranieri, dal New York Times al Wall Street Journal al Financial Times, che si stanno occupando seriamente della faccenda come di una singolare svolta nel costume?
Eppure, prima ancora che dalle passerelle, i segnali sono arrivati dalle serie tv, a cominciare dall'acclamatissima "Mad men", vademecum della moda per i maschi un po' come lo è stato "Sex & The City" per le donne, storia di un'agenzia di pubblicità su Madison Avenue a New York, ma soprattutto ritratto fedele dell'America dell'era kennedyana e dei suoi uomini eleganti, irresistibili e traditori. Il confronto è impietoso e il messaggio inequivocabile: i più eleganti sono i personaggi anziani, in giacca e papillon, mentre i giovani e ambiziosi copywriter, già anticipando le devastazioni del guardaroba portate dal '68, non fanno mistero di considerare la cravatta niente più che un collare per cani. È un confronto di età ma ancora prima di fascino, di seduzione, di autorevolezza, di sicurezza di sè e delle proprie scelte. E la maturità, con  i suoi consolidati codici vestimentari, vince su tutta la linea.
Oggi la situazione si è capovolta. Se ne è accorto per primo Bill Cunningham che, sull'edizione on-line del New York Times tiene la geniale rubrica fotografica "On the street", andando a caccia, con bicicletta e macchina fotografica, delle ultimissime tendenze sulle strade di Manhattan. È finito il "casual friday", l'abbigliamento sportivo un tempo ammesso anche negli uffici per la giornata che precede il weekend. L'uomo giovane sta riscoprendo il sottile piacere dell'eleganza, ne reinterpreta i classici in modo più leggero e spontaneo, impara a mescolare e a smitizzare e soprattutto toglie ad alcuni capi o accessori la polverosa etichetta da "occasione" per indossarli a qualsiasi ora del giorno. Gentlemen trentenni e disinvolti in papillon coloratissimi sotto il maglione a V, le giacche doppiopetto o il cardigan escono dalle stazioni della metropolitana e spariscono inghiottiti dai grattacieli. Come ha fatto il rocker britannico Pete Doherty, l'ex di Kate Moss, con il gilet, che ha trasformato in un'abitudine un po' "maudit", così il papillon entra con disinvoltura nell'abbigliamento quotidiano, gioca con colori e materiali, diventa una chiara attestazione di personalità, di volontà di rompere con le uniformi, di controcultura nel vestire. Se lo mettono Chuck Bass, il dandy cattivo della serie "Gossip Girl", l'imitatissimo David Beckham e il direttore creativo di Lanvin, Alber Elbaz, che ne ha fatto il pezzo forte della linea uomo. Oggi sono i cinquantenni e più a preferire maglioni informi e simil-jeans, giubbotti e zainetti giovanilisti, più che mai improbabili nei vestiti smessi dai loro figli.
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David Beckham (Getty Images)

giovedì 17 dicembre 2009

LA MOSTRA

e' MilAmerica
(Mila Schön al Guggenheim Museum e al Metropolitan Museum di New York, dal catalogo della mostra “Mila e la notte” (Electa) realizzata nel 2009-2010 al Salone degli Incanti di Trieste)

Ottobre 1994, Guggenheim Museum di New York.


Il cappottino verde di Mila Schön esposto al Met nell'ambito di "Cubism and Fashion" del 1996 che fa parte della collezione del Costume Institute del Museo (foto per gentile concessione della rivista Stile arte)

Germano Celant racconta all'America quarant'anni di "Italian Metamorphosis", la rinascita post-bellica delle arti, del design, della fotografia, del cinema, dell'architettura, fino alla soglia del Sessantotto. L'ultimo piano di un percorso denso e ambizioso è invaso dai colori della moda, da quel giovane made in Italy che è riuscito, con testardaggine, dedizione e un inusuale spirito di squadra, a farsi largo nel cuore e nei gusto d'oltreoceano, prima rosicchiando, poi divorando fette di mercato all'immobile e magniloquente couture francese. Ci sono le sculture di Capucci, i pigiama palazzo di Galitzine, gli impasti cromatici capresi di Pucci, i rossi di Valentino, l'abito-cardinale delle Sorelle Fontana indossato da Ava Gardner, le zingare di Missoni e le sperimentazioni futuribili in alluminio e pelle che Germana Marucelli firma con l'artista Getulio Alviani.

 
E c'è Mila Schön, con due soli abiti della collezione 1966-'67, un anno e un'ispirazione in stato di grazia. È la presenza espositiva più contenuta eppure singolarmente rappresentativa delle ragioni del successo del gusto italiano negli Stati Uniti. Seta georgette color champagne il primo, percorso da un gioco di ricami di pietre d'oro, d'argento e cristallo che disegna un'onda lungo il corpo e apre sul fianco un finto, discretissimo, oblò. Tulle di nylon il secondo, una tunica a maniche lunghe quasi monacale, mossa da un analogo decoro a onda, acquistata da Gioia Marchi Falck. Quello di Mila è minimalismo senza privazioni, lusso senza sovrabbondanza, citazioni artistiche da intuire, suggerite piuttosto che proclamate. "The Italian Coco Chanel", scrive la giornalista del "Miami Herald", Hebe Dafney, con una definizione che probabilmente non le sarà piaciuta, tanto è distante l'ansia, e la provocazione, di liberare la donna che sta alla base della semplicità di Mademoiselle, dalla discrezione borghese che sorveglia lo stile della stilista dalmata. "Understatement colto", da agiata signora dei salotti buoni milanesi che pure sa cogliere e miracolosamente (per quanto inconsciamente) tradurre l'atmosfera del decennio, le sperimentazioni sui materiali dei Sixties, l'ansia di spostare avanti il confine della conoscenza, la ricerca e la Luna a portata di mano, l'ebollizione dei movimenti artistici, il rock e lo street-style. Mila, educata come cliente al gusto degli atelier francesi di Balenciaga e Dior, sa lasciarsi alle spalle le ampollosità, le ridondanze, le scomodità che hanno cominciato a soffocare la ricca acquirente americana, e le propone di essere elegante con una sorta di sottile asciuttezza, elegante per sottrazione.

 

10 dicembre 1996, Metropolitan Museum di New York



"Mila e la notte" a Trieste (foto Francesco Bruni)

Apre la mostra "Cubism and Fashion", creatura, forse non tra le più riuscite, dell'allora curatore dell'Istituto del Costume del Met, Richard Martin. Arte e moda, rapporto affascinante e in parte ancora inesplorato, che Martin indaga cercando relazioni, soprattutto "costruendole", tra la cultura cubista che permea i primi due decenni del secolo scorso e le innovazioni nell'abbigliamento femminile, finalmente libero dalla "tridimensionalità", dalla "volumizzazione", dall'effetto albero di natale, esemplificati in mostra da un breve assaggio degli abiti di Charles Frederick Worth. Dal cubismo, la moda assorbe un nuovo modo di vedere, rovescia la concezione del vestito, non più ornamento statico che prescinde dal corpo, ma involucro in movimento e che del corpo segue i movimenti, scomponendosi in pannelli, inserti, tagli. Braque, Picasso, Léger, Juan Gris, Marcel Duchamp, Robert Delaunay dialogano con gli abiti di Poiret, di Patou, delle sorelle Callot, di Chanel, con gli origami di seta di Madeleine Vionnet, tutti esempi, al limite della "temerarietà", della semplificazione dell'abito, delle sue nuove geometrie. Dalle nature morte sfaccettate, dagli incastri di forme, dalle sedie sghembe, dai collage, gli stilisti mutuano tagli e colori di rottura rispetto al passato, ocre terrose, rossi liquorosi, raffinati dialoghi di ori e neri, avio e creme, grigi e pesca. Un'estetica che ispira anche la decostruzione dei contemporanei, cui è dedicata l'ultima parte del percorso, e dove, ancora una volta, Mila Schön entra in mostra con una presenza minimale e intrigante. È un completo di lana della collezione 1968, donato al museo da Bernice Richard e parte della collezione permanente del Met. Abito girocollo, senza maniche, e cappottino sopra il ginocchio, in tre gradazioni di verde che s'intersecano in un gioco di quadrati, rettangoli, rombi, puntualizzato dalla chiusura a tre bottoni. I critici americani rimproverano Martin: la corrispondenza tra l'arte cubista e la sua traduzione nella moda è spesso sottotraccia. Eppure l'outfit di Mila, si intreccia con disinvoltura al filo conduttore e si presta, dal punto di vista cromatico, a diverse collocazioni lungo il percorso. Il colore, appunto. Questa palette di verdi brillanti è il primo indizio che conduce, per sensazioni, dall'ensemble sartoriale, dal due pezzi bon-ton, dal lieve divertissement di composizione-scomposizione, ai capolavori sulla tela, "La parisienne" di Delaunay, "Woman with a fan" di Picasso, secondo le più immediate associazioni visive, e poi, procedendo per astrazioni, quasi per salti, a "Queen Isabelle" di Picasso o "Still life with bottle and fruit" di Juan Gris. E se il rapporto tra il cubismo e l'ispirazione della stilista sembra labile, la scelta dell'abito di Mila si giustifica perfettamente considerando la sua educazione "al guardare", l'abitudine a trasferire liberamente nelle collezioni i segnali di altre esperienze artistiche centrate sui rapporti con lo spazio, le geometrie, le vibrazioni ottiche, come quelle di Fontana, di Vasarely, di Noland, i "mobiles" di Calder.

13 settembre, 2005. Metropolitan museum di New York

 
Una ventata di energia spazza le asfittiche sale dell'Istituto del Costume, che si aprono per la prima volta non a una vera e propria "mostra" di vestiti a tema, o a un couturier storico, ma a una parte dello sterminato guardaroba di Iris Apfel, 88 anni, icona della moda internazionale e antesignana degli assemblaggi arditi tra griffe e mercatini delle pulci. È un evento destabilizzante, voluto dal successore di Martin, Harold Koda. Irriverente Iris, rara avis, "rare bird of fashion", come titola l'allestimento, omaggio alla newyorkese del Queens di origine russa che fondò, col marito Carl, una delle compagnie tessili e d'arredamento più importanti al mondo, Old World Weavers, ma soprattutto prima donna a sdoganare il "fusion" nella moda in anni in cui abbinare Chanel a qualcosa che non fosse Chanel equivaleva a un'eresia. Dior disegnato da Ferrè o da John Galliano, Oscar de La Renta, James Galanos, Ungaro, Lanvin, Nina Ricci, Jean-Paul Gaultier, pezzi di haute couture o di pret-a-porter che perdono ogni "tracciabilità" negli abbinamenti spiazzanti, con borse e copricapi nuziali cinesi, gioielli in argento e turchese degli indiani d'America, coperte tibetane trasformate in ponchi, cinture africane, borse a forma di animale recuperate in qualche bancarella.


«I'm not a lady who lunches» è la citazione che apre una delle sezioni più raffinate, una sequenza di bianchi e neri da giorno, dove i manichini, che di Iris replicano l'accessorio inconfondibile, gli enormi occhiali tondi, mimano possibili situazioni e occasioni in cui abiti e monili sono stati indossati. È qui che troviamo un completo vintage di Mila Schön, fatto risalire in catalogo al 1967 circa, ma probabilmente della collezione 1969, anno delle intersezioni tra pelliccia e pelle. Insolita dark lady, quella firmata da Mila: stampa a coccodrillo per la pelle della gonna al ginocchio e del gilet, quest'ultimo bordato di visone. Il manichino è seduto su una sedia e appoggia le braccia allo schienale di un'altra, i piedi calzati in mocassini di camoscio color mostarda, ai polsi braccialetti di legno nero. Potrebbe essere una pausa di lavoro o un cocktail con le amiche, l'insieme, semplice e sartoriale, tra i più "datati" della mostra, è sobrio e modernissimo, sottilmente malizioso. Pelliccia e pelle, due trasgressioni che quasi si elidono, il lusso e il gioco dell'abbigliamento che viene dalla strada.


L'abito di Mila che fa parte della collezione di Iris Apfel, fotografato da Eric Boman ed esposto nel 2005 al Met di New York nella mostra "Iris Apfel, rare bird of fashion"

Conferma Iris Apfel, che in questi giorni è impegnata nell'ennesima "gemmazione" di "Rare bird of fashion", al Peabody Essex Museum di Salem, in Massachussets. I due pezzi di Mila, acquistati nella boutique in via Montenapoleone, li ha portati per anni e li porta ancora, e così le decine di altri capi della stilista che possiede, soprattutto abiti corti, giacche, pantaloni di lino e di lana, e il suo preferito, una mise da sera con decori infinitesimali di pietre e paillettes.
Mila Schön era tutto quello che il completo scelto per la mostra sintetizza: qualità dei materiali, tecnica di lavorazione, senso del taglio "architettonico" dell'abito. Non vintage, mi corregge, "timeless". 

twitter@boria_a



La stilista dalmata Mila Schön

martedì 15 dicembre 2009

MODA & MODI: se il bra non è più "wonder"

"The strange case of the disappearing bosom", lo strano caso del seno scomparso, commenta il paludatissimo Financial Times, riflettendo su come la più prevedibile e sfruttata area sessual-glamour si sia volatilizzata dalle passerelle. La geografia delle zone erogene è cambiata e la silhouette disegnata dagli stilisti ha assunto contorni severi, modesti, quasi penitenziali. Se la moda non rinuncia a profonde scollature a V, fa di tutto perchè l'occhio non ci cada dentro, velandole con una banda di pizzo nero o con triangoli di stoffa che interrompono la profondità del décolleté. Il lato B ha già ceduto, metaforicamente parlando, mandando in archivio pantaloni e guaine incollate al sedere e costringendo JLo e compagne al brivido di come guadagnarsi da vivere senza muovere il sedere. Ora tocca al seno, rimodellato, alleggerito, ingentilito da linee più caste, che preferiscono sfumare e accarezzare, piuttosto che accentuare. Gli ortodossi  delle proporzioni hanno una spiegazione geometrica: se le spalle si squadrano, seguendo l'ispirazione degli anni Quaranta o degli anni Ottanta, è inevitabile che il busto non possa spingersi troppo in fuori, per evitare un eccesso di protuberanze.
La lingerie si adegua e rinuncia ai rinforzi. A cominciare dagli odiosi pesciolini, appendice sfuggente per antonomasia. E scompaiono dalle nuove linee anche i ferretti o le stecche per sottolineare e sostenere i bordi e le imbottiture che irrigidiscono le coppe fino a trasformare il seno in un oggetto guerresco. Grazia, è l'ingrediente per definire la svolta. Già si vede negli slip, più larghi e più lunghi, mutande spartane o impalpabili e raffinate culotte, comunque prive di qualsiasi cucitura rivelatrice. I reggiseni puntano su modelli soffici e scelgono materiali preziosi, con tecniche di lavorazione a supplire sostegni posticci. Basta push up, wonder bra e altre meraviglie un po' sospette, ritornano i triangoli ma costruiti in modo tale da contenere seni irrobustiti da dieta e attività sportive, ormai non più corrispondenti alle taglie tradizionali e codificate.
È un pregiudizio che busti impegnativi cedano se non supportati da imbottiture e metallo, basta dare un'occhiata alle griffe francesi che propongono modelli glamour fino all'estremità della scala delle coppe. Un balconcino con bretelle larghe sorregge con levità, mentre i nuovi pizzi stretch rendono eleganti e non volgari anche i modelli pieni, tradizionalmente "contenitivi". E più l'esterno è monacale, più l'intimo si arricchisce di seta e tulle, chiffon e satin, nastri e inserti, in sfumature vintage e un po' demodé, carne, cipria, perla, torrone. "Future retro", si definisce la tendenza, fibre naturali e tecnologia per dare, insieme, tensione e sensualità. Parole d'ordine: naturalezza e morbidezza. Che fortuna poterle recuperare solo cambiando il reggiseno.
@boria_a
Amourette Sweet bra della Triumph

martedì 17 novembre 2009

MODA & MODI


Read my pins, e ti dirò chi sono


Madeleine Albright con Arafat


Demodè? Impegnativa? Muffosa? Per cappottini e twin-set di casalinghe scipite? Se guardando una spilla vi vengono in mente solo questi aggettivi e possibili collocazioni, avete perso decisamente l'ultimo trend. Stravaganti, preziose o finte, colorate, enormi e importanti, le spille sono più che mai in auge. Se un tempo comparivano solo su colli e maglioncini dai colori indecisi, così da ravvivarli appena quel tanto che bastava per non mettere la signora sopra le righe, oggi si portano sui cappelli, sulle cinture, appese alle collane, tra i capelli, per trasformare la silhoutte di un vestito o di una gonna, per far combaciare bordi e rendere più sensuali le scollature.

Quanto al loro rapporto con donne di potere, date un'occhiata al libro "Read my pins: stories from a diplomat's jewel box" (leggi le mie spille: storie dal portagioie di un diplomatico, HarperCollins), sulla stupenda collezione di Madeleine Albright, oggi esposta al Museum of arts and design di New York, duecento pezzi che la corpulenta democratica descrive come altrettante tappe della sua carriera.

Quando, per esempio, ebbe sentore che il presidente Clinton intendeva nominarla segretario di Stato, giurò a se stessa che se fosse accaduto si sarebbe regalata una portentosa aquila d'oro con le ali tempestate di diamanti, che puntualmente comparve in alto sulla sua giacca quando, nel gennaio 1997, divenne non solo la prima donna a ottenere questo incarico, ma la più potente dell'amministrazione Usa e l'unica a sedere nel Consiglio di sicurezza. Capitò pure che la chiusura si sganciasse e l'aquila rimanesse a penzolare maliziosamente sul busto della signora, come se fosse pronta a spiccare il volo da una portaerei...


Da allora, Madeleine ha giocato con le spille, parole sue, non solo per civettare con eleganza in un mondo maschile, ma utilizzandole come "indicatori" del suo umore e delle sue intenzioni, come messaggi agli interlocutori nei consessi internazionali. Read my pins, appunto. Così, dopo che la stampa irachena l'aveva definita un "serpente senza eguali" per le sue critiche a Saddam Hussein, non esitò a presentarsi davanti agli ufficiali iracheni con un rettile d'oro brunito sulla spalla. «Non avrei mai immaginato - confessò in seguito - il potere che avrebbe avuto».


Recuperata dagli anni '80, dove era l'accessorio migliore per enfatizzare spalle quadrate e capispalla dai tagli scolpiti, la spilla assume ora posizioni poco ortodosse (già Jackie ne portava di rosso fuoco agganciate alla cintura o alla collana di perle, Michelle invece preferisce grandi fiori, anche di plastica, all'incrocio della scollatura a V), ma soprattutto cambia identità. Non ha paura di essere sproporzionata, colorata, allusiva, di mischiare pietre preziose e povere, di sfiorare il kitsch. E, soprattutto, di parlare in codice. Quelle americane degli anni '40 e '50 spopolano sul web e raggiungono quotazioni da gioielleria: vasi di fiori, cornucopie, ghepardi, libellule, corone bastano a trasformare un vestito da giorno in una mise da sera e a dire mi sento aggressiva, leggera, vincitrice... Sarah Jessica Parker, una fan delle spille, è stata avvistata di recente con uno splendido gioiello di Verdura in platino e diamanti. Un bersaglio con tante piccole frecce che trafiggono il centro. Più chiaro di così...
@boria_a



Michelle Obama con un vistoso fiore verde


martedì 3 novembre 2009

MODA & MODI: L'uomo rimette la giacca, anche "brezneviana"

Torna il maschio con la giacca, il maschio "maschile", con buona pace della tautologia. Il clima di riflessione bandisce le bizzarrie dalla passerella, i giovanotti con i bermuda in pieno inverno, i kilt sopra le ghette, i completini strizzati da efebo metropolitano. L'uomo si è stancato di giocare a interpretare ruoli stravaganti e riapre il guardaroba alla moda classica, elegante, più in sintonia con il momento di riflessione, poco incline a stramberie e svenevolezze. Di questi tempi, un'immagine che lancia anche un rassicurante messaggio psicologico all'universo femminile, spiazzato da impreviste concorrenze del terzo sesso: sono un uomo e mi vesto con i miei capi, non "rubo" nulla al guardaroba femminile, non mi trastullo con l'identità, anzi, vado controcorrente e la riaffermo. Può essere ingannevole apparenza, come le cronache di giornata dimostrano, ma è un confortante placebo.
Ricompaiono addirittura il Borsalino sul cappotto sopra al ginocchio in principe di Galles, la dolcevita vagamente esistenzialista, i pantaloni asciutti e dritti senza le pences, la giacca a due bottoni o doppiopetto, con qualche timida concessione ai colori chiari e alla frivolezza della borsa-tasca sulla spalla, antico retaggio del borsello anni Settanta. È questo il "mood" che ispira la moda maschile, proponendo Steve McQueen ed Helmut Berger (appunto: perchè non entrano in gioco le preferenze sessuali, ma l'eleganza di "genere") come modello cui ispirarsi, con i maglioni collo alto scuri su pantaloni in tinta, i gilet ben tagliati, i cardigan che spesso sono più eleganti delle giacche. E ancora classici pied de poule e spinati polverosi, le camicie-polo, i blazer dai bottoni d'oro e la sahariana, i giacconi blu marinaro e il loden senza tempo, il tutto reso più "morbido", meno ingessante, più in sintonia con l'esigenza di star bene, ed essere piacevoli da guardare, per tutto l'arco della giornata.
Giacca, dunque, ma attenzione ai recuperi azzardati. Funziona come per gli abiti da sera delle signore, che capita di veder ciclicamente tirati fuori dalla naftalina nella convinzione che siano graziati dal passare degli anni. Alle "prime" che richiedono toilette da sera, si incrociano spesso modelli che sembrano rispolverati da una puntata sul ponte di "Love Boat".
Per molti uomini, la giacca o il completo assumono lo stesso valore di capi-rifugio, confinati in una dimensione "atemporale", con cui attraversare impunemente anni, stagioni, occasioni come se fossero esenti dal mutare della moda, dal cambio dei tagli, dei materiali, dei colori, delle consistenze. Guardate, tanto per citare una categoria sotto i riflettori, i politici che vi circondano. In particolare, in alcune circostanze, quando celebrano matrimoni, depongono corone, tagliano nastri, o partecipano a un qualche appuntamento che, secondo il loro metro, riveste i contorni della "solennità". Sfoggiano, e in modo del tutto bipartisan, straordinarie campionature di giacche brezneviane, che del piombo hanno tinta e soprattutto morbidezza. E che andrebbero riposte, senza rimpianti, negli armadi della guerra fredda.
@boria_a
Breznev e Nixon nel 1972


martedì 20 ottobre 2009

MODA & MODI: di quelle quattro ragazzacce restano solo le scarpe

Di quelle trasgressive, feticiste, voyeuriste ragazzacce di Manhattan sono rimaste solo le scarpe. Anzi, i tacchi. E che tacchi: i booties con le borchie firmati da Brian Atwood Loca veleggiano oltre gli ottocento dollari, le décolleté di pizzo dell'immancabile Christian Louboutin oltre i millesettecento. Eccole, Carrie e Miranda, arrampicate in cima ai lorostiletto filiformi, sul set blindato di "Sex and The City 2", il sequel del sequel che uscirà il prossimo maggio e che, stando alle prime, pilotatissime indiscrezioni, trasformerà la più acuta e spregiudicata serie tv degli ultimi anni nel prevedibile polpettone buonista, con le quattro diventate proprio come noi, all'epoca, tra il '98 e il 2004 tra i trentacinque e i quaranta, oggi mogli e mamme alle prese con marmocchi, recessione e tran tran domestico.
Per le cultrici maniacali delle sei stagioni, quelle che sanno persino che una collana di Samantha era stata riciclata in una serie successiva e messa addosso a Enid, l'editor di Vogue che tiranneggia Carrie, già il primo film era stata una coltellata. Assurdamente ineleganti, tutte urletti e moine fasulle, sgargianti, congelate in una Manhattan da turisti (che tristezza quando Carrie va a vedere l'appartamento in Park Avenue e che nostalgia per lo "studio" monovano in quella chicca di Perry street...), le quattro amiche sembravano sprofondare a ogni colpo di tacco in una delle nostre soap nostrane, tutte famiglia, pentimento, perdono, buoni sentimenti, tradimenti che finiscono bene e chiacchiere insipienti infarcite di moralismi.
Finite le confidenze esplicite tra donne, l'allegra, rigenerante scostumatezza di linguaggio, il sesso adrenalinico, la spietata dissezione delle inadeguatezze maschili, a letto e fuori. Al loro posto un fumettone di colpa e perdono, con il fedifrago perdonato, l'eterno inseguito che capitola, la gravidanza tanto attesa che arriva, sullo sfondo di una New York immobile e botulinizzata (come loro, purtroppo).
Restano le scarpe, le Manolo e dintorni, sempre eccessive, eccentriche, esagerate, quelle che nel film n. 1 Carrie torna a recuperare nell'appartamento di lusso, ritrovando così Mr. Big e la strada dell'amore ("l'unica griffe che non passa mai": purtroppo lo dice proprio lei). Scarpe masochiste, peccaminose, come quelle che ci metteremo quest'inverno, chiuse alla caviglia da fibbie e lacci fetish, con zeppe da geisha, tacchi scultura, plateau a isola, per renderci ancora più minacciosamente traballanti, più incombenti, più liberamente peccaminose. Scarpe da capogiro, vertiginose in altezza e prezzi, che le quattro amiche indosseranno anche nel film n. 2, nonostante lo scenario sia la crisi economica che s'inghiotte pure uno squalo come Big. Deliziosa incongruenza che perdoneremmo volentieri, se con gli stiletto le quattro ragazzacce tornassero a cavalcare la Città e a disturbare gli uomini. Ma nel film, a dispetto delle scarpe, non accadrà più.
@boria_a
Sex and The City 2

mercoledì 7 ottobre 2009

MODA & MODI: sfilata da divano

Cosa non fanno la crisi e il bisogno di allargare il più possibile il bacino dei potenziali clienti. Domani cade un muro di Berlino della moda. Il marchio Louis Vuitton manderà in diretta su Facebook e per le ventiquattro ore seguenti la sua sfilata parigina. I tempi bui per le griffe del lusso hanno sdoganato il più democratico, incontrollato, ordinario "salotto" on line, dove il mitico Lv, già da un paio di mesi, ha aperto una pagina ufficiale intitolata "The art of travel by Louis Vuitton", raccogliendo un qualcosa come seicentomila iscritti nel mondo e probabilmente un target molto diverso da quello che entra d'abitudine nei suoi negozi. Anche Dolce & Gabbana, pur avendo dichiarato in una recente intervista al Sole 24 ore, che il marchio non soffre la recessione, hanno pensato bene di sbarcare su You
Tube con i "Diari" della loro sfilata, dal backstage alla diretta dello show, raccogliendo, in soli quattro giorni, circa sedici milioni di contatti.
Ricordate "Il diavolo veste Prada" e la tragedia della prima assistente di Miranda, Emily, quando, causa una gamba rotta, è costretta a rinunciare all'evento per cui si sta attrezzando da mesi, dieta inclusa, ovvero le sfilate di Parigi? L'angoscia di non partecipare alla settimana più ambita dalle giornaliste d'oltreoceano, sedendosi accanto ad Anna Wintour, direttrice di Vogue America (cui s'ispira la perfida Miranda del film) e ai suoi tanti cloni, e misurando, dal posto e dalla prossimità alla passerella, lo status professionale e sociale conquistato nell'ipocritissimo ambientedella moda?
Era il 2006 e sembra un millennio fa. A tre anni di distanza, Emily potrebbe aggiornarsi tranquillamente sulle invenzioni dei guru parigini dello stile dal letto di casa sua, rinunciando forse solo a qualcuno dei ricevimenti cui sono ammesse anche le portaborse (nel senso letterale del termine: la Wintour, è noto, ha sempre le mani libere perchè dotata di uno stuolo di sherpa che custodiscono i suoi effetti personali...).
È arrivato il momento di ripensare il sistema delle sfilate? Pare proprio di sì se ormai a condizionare i designer di tutto il mondo sono i suggerimenti che arrivano dalla rete, da siti come "the sartorialist", collocato dalla rivista Time tra i primi cento "design influencers" del mondo, ma anche da blog come quello della tredicenne americana "rookie", così fulminante neI giudizi da essere, e lei sì di persona, invitata alla settimana della moda newyorkese.
La moda si "democratizza", non nei contenuti ma nella comunicazione, facendo sembrare più che mai ridicoli il rito della sfilata, il dramma degli inviti non ricevuti, le lunghe code agli ingressi, la frenesia delle corse da una location all'altra, il cerimoniale del "sitting", su cui si esercita il meglio delle pierre, ovvero la distribuzione degli ospiti secondo l'importanza della testata o degli ordinativi fatti alla griffe (quindi il cartoncino "standing", in piedi, equivale all'etichetta di paria in entrambe le categorie...).
Sfilate per tutti e a casa propria, confidando che la platea planetaria moltiplichi i desideri e rianimi i conti. E mai più giornalisti respinti dagli imperatori allergici alle critiche. Anche in questo caso, la rete è democratica.
@boria _a
Primavera-estate 2010 firmata Louis Vuitton

 MODA & MODI

Leonor Fini e Simonetta Colonna di Cesarò, amiche, un'amicizia tra arte e moda



La cliente più detestata? Estée Lauder, la signora dei cosmetici: dispotica, con una figura infelice e poco tempo per le prove. La cliente più disponibile? Leonor Fini: amava pantaloni e camicie che indossava con inimitabile e spavalda eleganza, d'inverno stivali col tacco alto e cappelli di pelliccia alla cosacca. Al contrario di Estée, la pittrice triestina era la cliente prediletta di Simonetta Colonna di Cesarò, che nel suo atelier parigino vestiva principesse e nobildonne, la collega Elsa Schiaparelli e sua nipote Marisa Berenson, Dalila e Zsa Zsa Gabor, Lauren Bacall e Merle Oberon.

«Bruna, istrionica, aveva grande intuito e sensibilità per la moda ed era una gioia vestirla». Così Simonetta, oggi ottantasettenne, ricorda Leonor nella sua autobiografia "Una vita al limite". «Il suo stile era molto personale, semplice, ma sorprendente. Le piaceva moltissimo avvolgersi con fare teatrale in lunghi mantelli ondeggianti, poncho e scialli. La sua tavolozza di colori non cambiò mai: amava il nero, nero con qualche tocco bianco, oppure il rosso».


Leonor e Simonetta si erano conosciute a Roma, durante la guerra. La prima frequentava scrittori e artisti della capitale e si affermava come ritrattista di celebrità italiane e signore dell'alta società. La seconda, figlia del duca Giovanni Colonna di Cesarò, ministro di Mussolini dimessosi dopo l'omicidio Matteotti, e moglie di Galeazzo Visconti, nella primavera del '46 fondava la sua casa di moda, appena ventiquattrenne, annoiata dall'asocialità del marito e desiderosa di rimpinguare il reddito familiare.



Abito e immagine di Simonetta Colonna di Cesarò (Pitti Immagine)


La sua prima collezione era composta da quattordici modelli di "povertà ingegnosa", come li definì la giornalista Irene Brin, ricavati dai materiali che si potevano reperire nell'immediato dopoguerra, strofinacci, grembiuli da giardiniere, uniformi da maggiordomo, anelli da tende, rafia, lacci, spago. Era uno stile disinvolto e originale, una ventata di freschezza che ebbe tanto successo da permettere alla stilista, un anno dopo, di creare anche abiti da sera. Nel febbraio 1951, alla sfilata che segna la nascita del "made in Italy", nella villa fiorentina del marchese Giovan Battista Giorgini, Simonetta presenta le sue creazioni accanto alle sorelle Fontana, Schuberth, Marucelli, Fabiani (che poi diventerà il suo secondo marito) Jole Veneziani, Pucci.

 
Di Leonor, scrive: «Penso di essere stata una delle sue poche amicizie femminili perchè non si curava troppo della compagnia delle donne. L'amicizia, però, era molto importante per lei, che odiava essere sola. Si attorniava di una piccola corte di ammiratori, di solito due o tre giovanotti per i quali rappresentava tanto una dea quanto un mentore. Loro la veneravano e lei li amava a sua volta...». Il rapporto continua negli anni. Nel 1949, Leonor esegue il ritratto di Mita Corti, sorella di Simonetta, opera esposta nella mostra al Museo Revoltella di Trieste dedicata alla pittrice.


Poi dipinge la stilista stessa. Quando Simonetta, col secondo marito, Alberto Fabiani, aprirà una boutique a Parigi, Leonor sarà tra gli invitati, insieme ad Helena Rubinstein ed Elsa Schiaparelli.
"Schiap", appunto. Un altro tassello importante del rapporto che lega Leonor Fini alla moda. Schiaparelli, "quell'italiana che fa vestiti", come la definiva la rivale Coco Chanel, era arrivata a Parigi qualche anno prima della Fini, separata dal marito e con una figlia piccola (Gogo, futura mamma di Marisa Berenson). Da sempre sensibile alle suggestioni dell'arte, si avvicina all'ambiente dei surrealisti, molti dei quali diventano suoi stretti collaboratori. «Lavorare con degli artisti del calibro di Christian Bérard, Jean Cocteau, Salvador Dalì, Vertés e Van Dongen, con fotografi come Honningern-Huene, Horst, Cécil Beaton e Man Ray aveva un qualcosa di esaltante - scrive nella sua autobiografia, "Shocking Life" - ci si sentiva aiutati, incoraggiati molto al di là della realtà pratica e noiosa in cui consiste la fabbricazione di un abito destinato alla vendita». 


Per Schiap, Cocteau disegna motivi di ricami costellati da simboli poetici, Dalì i tessuti con le aragoste, o le labbra rosse, e la borsa-telefono, Jean Hugo crea bottoni-scultura, Elsa Triolet e Luis Aragon progettano un collier di compresse d'aspirina. Ma è Leonor Fini a firmare la "creatura" che percorre tutta la vita della stilista. Leonor e Schiap sono nell'atelier di quest'ultima, in Place Vendome, e scherzano sui capricci dell'attrice Mae West, che, per facilitare la confezione degli eccezionali costumi di "Every day's a holiday", il film realizzato nel 1937 da Edward Sutherland, ha inviato alla stilista una statua di gesso che la raffigura nuda nella posa della Venere di Milo. Mae non vola mai dall'America per provare gli abiti, ma è il suo busto a suggerire a Leonor la sagoma del primo flacone di profumo firmato Schiaparelli, "Shocking!", ripresa negli anni Novanta da Jean-Paul Gaultier.



"Shocking" di Elsa Schiaparelli, con la boccetta disegnata da Leonor Fini ispirandosi al busto di Mae West



Schiap si ritira dalla scena nel 1947. Dopo il ritorno dall'America, dove si era rifugiata durante la guerra, la moda ha cambiato corso, le sperimentazioni e le trasgressioni lasciano il posto alla "restaurazione" di Christian Dior, alle sue donne dalla vita di vespa e le giacche con le stecche, affondate sotto metri e metri di stoffa.


Moda e arte. Ancora una volta, questa storia di incontri, corrispondenze, citazioni, incrocia gli stessi personaggi. Doveva diventare diplomatico il giovane Dior, ma era attratto irresistibilmente dall'ambiente artistico, dove fu accolto con simpatia, omosessuale facoltoso e garbato. Con il socio Jean Bonjean e i soldi di papà, industriale chimico - che non gli permetteva di usare il suo nome per non infangarlo - Dior aveva aperto una galleria e ne aveva fatto un luogo d'incontro mondano dove si potevano ammirare le opere di Paul Klee, Otto Dix, Max Ernst. Sarà proprio la Galerie Bonjean, dal 24 aprile al 7 dicembre 1932, a ospitare la prima personale parigina di Leonor Fini.

martedì 22 settembre 2009

MODA & MODI: nella mia borsa entra anche la termodinamica 

Vi è mai capitato di specchiarvi in un camerino e scoprire che avete avuto un rovinoso cedimento fisico nottetempo? Faccia sbattuta, pelle color cemento, glutei in caduta libera? E di arrovellarvi sul perchè sembriate inspiegabilmente più basse, più schiacciate, meno toniche e con centimetri di cellulite inesplorati? A me spesso e proprio in uno dei miei negozi preferiti, il cui effetto ansiogeno, ho appurato, non è dovuto solo ai prezzi, ma è una conseguenza della luce visibile, la più conosciuta delle onde elettromagnetiche. L'illuminazione del famigerato camerino è determinata da lampade a fluorescenza, che, grazie a un meccanismo di atomi di mercurio e polveri dette "fosfòri", creano un agghiacciante effetto "mezzogiorno in spiaggia", rivelando senza pietà ogni poro dell'epidermide, ogni pelo superfluo, ogni incipiente smagliatura. Per di più sono posizionate in alto, come nella maggior parte dei casi, il che dà l'orrenda sensazione che le gambe si siano accorciate.
Ma c'è di peggio. Può accadere che in qualche grande magazzino la luce scelta sia "modello Stasi", ovvero un fascio gelido e bianco prodotto da tubi al neon, simile a quello utilizzato dalla polizia della Ddr durante gli interrogatori (provare per credere: nello store newyorkese più battuto dai turisti, vicino a Ground Zero, non vedete l'ora di uscire dalle fitting rooms per darvi una rinfrescata...). Strategia, pare, studiata a tavolino, in modo da costringere le signore che si scoprono su due piedi anemiche e grinzose a correre nel reparto cosmetici convinte dell'impellenza di una crema antirughe. La luce migliore, suadente e non troppo realistica, è quella regalata da un faretto alogeno: un filamento di tungsteno racchiuso in un bulbo di quarzo emette una bella luce brillante, che accarezza le forme e fa apparire liscia la pelle. Se non c'è "sindrome da camerino" l'acquisto è più felice e psicologicamente più facile. Prendete gli specchi: una leggerissima curvatura lungo l'asse verticale o un'inclinatura all'indietro ci fa sembrare più alte e slanciate e quindi più convinte dell'abito che abbiamo in mano.
Chi ha detto che scienza e moda sono così distanti? O che non è possibile una scienza "modaiola"? Se ne sapete poco (o nulla, nel mio caso) della prima e molto della seconda, è consigliato il gustosissimo "La fisica del tacco 12" di Monica Marelli(Rcs Libri), fisica lei stessa e fermamente convinta che dal dna alla tinta del parrucchiere, tutto si possa capire con le sue leggi. Così, insieme all'ingegnere biomeccanico inglese John Tyrer, scopriamo che per il reggiseno perfetto bisognerebbe pesare le mammelle (non provateci, toglie tutta la poesia: vanno immerse una alla volta in una vasca piena d'acqua, poi si pesa il liquido che è traboccato e si moltiplica per un fattore di correzione...), e che camminiamo male sui tacchi a spillo perchè la pressione esercitata dal terreno sulla pianta dei piedi è troppo elevata e concentrata nel punto sbagliato. Che soddisfazione, poi,  apprendere perchè non riesco mai a trovare chiavi, cellulare, rossetti nella mia borsa. Quel perenne disordine è dovuto all'"entropia", cioè alle tante possibili configurazioni casuali degli oggetti all'interno, molto più
probabili di quell'unica ordinata che ho stabilito io. Non ne ho colpa, dunque, è la seconda, autorevolissima, legge della termodinamica.
@boria _a

martedì 8 settembre 2009

MODA & MODI

Anche la Kinsella ha un'eroina della crisi


Spalle quadrate? Neo-leopardato? Chiodo e tacchi assassini? Se l'economia dice austerity, la moda s'impunta e rilancia: supremacy. Mentre conti e certezze vacillano, dai bauli degli anni '80 escono molti fantasmi: giacche di pelle, proporzioni esagerate, plateau e stiletto, animalier aggressivo e colori esplosivi, "sbarluccichii" di lamè e paillettes. Il power-dress rispolvera le sue armi più collaudate, tailleur, tacchi alti, rigidità e geometrie, neri e ori, un armamentario indirizzato paradossalmente a signore negli "anta", quelle che gli analisti dicono le più colpite dalla crisi strutturale (ovvero: se sei fuori e intorno alla mezza età, hai poche speranze di tornare al lavoro).
Contraddizioni? Sbandamenti? Incertezze? Mai come in questa stagione la moda balla con l'orchestrina del Titanic, poco in sintonia con aspirazioni e aspettative di potenziali destinatarie. I saldi non hanno esaltato i commercianti e già i negozi si riempiono di collezioni che tra tre mesi saranno in offerta speciale. Sfogliare le riviste femminili è fare un viaggio in un mondo immaginario che lascia spiazzati, sprofondandoci in un turbillon di scarpe e vestiti con le borchie, fuseaux lucidi, giubbini da motociclista, guaine panterate, borse come coccodrilli da passeggio, scarpe su cui issarsi a fatica, figuriamoci affrontare giornate che consigliano di impiegare altrove le energie.
Più la crisi è fitta, più la moda se ne estranea. E a sfidare i fantasmi onnipresenti della recessione, sceglie di mandare estemporanee amazzoni, donne sigillate in abiti rigidi, guerreschi, o sfavillanti di colori che ricordano il "mood" di anni più sbadati e leggeri, anni da bere di cui a malapena risentiamo in bocca il sapore. Il sogno deve alimentare se stesso, dicono gli esperti del settore. E allora in passerella scorrono borse gigantesche, accessori esagerati, tronchetti da combattimento, piattaforme e aghi, pitonesse e ballerine, figure teatrali che pare difficile trasferire nella realtà, sia pure solo a livello di ispirazione. Intanto, mentre gli stilisti litigano per il calendario delle sfilate dell'imminente settimana della moda millanese, gli esperti di economia annunciano una prossima "corsa ai marchi", scatenata dalle condizioni in cui versano molte società quotate in Borsa. E Mario Boselli, presidente della Camera nazionale della moda, da Cernobbio chiede un "piano Marshall" per salvare il settore del tessile, ormai alle corde.
Senso di responsabilità: ne parlano tutti. Ma a guardare le collezioni sembra che i primi ad essersene dimenticati siano proprio gli stilisti. Ricordate Becky, la fashionista con le mani bucate della fortunata serie letteraria di "I love shopping"? Quella delle spese folli, delle carte di credito prosciugate, della miniera di griffe nell'armadio? Ebbene, anche Sophie Kinsella ha dovuto adeguare la sua eroina letteraria ai tempi della crisi e l'ha trasformata nella virtuosa Lara, protagonista de "La ragazza fantasma", lavoro incerto, look minimale e, come trasgressione estrema, una giacca a edizione limitata della catena Topshop.

Più noiosa, forse, ma più simile alle sue lettrici.
twitter@boria_a

venerdì 28 agosto 2009

LA MOSTRA

Leonor Fini, l'italienne de Paris


Nudo di Leonor Fini di George Platt Lynes

È una gatta a far litigare, a Parigi nella primavera del 1948, Leonor Fini e Margot Fonteyn. La mascherina disegnata dalla pittrice per "Les demoiselles de la nuit" di Roland Petit, fa "orripilare" l'etoile, che la ritiene grottesca e invasiva, un attentato all'ideale di bellezza romantica che ha costruito su di sè. Ma Leonor, che ama i felini al punto da fondere la sua fisionomia nella loro, non vuol sentir ragioni, minaccia di dar fuoco al teatro se le critiche di Margot troveranno udienza. Capricci di primedonne che la diplomazia di Roland Petit riesce alla fine a smussare: la ballerina accetta le stravaganze della costumista, purchè la maschera venga aggraziata, le fattezze assottigliate. E la querelle finisce in una vacanza comune ad agosto, Margot ospite nella casa di Leonor a Le Bruse, nel sud della Francia, dove, tra bagni, picnic e gite nei dintorni, riprende le forze prima di affrontare la stagione al Covent Garden di Londra, davanti al suo pubblico.
Quindici anni dopo il balletto è alla Scala di Milano, al posto di Margot Fonteyn c'è Carla Fracci, gattina "gentile ed elegante", meno "felina" della collega inglese. Leonor Fini disegna nuove scene e bozzetti sul modello di quelli precedenti, ma questa volta ai tratti impazienti delle micie francesi, si sostituiscono pennellate sorvegliate, per gatte più mature e seducenti, consapevoli del loro fascino. Al ricordo dei suoi amati compagni di vita a quattro zampe, Leonor ha unito un estremo atto d'amore.



"Au Bout du Monde" di Leonor Fini, 1949
Gli episodi legati alle "gatte ballerine" sono raccontati da Vittoria Crespi Morbio nel saggio "Il teatro sovvertito di Leonor Fini", uno dei tanti contenuti nel catalogo appena pubblicato dal Museo Revoltella di Trieste a corredo della mostra "L'italienne de Paris" (aperta fino al 27 settembre), curata dalla direttrice del museo, Maria Masau Dan.
Più che una "guida" all'esposizione, una corposa monografia sulla pittrice triestina, che, in oltre trecento pagine, alterna gli approfondimenti critici sulle varie stagioni artistiche, Trieste, Milano, Parigi, agli omaggi più intimi, come quello, "Cara gattona", di Sibylle de Mandiargues, figlia di André, primo compagno di Leonor a Parigi, per chiudersi con le interviste agli amici artisti di lunga consuetudine, Enrico Colombotto Rosso, Leonardo Cremonini, Michel Henricot e il più giovane, Eros Renzetti, che la frequentò insieme a Fabrizio Clerici negli anni '80 e poi fino alla morte di lei, nel 1996. Diciassette contributi, tra analisi e colloqui con i compagni di strada, dissezionano vita e opere della pittrice da molteplici prospettive, con la sfida dell'esaustività e il rischio di far vacillare il lettore nelle stesse iperboli che piacevano tanto alla protagonista.
L'ultimo omaggio è una lunga intervista di Vanja Strukelj a Gillo Dorfles sugli anni triestini di "Lolò", quelli in cui entrambi, col gruppo "estremamente intellettualizzato, però anche leggermente sportivo" di cui facevano parte Bobi Bazlen, Italo Svevo, Elsa Dobra, andavano a passeggiare in Carso o a giocare a bocce al "Cacciatore". E il liceale Gillo, pizzicato in città con l'eccentrica Leonor, doveva mandare la madre dal severissimo professor Sabbadini, che la metteva in guardia su quella ragazza «non per bene» con cui il figlio andava in giro.
Leonor e il controverso rapporto con i surrealisti, che non fu mai appartenenza a una "scuola" nè asservimento ai suoi dogmi (lo ricorda l'amico Jean-Claude Dedieu: la pittrice a Parigi indossa calze viola acquistate a Roma, loro la prendono per una provocazione sacrilega ma a lei è semplicemente innamorata del colore...). Leonor e i mascheramenti, le cui origini l'analisi di Ernestina Pellegrini fa risalire a un'infanzia vissuta interamente in un gineceo, priva di qualsiasi aggancio a un ordine di valori maschili, un matriarcato alla luce del quale va letta anche la produzione artistica.
La piccola "Lolò", scappata a Trieste dall'Argentina, viene vestita da maschietto per eludere i sicari inviati dal padre. Una foto di famiglia fissa curiosamente questa rete femminile che la circonda: nell'immagine le zie sono vestite da marinaio e la nonna da comandante, su una finta nave di un finto mare Adriatico. «È il trionfo dell'onnipotenza femminile en travesti - dice Pellegrini - l'ostentazione fiera di un governo matriarcale totalizzante, che si incarna una volta per tutte in ciò che si può chiamare "l'enigma della sfinge", una sfinge da lei ritratta ossessivamente nella sua insolente bellezza...». "Sfinge Filagria", "Sfinge regina", "La piccola sfinge eremita" s'intitolano i quadri degli anni '40, quella stessa sfinge di granito, a Miramare, su cui Leonor bambina si fa fotografare, di spalle, quasi a cavalcare, a dominare l'enigma della femminilità. Una seduzione per lei inesauribile - e la spiega densamente Luisa Crusvar nel suo saggio sulla "mitologia dell'ambiguità" - legata al senso di "forza e regalità, fatalità ed enigma" che alla sfinge attribuiva la Grecia antica e che la pittrice
associa anche agli adorati gatti. A quest'enigma, che su se stessa Leonor rappresenta con imponenti e sinistri travestimenti, fa da contraltare un lato segreto, ancora poco indagato: il ricchissimo carteggio con la madre, lettere giornaliere in cui si leggono fragilià e smarrimenti di un'artista imprigionata nella perenne parata di se stessa («Dell'operazione avevo terrore - scrive a Malvina, dopo l'asportazione dell'utero - perchè sapevo che finchè non si apre un corpo non si può dire nulla... Piansi tutta l'estate con un'angoscia orribile...
pensando sia di morire sia di essere mutilata... non volevo dirti niente visto che là non potevi essere e visto che era inutile agitarti...»).
Trieste, Milano, Parigi, le fasi e gli incontri, gli anni e gli uomini, sono ripercorsi da Maria Masau Dan, Nicoletta Colombo, Isabella Reale. Con un atteggiamento della critica che, anche quando Leonor fu più vicina al surrealismo e ai suoi protagonisti, verso di lei fu scostante, sia per la distanza che la pittrice stessa rivendica tra sè e il "movimento", sia per il sopravvento del personaggio, delle sue passioni e intemperanze, sull'artista.
Filo conduttore del percorso, più illuminante di qualsiasi dissertazione, sono le foto, tante e bellissime, firmate da Dora Maar, André Ostier, Henri Cartier-Bresson, Eddy Brofferio, Arturo Ghergo, Veno Pilon, Richard Overstreet. Leonor nel mare di Trieste abbracciata a uno scheletrico André de Mandiargues, nuda e scultorea per l'obbiettivo di George Platt Lynes, Leonor con i gatti, con le bambole, in Egitto nel '51, davanti alla sfinge e insondabile come lei, Leonor nella sua casa di Nonza, in Corsica, inquieta creatura acquatica, arborea, fusa con la natura eppure estranea. Julien Levy, il gallerista di New York che nel 1936 organizzò una mostra della Fini e di Max Ernst, così ricorda il primo incontro con lei: «Non una bella donna; le sue parti non stavano bene insieme; la testa di una leonessa, la mente di un uomo, il tronco di una donna, il busto di una bambina, la grazia di un angelo e l'eloquio del diavolo. Mentre la caratteristica che colpiva erano gli occhi, grandi e di un nero profondo, il suo fascino era la capacità di dominare le sue parti mal assortite in modo da far sì che
assumessero qualunque forma la sua fantasia desiderasse presentare da un momento all'altro... Era vestita di stracci, o piuttosto di un abito sontuoso strappato ad arte...».

twitter@boria_a


"Au Bout du Monde" di Leonor Fini, 1949

martedì 25 agosto 2009

MODA & MODI: il little black dress che dura un anno intero

Coco Chanel, probabilmente, arriccerebbe il suo naso pronunciato. Ma le fan della moda "sostenibile", sempre più numerose e fantasiose, sono entusiaste dell'idea. Il famoso "little black dress" di mademoiselle, icona vestimentaria dello stile intramontabile, diventa un abito da trecentosessantacinque giorni l'anno, basta reinventarlo ogni mattina con accessori diversi, riciclati, recuperati su e-bay o nei mercatini delle pulci e rigorosamente no-logo. Collegatevi a theuniformproject.com e guardate un po' cosa è venuto in mente alla pubblicitaria newyorchese Sheena Matheiken. Un antidoto divertente alla crisi e una crociata contro l'industria della moda, che alimenta lo spreco e la corsa al superfluo, spingendo le shop-aholic di tutto il mondo a liberarsi ogni anno di milioni di tonnellate di abiti smessi pur di non perdere presunti trend. Ecco, allora, la sfida. Un vestito solo lungo dodici mesi. Da maggio, Sheena indossa ogni giorno l'abitino nero - in realtà sono sette, uno per ciascun giorno della settimana, disegnati per lei dall'amica stilista Eliza Starbuck - e tiene un diario fotografico quotidiano sul blog dove illustra come "galvanizzare" la mise perchè sembri sempre nuova.
Con il vestituccio nero si può andare anche a un matrimonio (verificate sul 14 giugno), basta aggiungervi un grande collo, una sottoveste di pizzo e un paio di orecchini vintage. Negli altri giorni, non c'è che da sbizzarrirsi con leggings psichedelici, gilet, cappelli, cinture, calzettoni, occhiali e con tutta una serie di collane pazzoidi regalate dai fan dell'iniziativa.
Che, sempre in linea con la sostenibilità, ha uno scopo benefico, per finanziare le uniformi dei ragazzini indiani in età scolare (Sheena stessa accantona un dollaro al giorno, uno ogni "cambio" d'abito). Lei, infatti, è lì che ha fatto pratica: «Sono cresciuta nel sistema indiano in cui le uniformi nella scuola pubblica erano obbligatorie. Volevano imporre uniformità ai ragazzini, ma ognuno di noi si divertiva a esprimere la propria personalità e la propria creatività interpretandole a modo proprio».
Del "little black dress", a essere sinceri, resta poco. Le sovrapposizioni sono talmente tante che si fa fatica a riconoscerlo. Ma, a parte qualche maltrettamento eccessivo (il cowboy del 4 luglio, lo stile "edoardiano" del 5 maggio...), Sheena mette in rete una miniera di idee a poco prezzo e qualcuna decisamente chic, che a Coco sarebbe piaciuta (verificate l"executive" del 12 maggio o la deliziosa "fleurette" del 28 luglio, con una collana vintage di margherite all'uncinetto...).
In fondo, anche nel caso di mademoiselle Coco, tutto nasce dall'uniforme: odiava quella del suo collegio di orfana e si vendicò imponendo a tutte le donne di indossarne una uguale, bianca e nera, bellissima ma pur sempre uniforme. Sheena si è esercitata fin da piccola a "mimetizzare" quella della scuola e ora è lei a tiranneggiare con ironia chi, per forza, vuol mettersi una divisa...
@boria _a
Sheena Matheiken

martedì 11 agosto 2009

MODA & MODI: tra crocs e frocs


Per una crocs che se ne va, un tronchetto che ritorna. Non c'è pace per le nostre estremità. Liberatesi a fatica dagli zoccoletti di cellulosa, almeno da quelli doc, stanno per re-infilarsi negli altrettanto orridi stivali mozzati, lanciati tra gli accessori di tendenza per il prossimo inverno. Se non c'è affatto di che rallegrarsi quando un'azienda va in crisi, la notizia dei milioni di "coccodrillini" ergonomici rimasti invenduti, ha scatenato in molti un'euforia da liberazione. Nonostante il colorato ciabattare in video degli allegri chirurghi di "Grey's Anatomy", nonostante eccellenti testimonial involontari, da Al Pacino ad Halle Berry, le crocs autentiche sono affondate: profitti in picchiata, migliaia di posti di lavoro in fumo, a meno che ai tre amici di Boulder, in Colorado, inventori delle calzature più concupite dai tedeschi dopo le birkenstock, non venga un'altra pensata geniale per castigare i nostri piedi. «Ci sfugge il motivo per cui qualcuno dovrebbe voler copiare le crocs, ma l'hanno fatto», scriveva tempo fa il Pop Culture Post, spiegando con la spietata concorrenza dei falsi il tramonto delle ciabatte di schiuma anti-scivolo, anti-odore, anti-fatica. A parità di produzione cinese perchè mai spendere quarantacinque euro per un paio di zatteroni originali, quando le "frocs", fake crocs, autenticamente false, costano circa due?
Sarà comunque un autunno "caldo" dal punto di vista podologico. Scivoleremo dalle ciabatte, che almeno ci tenevano con i piedi per terra, per arrampicarci sui redivivi tronchetti, le calzature incompiute, che adesso gli anticipatori dei trend, consci dello scarso appeal del nome, propongono come "stivaletti fetish", sempre più dark, sempre più pieni di lacci, fibbie, stringhe da dominatrice. Ma c'è di peggio, perchè, lungi dall'accontentarsi di un bel tacco squadrato o affilato di qualche stagione fa, il neo-tronchetto 2009 è issato su una consistente zeppa, una pronunciata piattaforma ortopedica. Stivaletti castiganti e costrittivi che non accettano di essere nascosti sotto i pantaloni, ma pretendono vestitini fruscianti o i nuovi tailleur di stagione, abbastanza spallati, così da completare l'effetto maestrina inaccessibile che suscita fantasie, tipo Gelmini. Chissà se qualcuno avrà sufficiente temerarietà, senso critico e umorismo da avventurarsi su questi plateau, sfidando la perversa calzatura che, come dice il suo nome, non fa che troncare la gamba, schiacciando irrimediabilmente le proporzioni.
Chi poi vuol "volare" sopra i grigiori autunnali non ha che da sbizzarrirsi. Una griffe prestigiosa propone scarpe "piè veloce Achille", con una raggiera decorativa di borchie all'altezza del tallone che pare copiata dai calzari degli eroi mitologici nelle riduzioni letterarie per bambini. L'effetto è a dir poco agghiacciante. C'è da scommettere che, a qualche mese di distanza, le scarpe omeriche approderanno nei negozi di seconda mano, abbandonate da signore ansiose di recuperare l'ingente esborso spacciandole per vintage. Notizia dell'ultima ora: pare che le crocs vogliano reclutare come testimonial George Clooney nella speranza di evitare l'estinzione del coccodrillo. Ma George, ne siamo sicuri, dopo l'affaire estivo con la Canalis, non vorrà infliggerci anche questo.
@boria _a

martedì 14 luglio 2009

MODA & MODI: mix chic

La griffe più in auge dell'estate di crisi? Non avere griffe. Recessione e austerity economica cambiano le coordinate dello stile, per alcune come dolorosa necessità, per altre sull'onda degli esempi virtuosi delle first ladies, più che mai attente a non esibire il lusso oltre un certo limite. Se qualche anno fa "no logo" aveva un preciso connotato politico, oggi lo adottano anche signore insospettabili di simpatie eversive. Basta firme esibite, al bando accessorioni monogrammati, borse, scarpe, cinture che, anche in tempi di floridezza, avevano il duplice effetto di compensare qualche insicurezza e di trasformare l'interessata in una pubblicità ambulante. Il vero vezzo non è più sfoggiare "doppie g" "d&g", "lv", vere o imitate che siano, ma saccheggiare i magazzini di moda low cost e i negozi dell'usato per imparare a vestirsi con gusto spendendo poco. Tutti hanno notato la grande spilla a fiore di cellulosa verde che Michelle Obama indossava sull'abito maionese, al suo arrivo all'aeroporto di Pratica di Mare insieme a Barack, per i lavori del G8 all'Aquila, spilla preziosa solo perchè vintage. La signora ne ha fatto una cifra del suo stile ancora prima di diventare "first", presentandosi ai dibattiti televisivi o nelle occasioni pubbliche a fianco del marito-candidato in capi recuperati nei grandi magazzini o acquistati da stilisti assolutamente sconosciuti. Il giorno del giuramento di Barack, sul tailleur della cubana Isabel Toledo, Michelle portava guanti verdi della catena americana J. Crew, e dagli stessi magazzini veniva il cardigan cipria indossato nel primo viaggio in Inghilterra col marito, poche decine di dollari, andato a ruba il giorno dopo.
Chic cheap, grande gratificazione. Se il portafoglio è più smilzo, il gusto della ricerca cresce. Vuoi mettere la poca soddisfazione di calarsi in un look preconfezionato, per quanto rassicurante, propinato a tutte, rispetto al divertimento di miscelare il capo a buon mercato della catena commerciale con la borsa anni sessanta uscita da qualche fondo di armadio, la collana di materiali poveri con un paio di infradito o di zeppe salvate dalle stagioni passate? La griffe, se anche c'è, va "annacquata" in mezzo a pezzi assolutamente anonimi. E il risultato, con un po' di pazienza e senso della misura, è sempre più originale che affidarsi ciecamente ai terribili "total look" di molti stilisti (le carte geografiche, che orrore), una riedizione lusso delle ragazze-sandwich che, fuori dai mcdonald's promuovono l'ultimo happy meal.
Attenzione solo all'euforia da saldo, fa perdere lucidità. I negozi di secondamano sono una miniera, perchè ci approdano sia le signore grandifirme che vogliono ripulire il guardaroba e far cassa per nuovi acquisti senza sensi di colpa, sia quelle che, magari inconsciamente, si liberano di capi d'antan di sartoria, i pezzi migliori. Un paio di occhiali giganti anni sessanta, una giacchina o un soprabito in quei tessuti mistoseta da corredo oggi praticamente introvabili, sono una chicca. Da tralasciare, invece, borse e accessori griffatissimi di qualche anno fa, sempre cari e che non sono affatto vintage, semplicemente hanno stancato la proprietaria.
@boria_a
 Michelle Obama scende dall'Air Force One a Pratica di Mare (foto Ansa)

sabato 11 luglio 2009

E' ITS EIGHT A TRIESTE
Al sudcoreano Mason Jung l'ottava edizione del fashion contest 



The greatest show of all firmato dalla scenografa Belinda Devito per ITS Eight

TRIESTE Signore delicate come porcellana. Vestono gonne che sono tazzine rovesciate, pelle candida bordata dai decori di Sèvres in oro, azzurro, "bleu du roi", quel filo di rosa confetto che prese il nome da Madame Pompadour. Sono eleganti e intoccabili come servizi da custodire nella cristalleria le donne immaginate da Karisia Paponi, prima giovane stilista italiana ad aprire una sfilata di ITS, la numero otto, quella che sarà anche l'ultima del concorso di moda a Trieste. Sulla pista circolare dell'ex Pescheria, scivolando altere sul fondo sabbioso, le modelle sono sigillate in abiti ispirati alle decorazioni della ceramica, e che come la ceramica sembrano sul punto di andare in frantumi, abbigliate per un tè pazzoide alla "Alice nel paese delle meraviglie".


Un modello di Karisia Paponi (foto Massimo Silvano per Il Piccolo)

Non poteva esserci uscita più azzeccata per dare avvio a "The greatest show of all", il grande circo di inizio secolo che è il filo conduttore di questa edizione di ITS. Ancora una volta, incalzata dalla presentatrice habituée Victoria Cabello, l'ex  escheria ha pulsato e rimbombato al ritmo delle capitali della moda, Milano, Londra, New York, col primato di concedere una passerella autentica, bizze e narcisismi compresi, a stilisti emergenti, a sbarbatelli talentuosi ancora sui banchi di scuola. Molti, ieri notte, sono usciti dal loro, "personalissimo", Salone degli Incanti, con lo stage da una griffe importante, da Diesel a Gucci, l'anticamera della professione, o "scoperti" dalle cacciatrici di teste del lusso, in sala e nella giuria. È accaduto anche a David Steinhorst, il vincitore dell'anno scorso, oggi al lavoro nello studio di Antonio Berardi, che è ritornato a Trieste un anno dopo con una collezione maestosa di abiti polvere, cipria, ostrica, una riedizione, ancora più raffinata e sartoriale, delle sue farfalle da cocktail, tutte pieghe, tagli, incroci, impalpabilità e sideralità.
E meno male che c'erano le donne di Karisia, di David, quelle lunghissime e nere, un po' infernali, di un'altra italiana, Erika Comin (un primato "nazionale" quest'anno, tutto al femminile), o dell'israeliana Maria Lavigina, imbozzolate in piume e vernice, a riconciliarci con la coerenza, la personalità, l'assertività di uno stile.


Perchè ITS Eight, l'anno degli uomini, ben sette collezioni per lui in pista, mai così tante, e un surplus di scolpitissimi indossatori fatti arrivare da Milano per la bisogna, ha perso i suoi maschi un po' per strada. Persino il tycoon del denim, Renzo Rosso, seduto come sempre in prima fila, è parso sollevare un sopracciglio di perplessità davanti a questi buffi figuri sepolti da ponchi di lana, infilati in mutande dalle proporzioni schizofreniche, umiliati in completini trasparenti da trasferire su due piedi in fondo alle Rive, al sexy shop poco distante. Maschi imprecisi o impresentabili, grigi come le sfumature predominanti nelle collezioni, o talmente alla ricerca di identità da mescolare a casaccio quadri, bavaglini, ghette, berrettucci, costretti alla fine a a coprirsi la faccia con le calze.

Renzo Rosso e Victoria Cabello all'ex Pescheria di Trieste (foto Andrea Lasorte per Il Piccolo)
A salvare lui dal ridicolo ci ha pensato la tedesca Josefine Jarzombek, che finalmente ci restituisce un uomo sensuale, con pantaloni a sigaretta impreziositi da dettagli, o ampi e chiusi di lato, in modo da formare una piega che fluttua sulla gamba, un uomo che non si sente messo in pericolo dal bijoux grande, geometrico, appeso al collo del maglione o al trench. E un maschio da applauso è anche quello disegnato dal sud-coreano Mason Jung, non a caso il vincitore assoluto di quest'anno, che reinventa l'eredità delle forme classiche (lui la definisce un "fardello", e intitola così la sua collezione) fino al punto da nascondere in un abito innocuo un sacco a pelo, e viceversa.
La collezione maschile di Mason Jung
ITS Eight, la breve stagione della moda triestina va in archivio e si rifugia sul web, colpa della crisi economica e della poca attenzione delle istituzioni locali? A sfilata finita, dopo l'assalto alla pista dei ragazzi di tutte le edizioni del concorso, alcuni già sul mercato con le loro etichette, Renzo Rosso, principale finanziatore, si accalora: «Sono qui di nuovo a Trieste per l'ottavo anno di fila per dimostrare ulteriormente quanto credo in questo progetto e nella grande opportunità che questa manifestazione dà a giovani di tutte le parti del mondo. Trovo incredibile che la città, la provincia e la regione non abbiano capito appieno non solo il valore incondizionato di ITS, ma anche gli enormi risvolti d'immagine che porta a questi luoghi, i personaggi di altissimo livello che visitano Trieste e ne parlano, stilisti, giornalisti, giovani creativi. Siamo rammaricati - insiste - che non ci venga dato il minimo supporto, pensando a tutto l'impegno e risorse con cui tutti noi riusciamo a portare qui
giornalisti importanti di tutto il mondo, che a loro volta porteranno questa città alla ribalta a livello internazionale.... Trieste storicamente era la porta di transito tra diverse culture e culla di creatività innovativa. Sarebbe bellissimo vederla ritrovare con orgoglio questo ruolo grazie a un progetto come ITS, che già ha nelle sue mani». 
A "salutare" il circo della moda c'erano il sindaco Dipiazza con vari assessori della sua giunta, qualche consigliere regionale, rappresentanti della Fondazione CrT. Pianeti, secondo uno slogan politico che da queste parti ha avuto una certa fortuna, "allineati", capaci di reciproche influenze e condizionamenti. Troveranno fondi o si spenderanno per restituire quelli tagliati, impediranno che ITS, i suoi colori, la sua passione, la sua gioventù, il suo business, diventino solo un'avventura virtuale?

@boria_a