martedì 20 ottobre 2009

MODA & MODI: di quelle quattro ragazzacce restano solo le scarpe

Di quelle trasgressive, feticiste, voyeuriste ragazzacce di Manhattan sono rimaste solo le scarpe. Anzi, i tacchi. E che tacchi: i booties con le borchie firmati da Brian Atwood Loca veleggiano oltre gli ottocento dollari, le décolleté di pizzo dell'immancabile Christian Louboutin oltre i millesettecento. Eccole, Carrie e Miranda, arrampicate in cima ai lorostiletto filiformi, sul set blindato di "Sex and The City 2", il sequel del sequel che uscirà il prossimo maggio e che, stando alle prime, pilotatissime indiscrezioni, trasformerà la più acuta e spregiudicata serie tv degli ultimi anni nel prevedibile polpettone buonista, con le quattro diventate proprio come noi, all'epoca, tra il '98 e il 2004 tra i trentacinque e i quaranta, oggi mogli e mamme alle prese con marmocchi, recessione e tran tran domestico.
Per le cultrici maniacali delle sei stagioni, quelle che sanno persino che una collana di Samantha era stata riciclata in una serie successiva e messa addosso a Enid, l'editor di Vogue che tiranneggia Carrie, già il primo film era stata una coltellata. Assurdamente ineleganti, tutte urletti e moine fasulle, sgargianti, congelate in una Manhattan da turisti (che tristezza quando Carrie va a vedere l'appartamento in Park Avenue e che nostalgia per lo "studio" monovano in quella chicca di Perry street...), le quattro amiche sembravano sprofondare a ogni colpo di tacco in una delle nostre soap nostrane, tutte famiglia, pentimento, perdono, buoni sentimenti, tradimenti che finiscono bene e chiacchiere insipienti infarcite di moralismi.
Finite le confidenze esplicite tra donne, l'allegra, rigenerante scostumatezza di linguaggio, il sesso adrenalinico, la spietata dissezione delle inadeguatezze maschili, a letto e fuori. Al loro posto un fumettone di colpa e perdono, con il fedifrago perdonato, l'eterno inseguito che capitola, la gravidanza tanto attesa che arriva, sullo sfondo di una New York immobile e botulinizzata (come loro, purtroppo).
Restano le scarpe, le Manolo e dintorni, sempre eccessive, eccentriche, esagerate, quelle che nel film n. 1 Carrie torna a recuperare nell'appartamento di lusso, ritrovando così Mr. Big e la strada dell'amore ("l'unica griffe che non passa mai": purtroppo lo dice proprio lei). Scarpe masochiste, peccaminose, come quelle che ci metteremo quest'inverno, chiuse alla caviglia da fibbie e lacci fetish, con zeppe da geisha, tacchi scultura, plateau a isola, per renderci ancora più minacciosamente traballanti, più incombenti, più liberamente peccaminose. Scarpe da capogiro, vertiginose in altezza e prezzi, che le quattro amiche indosseranno anche nel film n. 2, nonostante lo scenario sia la crisi economica che s'inghiotte pure uno squalo come Big. Deliziosa incongruenza che perdoneremmo volentieri, se con gli stiletto le quattro ragazzacce tornassero a cavalcare la Città e a disturbare gli uomini. Ma nel film, a dispetto delle scarpe, non accadrà più.
@boria_a
Sex and The City 2

mercoledì 7 ottobre 2009

MODA & MODI: sfilata da divano

Cosa non fanno la crisi e il bisogno di allargare il più possibile il bacino dei potenziali clienti. Domani cade un muro di Berlino della moda. Il marchio Louis Vuitton manderà in diretta su Facebook e per le ventiquattro ore seguenti la sua sfilata parigina. I tempi bui per le griffe del lusso hanno sdoganato il più democratico, incontrollato, ordinario "salotto" on line, dove il mitico Lv, già da un paio di mesi, ha aperto una pagina ufficiale intitolata "The art of travel by Louis Vuitton", raccogliendo un qualcosa come seicentomila iscritti nel mondo e probabilmente un target molto diverso da quello che entra d'abitudine nei suoi negozi. Anche Dolce & Gabbana, pur avendo dichiarato in una recente intervista al Sole 24 ore, che il marchio non soffre la recessione, hanno pensato bene di sbarcare su You
Tube con i "Diari" della loro sfilata, dal backstage alla diretta dello show, raccogliendo, in soli quattro giorni, circa sedici milioni di contatti.
Ricordate "Il diavolo veste Prada" e la tragedia della prima assistente di Miranda, Emily, quando, causa una gamba rotta, è costretta a rinunciare all'evento per cui si sta attrezzando da mesi, dieta inclusa, ovvero le sfilate di Parigi? L'angoscia di non partecipare alla settimana più ambita dalle giornaliste d'oltreoceano, sedendosi accanto ad Anna Wintour, direttrice di Vogue America (cui s'ispira la perfida Miranda del film) e ai suoi tanti cloni, e misurando, dal posto e dalla prossimità alla passerella, lo status professionale e sociale conquistato nell'ipocritissimo ambientedella moda?
Era il 2006 e sembra un millennio fa. A tre anni di distanza, Emily potrebbe aggiornarsi tranquillamente sulle invenzioni dei guru parigini dello stile dal letto di casa sua, rinunciando forse solo a qualcuno dei ricevimenti cui sono ammesse anche le portaborse (nel senso letterale del termine: la Wintour, è noto, ha sempre le mani libere perchè dotata di uno stuolo di sherpa che custodiscono i suoi effetti personali...).
È arrivato il momento di ripensare il sistema delle sfilate? Pare proprio di sì se ormai a condizionare i designer di tutto il mondo sono i suggerimenti che arrivano dalla rete, da siti come "the sartorialist", collocato dalla rivista Time tra i primi cento "design influencers" del mondo, ma anche da blog come quello della tredicenne americana "rookie", così fulminante neI giudizi da essere, e lei sì di persona, invitata alla settimana della moda newyorkese.
La moda si "democratizza", non nei contenuti ma nella comunicazione, facendo sembrare più che mai ridicoli il rito della sfilata, il dramma degli inviti non ricevuti, le lunghe code agli ingressi, la frenesia delle corse da una location all'altra, il cerimoniale del "sitting", su cui si esercita il meglio delle pierre, ovvero la distribuzione degli ospiti secondo l'importanza della testata o degli ordinativi fatti alla griffe (quindi il cartoncino "standing", in piedi, equivale all'etichetta di paria in entrambe le categorie...).
Sfilate per tutti e a casa propria, confidando che la platea planetaria moltiplichi i desideri e rianimi i conti. E mai più giornalisti respinti dagli imperatori allergici alle critiche. Anche in questo caso, la rete è democratica.
@boria _a
Primavera-estate 2010 firmata Louis Vuitton

 MODA & MODI

Leonor Fini e Simonetta Colonna di Cesarò, amiche, un'amicizia tra arte e moda



La cliente più detestata? Estée Lauder, la signora dei cosmetici: dispotica, con una figura infelice e poco tempo per le prove. La cliente più disponibile? Leonor Fini: amava pantaloni e camicie che indossava con inimitabile e spavalda eleganza, d'inverno stivali col tacco alto e cappelli di pelliccia alla cosacca. Al contrario di Estée, la pittrice triestina era la cliente prediletta di Simonetta Colonna di Cesarò, che nel suo atelier parigino vestiva principesse e nobildonne, la collega Elsa Schiaparelli e sua nipote Marisa Berenson, Dalila e Zsa Zsa Gabor, Lauren Bacall e Merle Oberon.

«Bruna, istrionica, aveva grande intuito e sensibilità per la moda ed era una gioia vestirla». Così Simonetta, oggi ottantasettenne, ricorda Leonor nella sua autobiografia "Una vita al limite". «Il suo stile era molto personale, semplice, ma sorprendente. Le piaceva moltissimo avvolgersi con fare teatrale in lunghi mantelli ondeggianti, poncho e scialli. La sua tavolozza di colori non cambiò mai: amava il nero, nero con qualche tocco bianco, oppure il rosso».


Leonor e Simonetta si erano conosciute a Roma, durante la guerra. La prima frequentava scrittori e artisti della capitale e si affermava come ritrattista di celebrità italiane e signore dell'alta società. La seconda, figlia del duca Giovanni Colonna di Cesarò, ministro di Mussolini dimessosi dopo l'omicidio Matteotti, e moglie di Galeazzo Visconti, nella primavera del '46 fondava la sua casa di moda, appena ventiquattrenne, annoiata dall'asocialità del marito e desiderosa di rimpinguare il reddito familiare.



Abito e immagine di Simonetta Colonna di Cesarò (Pitti Immagine)


La sua prima collezione era composta da quattordici modelli di "povertà ingegnosa", come li definì la giornalista Irene Brin, ricavati dai materiali che si potevano reperire nell'immediato dopoguerra, strofinacci, grembiuli da giardiniere, uniformi da maggiordomo, anelli da tende, rafia, lacci, spago. Era uno stile disinvolto e originale, una ventata di freschezza che ebbe tanto successo da permettere alla stilista, un anno dopo, di creare anche abiti da sera. Nel febbraio 1951, alla sfilata che segna la nascita del "made in Italy", nella villa fiorentina del marchese Giovan Battista Giorgini, Simonetta presenta le sue creazioni accanto alle sorelle Fontana, Schuberth, Marucelli, Fabiani (che poi diventerà il suo secondo marito) Jole Veneziani, Pucci.

 
Di Leonor, scrive: «Penso di essere stata una delle sue poche amicizie femminili perchè non si curava troppo della compagnia delle donne. L'amicizia, però, era molto importante per lei, che odiava essere sola. Si attorniava di una piccola corte di ammiratori, di solito due o tre giovanotti per i quali rappresentava tanto una dea quanto un mentore. Loro la veneravano e lei li amava a sua volta...». Il rapporto continua negli anni. Nel 1949, Leonor esegue il ritratto di Mita Corti, sorella di Simonetta, opera esposta nella mostra al Museo Revoltella di Trieste dedicata alla pittrice.


Poi dipinge la stilista stessa. Quando Simonetta, col secondo marito, Alberto Fabiani, aprirà una boutique a Parigi, Leonor sarà tra gli invitati, insieme ad Helena Rubinstein ed Elsa Schiaparelli.
"Schiap", appunto. Un altro tassello importante del rapporto che lega Leonor Fini alla moda. Schiaparelli, "quell'italiana che fa vestiti", come la definiva la rivale Coco Chanel, era arrivata a Parigi qualche anno prima della Fini, separata dal marito e con una figlia piccola (Gogo, futura mamma di Marisa Berenson). Da sempre sensibile alle suggestioni dell'arte, si avvicina all'ambiente dei surrealisti, molti dei quali diventano suoi stretti collaboratori. «Lavorare con degli artisti del calibro di Christian Bérard, Jean Cocteau, Salvador Dalì, Vertés e Van Dongen, con fotografi come Honningern-Huene, Horst, Cécil Beaton e Man Ray aveva un qualcosa di esaltante - scrive nella sua autobiografia, "Shocking Life" - ci si sentiva aiutati, incoraggiati molto al di là della realtà pratica e noiosa in cui consiste la fabbricazione di un abito destinato alla vendita». 


Per Schiap, Cocteau disegna motivi di ricami costellati da simboli poetici, Dalì i tessuti con le aragoste, o le labbra rosse, e la borsa-telefono, Jean Hugo crea bottoni-scultura, Elsa Triolet e Luis Aragon progettano un collier di compresse d'aspirina. Ma è Leonor Fini a firmare la "creatura" che percorre tutta la vita della stilista. Leonor e Schiap sono nell'atelier di quest'ultima, in Place Vendome, e scherzano sui capricci dell'attrice Mae West, che, per facilitare la confezione degli eccezionali costumi di "Every day's a holiday", il film realizzato nel 1937 da Edward Sutherland, ha inviato alla stilista una statua di gesso che la raffigura nuda nella posa della Venere di Milo. Mae non vola mai dall'America per provare gli abiti, ma è il suo busto a suggerire a Leonor la sagoma del primo flacone di profumo firmato Schiaparelli, "Shocking!", ripresa negli anni Novanta da Jean-Paul Gaultier.



"Shocking" di Elsa Schiaparelli, con la boccetta disegnata da Leonor Fini ispirandosi al busto di Mae West



Schiap si ritira dalla scena nel 1947. Dopo il ritorno dall'America, dove si era rifugiata durante la guerra, la moda ha cambiato corso, le sperimentazioni e le trasgressioni lasciano il posto alla "restaurazione" di Christian Dior, alle sue donne dalla vita di vespa e le giacche con le stecche, affondate sotto metri e metri di stoffa.


Moda e arte. Ancora una volta, questa storia di incontri, corrispondenze, citazioni, incrocia gli stessi personaggi. Doveva diventare diplomatico il giovane Dior, ma era attratto irresistibilmente dall'ambiente artistico, dove fu accolto con simpatia, omosessuale facoltoso e garbato. Con il socio Jean Bonjean e i soldi di papà, industriale chimico - che non gli permetteva di usare il suo nome per non infangarlo - Dior aveva aperto una galleria e ne aveva fatto un luogo d'incontro mondano dove si potevano ammirare le opere di Paul Klee, Otto Dix, Max Ernst. Sarà proprio la Galerie Bonjean, dal 24 aprile al 7 dicembre 1932, a ospitare la prima personale parigina di Leonor Fini.