giovedì 30 giugno 2011

Diana nella mezza età, con una nuora e un profilo Facebook

Difficile immaginarla cinquantenne. Un po’ come una Marilyn con i capelli grigi e il collo franante. Eppure, se non fosse morta nello schianto a Parigi nel 1997, lady Diana, la principessa del popolo, domani avrebbe compiuto mezzo secolo. E oltrepassato una soglia che tutte le donne guardano con apprensione, figuriamoci quelle entrate ancora acerbe nella galleria delle icone del secolo. Tanto più se, alla vigilia di un giro di boa così delicato, nella loro vita fosse comparsa una nuora fresca, agguerrita, un po’ gattamorta e sicuramente meno sprovveduta sulle leve da muovere per assicurarsi un futuro senza scossoni nella “ditta” reale.
Diana e Kate, come si sarebbero guardate? O non guardate? Se le figura il settimanale americano “Newsweek”, mettendole in copertina con un fotomontaggio un po’ macabro, dove una Diana invecchiata, dal sorriso tirato e i lineamenti sinistramente spianati, passeggia al fianco, senza degnarla, della futura regina, la borghese ex signorina Middleton. Sembra di leggere il fumetto sopra quell’improbabile cappello, rubato al guardaroba della sua sostituta Camilla: «Abitucci da grande magazzino e la bellezza dell’asino. Suo malgrado avrà bisogno di qualche suggerimento per non farsi seppellire dai Windsor». Gelo iniziale, ma poi diventerebbero intime, Diana e Kate, giura Tina Brown, che di Lady D fu amica e biografa e che firma l’articolo sul non-compleanno della principessa. La “suocera” avrebbe insegnato alla nuora come conquistare i media e appuntare con grazia le medaglie al petto dei soldati reduci dall’Afghanistan, magari evitando di mostrare troppo il lato B, che è un’esclusiva di Pippa, ma molto poco regale.
Diana, parola di Tina, avrebbe superato la minaccia della giovane Kate ricorrendo a iniezioni di Botox, qualche ritocchino chirurgico e alle consuete sedute in palestra, per mantenere le braccia toniche come quelle della signora Obama, altra passione dei media che - immaginiamo noi questa volta - le avrebbe dato più di una punta di fastidio. Anche Rania di Giordania e Carlà l’avrebbero impensierita, ma con quest’ultima alla fine si sarebbe alleata, complice qualche buon consiglio per evitare Berlusconi alle cene del G20.
E Dodi Al Fayed, ultimo presunto grande amore? Ormai cancellato da almeno un paio di altri matrimoni e da un trasferimento tra le mille luci di New York, lontanissima dalle fioche vacanze di Balmoral. Lady D, strologa ancora Tina Brown, avrebbe il suo profilo su Facebook, con 107.623 amici tra cui Bono degli U2, Chelsea Clinton, David Beckham, J.K. Rowling e perfino l’odiata Camilla verso cui, dopo tante traversie, avrebbe provato una sorta di solidarietà (come pure per il povero Carlo, invecchiato tra cause benefiche e attesa del trono). In bacheca, un messaggio dell’ex cognata Sarah Ferguson che, infischiandosene dei problemi di linea, la inviterebbe fuori per un drink, magari un “cosmo”, come si usa tra le amiche di Sex & The City.
Provocazione agghiacciante e di cattivo gusto, hanno tuonato gli inglesi contro Newsweek. Meglio ricordarla viva, Diana, l’ultima a essere diventata regina nei cuori prima dei social network.
@boria_a
La copertina di Newsweek

martedì 28 giugno 2011

MODA & MODI: ragazze senza la pistola
Per una sorta di incomprensibile perversione, e non solo estetica, arrivata l’estate e il momento di liberare quasi feticisticamente le estremità, ecco che rispuntano le inossidabili cow girl, branco urbano che rappresenta uno dei più inspiegabili e indefettibili “ricorsi” della moda.
Più o meno ogni due anni, riecco in passerella il guardaroba da allegro ranch metropolitano, con tutto il suo armamentario di cuoio, borchie, giacche scamosciate, gilet, tascapane frangiati, cappelli, monili piumati. Una “tendenza” di cui gli stilisti non riescono a fare a meno, in grado, apprendiamo dagli uffici stampa delle griffe, di trasformarci in donne sexy, forti, indipendenti. Donne senza la pistola, ma altrettanto persuasive, sprezzanti del pericolo. E del ridicolo.
La temperatura suggerisce di infilarsi in tessuti aerei e traspiranti? Indomite, le “ranchere” resistono a qualsiasi alleggerimento e pensano bene di zavorrare il punto vita con cinturoni borchiati, di solito alti una spanna, non importa se i vestitini si incollano a pance e sederi, trasformando la silhouette nell’unica cosa che dell’insieme richiami il sapore del selvaggio West: un insaccato.
Il masochismo raggiunge l’apice nelle calzature. L’estate ci dà finalmente la gratificazione di mostrare piedi ben curati, unghie smaltate e pelle dorata, strumento quanto mai naturale di attrazione? Macchè. È tempo di rispolverare, letteralmente, gli stivali da mandriana, con la punta costrittiva e il tacco a zoccolo di cavallo. È incredibile il numero di fashion victim (o solo victim?) che questi accessori di tortura riescono ancora a sedurre, nonostante la loro rumorosità e pesantezza siano tali da schiantare qualsiasi incedere. Quest’anno c’è un’altra novità, le frange selvagge. Sono comparse sulle borse (e passi, possono essere un divertissement purchè niente altro nell’abbigliamento ricordi le praterie), sulle giacche scamosciate (quelle che mette Kate Moss, ma per lei è un’altra storia...), e perfino sui microshort, come una specie di tendina posticcia che oscilla a ogni passo.
La moda della ragazza del saloon funziona nei due minuti di una passerella, nemmeno il tempo necessario per riuscire a spremere una goccia di sudore. In città, le mandriane sono come le panterate: da zoo.
@boria_a

La cow girl di Ralph Lauren per la primavera 2011

lunedì 13 giugno 2011

MOSTRA
Japanese fashion, l'elogio delle ombre

Se l’avete persa alla Barbican Art Gallery di Londra, dov’è rimasta allestita fino agli inizi di febbraio, c’è ancora un’occasione da cogliere al volo. Fino al 17 giugno, alla Haus der Kunst di Monaco, è visitabile “Future Beauty: 30 years of Japanese Fashion”, la prima, strepitosa retrospettiva europea dedicata alla moda nipponica, curata dal suo più eminente storico, Akiko Fukai, direttore del Kyoto Costume Institute. Più che un’esposizione di abiti, il compendio di una rivoluzione nella storia del costume mondiale, firmata da stilisti come Yohji Yamamoto, Issey Miyake, Rei Kawakubo ovvero Comme des Garçons, Junya Watanabe, e che oggi è portata avanti dai loro eredi diretti, spesso cresciuti a fianco dei "grandi", Jun Takahashi della griffe Undercover, Tao Kurihara, il duo Mintdesign.
Un’onda dal Sol Levante attraversa l’Europa, proponendoci una carrellata di quelli che non sono semplici “involucri”, ma manifesti di un modo di coprire il corpo agli antipodi rispetto ai canoni occidentali. Stoffe, tagli, sovrapposizioni, inserimenti non "accarezzano" la figura, ma la trasformano, la tiranneggiano, la sfidano, fino a diventare "opere" (non diciamo d'arte, ma certo installazioni) animate da una vita propria. Un omaggio per riflettere su quanto il design giapponese abbia influenzato e condizionato il nostro guardaroba ma anche il nostro gusto e il nostro modo di percepire che cos'è e cosa fa moda.
Di più. Monaco può essere la prima tappa di un mini-tour nell’estetica nipponica, che prosegue al Victoria&Albert Museum di Londra, dove, fino al 10 luglio, sono esposti ottanta abiti femminili e maschili di Yohji Yamamoto, nella prima mostra di questa portata dedicata esclusivamente al visionario e poetico stilista di Tokyo, considerato uno dei più influenti della moda degli ultimi quarant’anni. Ancora a Londra, al Wapping Project, da non perdere un evento collaterale, il monumentale abito da sposa di seta, con crinoline di bambù, disegnato da Yohji nel 1998, e che, appeso al soffitto, viene attraversato e scomposto da luci e ombre, a significare il rapporto tra lo stilista, il corpo e lo spazio e la portata rivoluzionaria delle sue creazioni.
Un modello di Yohji Yamamoto nella grande mostra al V&A di Londra
Quando Kawakubo e Yamamoto sfilarono a Parigi, nell'ottobre 1982, la giornalista di "Le Figaro" scrisse che queste collezioni le avevano fatto correre un brivido lungo la schiena. I vestiti di Rei, bucati, sbrindellati, consumati, li giudicò adatti a rappresentare i sopravvissuti a un olocausto nucleare, quelli di Yohji, spesso sfilacciati, bordati dal filo di un'imbastitura, “cenci” usciti da un bombardamento, da mettersi in previsione della fine del mondo. Abiti, sintetizzava il quotidiano, con cui i giapponesi potevano vestire al massimo “I miserabili” di Hugo, che i lettori di Le Figaro non avrebbero mai indossato.
Sulla passerella creature completamente nere, il punto di nero dell'inchiostro usato per la pittura giapponese, un nero non imperativo, seduttivo e sofisticato come quello di Saint Laurent e Balenciaga, ma declinato in sfumature, scolorito o irrobustito, secondo i principi del libro "In praise of shadows" (1933) dello scrittore Jun'ichiro Tanizaki, che fonda il concetto di bellezza del Sol Levante sui contrasti tra luci e ombre.
Proprio "l'elogio delle ombre", s'intitola la prima sezione della mostra di Monaco. Perchè quella sfilata parigina, al di là di alcuni sbalordimenti, riscosse consensi e attenzione internazionali. Sparivano gli "orientalismi" amati dal sarto Paul Poiret, che agli inizi del secolo spopolava con le sue odalische fruscianti, si appannava il "power dressing" degli anni Ottanta, l'abito del potere che in America e in Europa incorniciava le donne con rigidezze e imbottiture, irrompeva una cultura del vestire dove la tradizione, a partire dal kimono, diventava avanguardia e il design, applicato al movimento del corpo, trasformava i vestiti ad ogni passo.
Kimono piatto quando è steso, architettonico sulla figura. Ecco il senso della ricerca di Issey Miyake, che sviluppa fino all'estreme conseguenze il senso della "flatness": un'unica pezza di tessuto, "a piece of cloth", come la chiama nel 1976, avvolge il corpo, gioca col concetto di “ma”, in giapponese lo spazio tra il corpo e la stoffa, non un’intercapedine vuota, ma piena di energia, da sfruttare per organizzare i vestiti in inimmaginabili geometrie. Dodici anni dopo, Miyake firma un’altra rivoluzione, il poliestere plissettato della linea Please Pleats, semplice, pratica, dalle infinite possibilità di trasformazione.
 
 Please Pleats di Issey Miyake nella foto di Irving Penn
E un altro decennio dopo, nel 1999, continuando nella sua sperimentazione di tagli e materiali, lancia A-Poc, gioco di parole tra “a piece of cloth” ed “epoch”, ovvero il guardaroba che non ha bisogno di nessuno che lo cucia: un telaio controllato dal computer produce un tubo di tessuto, da cui, una volta srotolato, ciascuno può ritagliare, seguendo le linee già marcate, l’indumento o l’accessorio che vuole, come i vestitini di carta delle bambole.
Tradizione e innovazione si intrecciano profondamente in tutti questi stilisti, spesso sul filo dell'ironia. Lo testimoniano le creazioni di Yamamoto, che hanno "invaso" il Victoria&Albert, raccolte in gruppi come se volessero enfatizzare alcune caratteristiche del suo lavoro: la cura dei materiali («per me il tessuto è tutto»), la sartorialità combinata con l'asciuttezza del wabi-sabi, l'estetica giapponese dell'incompleto («la bellezza - lui stesso la definisce così - rimane dopo aver tolto ogni eccesso»), le forme scultoree dell'abito che prescindono dai contorni della figura, come in Balenciaga, l'attenzione al retro di un vestito, ereditata dalla storia del kimono e dalla sensibilità tutta nipponica per collo e schiena come zone erogene: «Credo - afferma - che i vestiti debbano essere fatti partendo dal retro. Il retrosostiene il davanti e se non è fatto bene, il davanti semplicemente non può esistere".
I visitatori del Victoria&Albert si aggirano tra queste creature estranee alla contemporaneità e volubilità della moda, impossibili da collegare a qualsiasi stereotipo, quasi astratte. Uomini di un’eleganza non convenzionale («quando ho lanciato la mia linea maschile a Parigi mi sono detto: niente cravatte, niente completi, niente uomini d’affari. Facciamo vagabondi»), donne enigmatiche, mai esposte, indecifrabili.
È una delle poche ammissioni di Yamamoto, sempre parco di parole su di sè e il suo lavoro: «Io penso, la gente pensa: “ancora non capiamo Yohji”. Ma io non capisco Yohji».
@boria_a