martedì 11 dicembre 2012

MODA & MODI

Vestite da Oscar

Strass e paillettes, scandisce il rap dei Club Dogo, come esempio di guardaroba del potere, di sbarluccichii cafonal da mandare al rogo. La moda ai tempi dello spread e della spending consapevolezza, invece, ci indora letteralmente la pillola. Con una spruzzata di ferrero rocher da mettersi addosso, sarà più dolce prosciugare quel che resta del portafoglio.
Se il glitter vi fa venire l'orticaria almeno quanto l'animalier, sarà tutto uno slalom tra le vetrine. Non si salvano il berrettone da neve, la muffola, la tasca del jeans, il plateau della scarpa, l'orlo della canottiera, i capi e gli accessori in apparenza più innocui e meno festaioli: trovare un centimetro di tessuto senza qualcosa che luccica come una pepita, un quadrato di lana pelosa, morbida e rassicurante, quietamente grigia e priva di sinistri bagliori, è un'impresa che mette a dura prova la già defatigante maratona natalizia.
Scappiamo dall'intimo che puntualmente amareggia lo shopping di questi giorni, obbligandoci a maneggiare tanga e boxer maschili color ciliegia dagli slogan imbarazzanti, ed eccoci ricoperte dall'oro e argento di vestiti, maglie, cappelli, ricami, passamanerie, trafori barocchi, zip e collant. Lampi di luce sfolgoranti e carichi di energia, non ansiogeni, che, secondo blasonati stilisti, sono la soluzione migliore per esorcizzare le mestizie dell'attuale momento economico. Anche la domestica felpa si è data una botta di vita, con una manciata di strass e paillettes, l'applicazione di catenelle dorate o di girandole di borchie, pronta a impalmare non gli scontati pantaloni della tuta, ma gonnelline di seta, di pizzo trasparente o con le frange di lurex.
Ricordate Meryl Streep alla cerimonia degli Oscar 2012, in total gold firmato Lanvin, quasi identica alla statuetta che ritirava per la sua Thatcher in "The Iron Lady" ? L'effetto festone natalizio è assicurato, ma in fondo anche lo scintillio e il calore della festa. Perchè no, se basta un abito e per una sera? Prendiamo spunto dalla Benedetta di "Ultimamente mi sveglio felice" di Lisa Corva, che semina paillettes come le molliche di pane di Pollicino e Hansel e Gretel. Lei si sente in una favola e magari qualcuno, seguendo la traccia, alla fine la scarta come un cioccolatino.
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Meryl Streep vestita da Lanvin agli Oscar 2012

lunedì 10 dicembre 2012

IL LIBRO
Kate Moss, queen of cool

Se alla fine avesse scritto quel libro di ricette di cui si favoleggiava sui blog, non si sarebbe davvero fatta mancare nulla. Modella più famosa del mondo (e seconda più pagata dopo Gisele Bündchen), icona di stile del decennio secondo Vogue America, emblema del "maledettismo" dalle molte dipendenze e partner ad alto rischio, sposa recente dell'ultimo dei suoi amori, Jamie Hince, in un matrimonio glamour-bucolico capace di annientare il contemporaneo "sì" degli opachi principi di Monaco e di oscurare pure quello di poco precedente dell'omonima Kate, futura regina inglese. Christian Salmon, scrittore e linguista al Centre national de la recherche scientifique di Parigi, le ha dedicato un saggio sociologico che dice tutto nel titolo "Kate Moss Machine". Macchina di cambiamento, incarnazione perfetta della "modernità liquida", scomodando la definizione di un altro sociologo, Zygmunt Bauman: in un mercato in continua mutazione, che ha perso i legami familiari e i riferimenti geografici e culturali, per cambiare, e quindi restare al centro dell'attenzione, bisogna trasgredire. Kate Moss, ci spiega Salmon, è "un'eroina della transizione", come Emma Bovary o Anna Karenina, in bilico tra la conservazione di sè e la distruzione. Un equilibrismo vincente, un azzardo continuo non disgiunto dall'essere "macchina", appunto, anche di soldi: chi mai, dopo lo scivolone delle foto pubblicate in prima pagina dal Daily Mirror il 15 settembre 2005, che la ritraggono a sniffare cocaina con l'allora compagno Pete Doherty, sarebbe riuscito addirittura a triplicare i guadagni?
Una cosa è sacrosanta: Kate Moss non ammette mezze misure, o si odia o si ama. E se la amate, e molto, al punto di accontentarvi di ripercorrerne vita e carriera cercando nel suo guardaroba, allora procuratevi il libro della giornalista inglese Angela Buttolph "Kate Moss Style. Storia, segreti e immagini di un'icona di stile" (Tea, pagg. 221, euro 16,00), che ci racconta, in una travolgente carrellata di immagini, come questa modella "piccola", a malapena uno e settanta, con i denti imperfetti e la prima misura di reggiseno, sia diventata "The Queen of Cool", la regina delle tendenze, in grado di scatenare imponenti fenomeni di imitazione e di precedere la moda piuttosto che indossarla. Tra una foto e l'altra, citazioni ammirate di stilisti ed estimatori vari, soprattutto proprietari di note boutique del vintage, londinesi e americane, dove Kate, fan dell'usato della prima ora, si rifornisce di pezzi che poi diventano altrettante icone da guardaroba. 


Kate Moss posa per Roberto Cavalli primavera-estate 2006
Successe, e fu la prima volta in cui il suo look scatenò una tempesta nella moda, per un paio di stivali di Vivienne Westwood della collezione "Pirate" del 1981, che Kate, patitissima della stilista, acquistò da "Rellik", vicino a Portobello, e si mise per un concerto di Santana a Londra nel gennaio 2000. «Era stata fotografata con quegli stivali e d'un tratto tutti ne volevamo un paio» racconta Steven Phillips, il proprietario del negozio, che si trovò a far fronte a circa duecento telefonate al mese per lo stesso modello. Su e-bay finirono a prezzi da capogiro, le catene del pronto moda inondarono il mercato di imitazioni e la stessa Westwood li rilanciò: Kate influenzava i suoi idoli.
Douglas Coupland, nel suo best-seller "Generazione X", spiega che nell'insicurezza economica e nella polverizzazione dei valori degli anni Ottanta e Novanta, i giovani pescano nel passato cercando punti di riferimento. Così fa Kate, soprattutto la Kate della prima ora, prima di diventare uno straordinario prodotto mediatico: mescola stili, epoche, valori per costruirsi un'identità. E in questo dimostra sempre un talento e un fiuto formidabili, in parte innati, in grado di traghettarla con successo attraverso le molte "transizioni" della sua vita e di imporla, sia a chi piace che a chi no, come perfetta interprete della sua epoca.
Con questa chiave va sfogliata la biografia di Buttolph, un bel manuale di look "inspirational", dove i dettagli hard della vita di Kate sono annacquati mentre la costruzione della sua immagine è documentata nel dettaglio. La scopre l'agente e model scout Sarah Douglas, all'aeroporto Jfk di New York, mentre, con padre e fratello di ritorno dalle Bahamas, la futura top, all'epoca quattordicenne, è in fila per comprare un biglietto last minute. A quindici anni, grazie alla fotografa Corinne Day, è già sulla copertina di "The Face", in un servizio, pubblicato un anno dopo nel luglio 1990, che cambierà la storia dell'immagine di moda, "The Third Summer of Love". Kate con lo scarno seno nudo, la faccia lentigginosa, il sorriso aguzzo e un'acconciatura da nativa americana, rappresenta la leggerezza e la voglia di divertirsi dell'Inghilterra di quel periodo, quando la cultura rave è all'apice, gli adolescenti si vestono nei mercatini e tutti sentono l'esigenza di essere "più veri" dopo l'ubriacatura di patinato degli anni '80. Calvin Klein la sceglie per la pubblicità dei suoi jeans, trasformandola da un giorno all'altro in un fenomeno, l'icona di una generazione che non ha miti né appigli ma una grande energia e voglia di vivere.
Il resto è cronaca. In trentasette anni intensi, centinaia di copertine, amori sregolati, da Johnny Depp a Doherty, una figlia, Lila Grace, con Jefferson Hack, direttore della rivista britannica "Dazed & Confused", un matrimonio fresco e un colossale impero finanziario grazie ai contratti con i più prestigiosi brand di moda, tornati da lei anche dopo la caduta pubblica. 
Kate il giorno del matrimonio con Jamie Hince, l'1 luglio 2011
"Modella dell'imperfezione", come s'intitola la biografia non autorizzata di Katherine Kendell, Kate che sa sbagliare e rialzarsi, volto e corpo di un'epoca dove la sperimentazione, anche di e su se stessi, è la regola. Milioni l'adorano per questo: agli esordi teen-ager piatta tra le top che dichiaravano «non mi alzo dal letto per meno di diecimila dollari al giorno», oggi, lei che i diecimila, e più, li prende ancora, tra le colleghe gonfiate è sempre autentica.

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Kate con Johnny Depp a Cannes nel 1997

sabato 1 dicembre 2012

MODA & MODI

Heidi in "boudique" per un Natale piccante
La lampada di Matteo Cibic

Un cofanetto di inchiostro al cioccolato per scrivere sul corpo. Una mascherina da notte rosso torbido, bordata di pizzo. Manette e collarini in raso, frustini da portare al collo come bijoux, lingerie percorsa da lacci, stringhe, cristalli. L'erotismo esce dai circuiti per iniziati e conquista i negozi. Anche le librerie, con collane come "Pizzo nero", hard per signore raccontato da signore, e gli spazi d'arredamento, dove l'apparentemente innocua lampada di Matteo Cibic nasconde un sex-toy, o la molto più allusiva "Pin up" di AnAtomic Factory promette momenti di passione sotto un paralume allacciato come un bustier. Se nelle "boudique", incrocio tra boutique e boudoir, una volta entravano solo le professioniste del settore o maschi alla ricerca di stimoli nuovi per compagne annoiate, oggi il sesso vende, vende alla luce del sole e attraversa tutte le fasce d'età. Fino all'ottuagenaria Gloria Vanderbilt che, cogliendo con scaltrezza il pepe del momento, ha dato alle stampe il suo romanzo piccante "Ossessione".
Ero-Natale, dunque? I sessuologi lo dicono da tempo: la troppa carne esposta, sui giornali e sugli schermi, ha deviato i consumi verso  sollecitazioni più sottili, più ricercate, dall'abbigliamento alla cosmesi, dall'oggettistica all'arredo. E se le ragazzine entrano nelle catene di
intimo a poco prezzo per scoprire coordinati trasparenti, sottovesti e balconcini sintetici, e rassicurarsi così sulle proprie capacità seduttive, le donne negli "anta", esaurita e assimilata la stagione femminista, non hanno più paura di abbandonarsi a fantasie e desideri prima soffocati. Prendiamo i copri-capezzoli, quegli oggettini fetish che le commesse del negozio precursore nel genere, Agent Provocateur, custodivano su cuscini di velluto insieme a manette, collari borchiati, frustini e altri ammenicoli sado.
Agent Provocateur 2009-2010 (fonte PourFemme)
Ora molti negozi di lingerie di lusso li espongono tra giarrettiere e culotte, come un piacevole e leggero divertissement, una promessa di piacere rarefatta e imprevedibile piuttosto che torrida.
In Inghilterra le definiscono "Heidi", highly educated, independent, degree-carrying individuals, ovvero donne realizzate, laureate, indipendenti, che sanno divertirsi in modo disinibito. Le clienti ideali del nuovo erotismo diffuso.
Se ne sono accorte da tempo le passerelle, dove ticchettano sandali in pizzo con fiocchi di velluto, tronchetti punteggiati di cristalli, caviglie imbrigliate in lacci e fasce e, sotto i trench da film noir, spuntano négligé, autoreggenti incrostate di decorazioni e culotte da accompagnare a una giacca. Il segreto? Un diavoletto ludico che vivifica tutto il trend. Sesso matto e molto "da" e "per" ridere. In fondo, ci vuole una bella dose di (auto)ironia per stendersi sul divano a forma di figura femminile, con gli occhi coperti da una maschera di velo e addosso non più le due leggendarie gocce di Chanel n.5 ma un pizzico di "O", nuovo prodotto di punta della linea Durex, un gel stimolante solo per lei.
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Pin up di AnAtomic Factory

martedì 27 novembre 2012

MODA & MODI

Scarpe da tennis col rialzo, diventano "trans"

Meno male che le piattissime All Star tengono duro e che impediscono alle scarpe da ginnastica con la zeppa interna di uscire dal guardaroba di attrici e blogger e invadere le strade. Beyoncè le ha scelte quando erano ancora una tendenza per ballarci sopra, in body nero abissalmente scollato, nel video di "Love on top" e, all'epoca, pare che qualcuno sia riuscito a staccare gli occhi dal suo décolleté per chiedersi che cosa fosse mai quell'evoluzione di anfibi che aveva ai piedi.
Mistero presto svelato: un modello di scarpa da ginnastica della stilista francese Isabel Marant dotato di un plateau nascosto, in grado, dietro investimento di oltre cinquecento euro, di regalare parecchi centimetri in più senza doversi torturare negli stiletto.
Volete mettere la praticità e la freschezza di uscire in mini-shorts o in leggings con le estremità cementificate in un paio di scarpe molto simili a quelle "ortopediche", chiuse fino alla caviglia da un linguettone (altrimenti, come farebbero a dissimulare la zeppa???) e, dettaglio ancora più orribile, dotate di quegli "strappi" col velcro tollerabili solo alla scuola materna o nei reparti geriatrici, dove ci sono obiettive difficoltà con i lacci?
Il vantaggio, pare, è quello di alzare e slanciare, anche se viene da chiedersi perchè - dal punto di vista della comune mortale, non di una qualche stellina del palcoscenico o della rete - scegliendo la praticità di una tuta o di un abbigliamento casual, dovremmo preoccuparci di barare sull'altezza al punto da tumulare i piedi in questa specie di scarponcino informe e tozzo. Oltretutto, sempre multicolor, come se facesse di tutto per non sfuggire.
È vero che in tempi di crisi si è psicologicamente più disponibili a giocare con gli accessori piuttosto che con gli abiti e che le scarpe da ginnastica col rialzo si trovano oggi anche nei grandi magazzini, a prezzi accessibili. Ma la domanda resta: non è una specie di mostro calzaturiero fondere tacchi e scarpe da tennis? Il supporto nascosto non vi fa venire in mente subito qualcosa di finto e volgare? E, supponendo di scegliere una gonna, come minimizzare l'effetto caviglia ingessata?

Meglio rimanere coi piedi per terra in un paio di All Star, redivive dopo anni di oblio e col solo grillo per la testa dei colori, che guadagnare una spanna nel "tronchetto transgender".
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martedì 13 novembre 2012

MODA & MODI

La gonna riciclata di Sasha
Essere "second daughter", anche se dell'uomo più potente del mondo, qualche volta ha i suoi svantaggi. Chiedetelo a Sasha, che, nella storica notte della rielezione di papà Barack, ha fatto le spese della furiosa politica del riciclo di mamma Michelle. Dell'abito già visto della first lady americana si sono accorti subito tutti gli squali della moda sguinzagliati sul web: un modello rosso borgogna firmato da Michael Kors e già indossato almeno altre due volte, al conferimento di un'onorificenza al valore a un soldato di origine italiana e a un party natalizio alla Casa Bianca. Nessuno aveva prestato troppa attenzione alla gonnellina gonfia, verde a stampe, di Sasha, almeno fino a quando i segugi dell'Huffington Post americano hanno inchiodato la piccolina di casa alla dura realtà: si tratta di un "hand-me-down" di Malia, in altre parole di una gonna "smessa". Firmatissima, nel caso specifico dal designer Chris Benz, ma pur sempre andata fuori misura alla sorellona, ormai alta quasi quanto il presidente. La drastica politica del "rispolvero" di capi d'abbigliamento e di accessori ha caratterizzato tutta la campagna elettorale della signora Michelle. Non è più il 2008, l'anno del "yes we fashion" e di quel grintoso rosso e nero di Narciso Rodriguez, pronto a balzare nei libri di storia con tutta la sua carica di determinazione e provocazione. Adesso, pare volesse anticipare, siamo ai "four more years". È emergenza economica, dunque risparmio e taglio degli sprechi contano pure per la prima famiglia d'America. Perfino per l'ultimo dibattito di Barack, la consorte ha fatto uscire dal guardaroba un vestito "vecchio", il pizzo grigio perla firmato da Thom Browne, già indossato alla convention nazionale dei democratici.
Pian piano, Michelle ha spostato l'attenzione dei media dalla domanda "quale stilista promuoverà questa volta?" alla constatazione "ma l'abbiamo già fotografato". Nella notte della riconferma, riciclando per la terza volta il rosso amaranto, ha sottolineato con decisione il messaggio che aveva cominciato a suggerire nei mesi precedenti. Ha parlato alla gente di moderazione: nei colori, modi e soprattutto spese. Ma, al tempo stesso, ha lusingato l'industria americana puntando su un nome, Kors, che ha registrato una delle migliori performance in vista della quotazione in borsa.

Michelle era stata criticata dalla lobby nazionale della moda per l'esterofilia del suo guardaroba. Ha risposto con un'inequivocabile stoccata: le firme che "pesano", pure sul portafoglio, non sono usa e getta. Purtroppo per Sasha.
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domenica 4 novembre 2012

L'INTERVISTA

Antonio Galdo, la civiltà del "co" 


Antonio Galdo


Condividere: spazi, alimenti, idee, lavoro. Scambiare: oggetti e servizi. Recuperare i materiali riciclabili. Tagliare gli sprechi. E creare reti per distribuire i pesi dell'assistenza a malati e anziani, là dove lo Stato non arriva. Comportamenti impensabili negli anni del Grande Individualismo, che ci ha fatto perdere il senso dello stare insieme, e che oggi riscopriamo non solo per risparmiare, ma soprattutto per trarne energia, idee, solidarietà. La crisi economica planetaria sta cambiando il nostro modo di comportarci e di rapportarci agli altri. Davanti a molti verbi, quelli che in passato segnavano il trionfo dell'«io», oggi c'è il prefisso «co»: co-housing, co-working, e-co-abitare. Ci sta anche il "co-ltivare" insieme un orto, da New York a Roma, trasformando i grattacieli in "grattaverdi" in nome della tutela dell'ambiente co-mune, dei prodotti sani a chilometro zero e del piacere di co-struire qualcosa a più mani.

Antonio Galdo, giornalista e scrittore, nel suo libro "L'egoismo è finito. La nuova civiltà dello stare insieme" (pagg. 110, Einaudi, euro 12) ha raccolto molte storie che testimoniano un cambiamento già in atto e l'affermarsi di nuovi modelli sociali, dalla strada alla fabbrica, passando per abitazioni, giardini, reti informatiche. Ecco come ce li racconta.

Possiamo dire che questa Grande Crisi ha prodotto almeno un risultato positivo: il ridimensionamento dell'"io" e il ritorno al "noi"? «La Grande Crisi, impietoso detonatore di un cambio d'epoca, marca la fine di un paradigma, di un pensiero unico. Per decenni abbiamo fatto dell'egoismo, in tutte le sue declinazioni, la bussola della nostra civiltà e ci siamo illusi di costruire un benessere attraverso la moltiplicazione delle pulsioni individuali. E siamo finiti nel tunnel, dal quale adesso stiamo uscendo. In questo senso l'egoismo è finito».

Da quanto durava questo ciclo? «L'Italia ha vissuto un paradosso: abbiamo cancellato le comunità, in grado di comporre l'innato individualismo di un popolo. Eppure il salto nella modernità lo avevamo fatto proprio grazie a questa grande energia dello stare insieme: la famiglia, la fabbrica, la parrocchia, il partito, l'associazione. Da qui dobbiamo ripartire e, rispetto ad altri paesi, abbiamo il vantaggio di giocare in casa, di conoscere la forza che arriva dalla comunità».

Il "noi" comincia dall'urbanistica, dalle città costruite intorno all'aggettivo "smart". Che cosa significa? «Stiamo attraversando un ripensamento dello spazio urbano, dove sono cresciute separatezza e solitudine. Anche grazie all'uso delle nuove tecnologie, possiamo vincere l'egoismo metropolitano. La città è un bene di tutti, e renderla intelligente, smart, significa innanzitutto condividerla. Pensiamo, per esempio, alla mobilità: automobilisti, motociclisti, ciclisti e pedoni, hanno uguali diritti e possono convivere, senza un conflitto permanente e senza prevaricazioni reciproche. Questo è il futuro».

L'ingegnere visionario Monderman, urbanista olandese, diceva che bisogna tornare al villaggio. Lei è d'accordo? «Assolutamente. Il villaggio significa riscoprire il piacere dello stare insieme. Significa non sentirsi soli, sapendo che, come diceva Aristotele, "non si può essere felici da soli". E le città italiane, dal Rinascimento in poi, sono state pensate e costruite proprio come dei villaggi. Anche questo è un vantaggio per uscire dal tunnel dell'egoismo».

 
Tetti vegetali a Parigi


 
E poi condividere la sicurezza significa meno costi umani e sociali...«Nel libro racconto di alcune città dove ormai è stato collaudato lo "spazio condiviso". In pratica, non esistono semafori, segnaletica, marciapiedi, ma solo zone condivise, dove circolare insieme. Bene: le statistiche dicono che in questi luoghi la sicurezza è aumentata e gli incidenti sono diminuiti».

Anche nella sua Napoli si stanno sperimentando spazi condivisi. Un bel risultato per una città che ha così tanti problemi urbani... «Mancavo da Napoli da molto tempo, e quando ho visto il suo lungomare affollato di biciclette, monopattini e pedoni a passeggio ho pensato soltanto una cosa: i napoletani si sono ripresi il loro spazio, sono tornati padroni del mare che li circonda. Ed è stata una bella scoperta». 

E il co-housing? Un ritorno alle comuni anni '70? «No, sono due cose assolutamente diverse. Il co-housing non è una scelta ideologica, non è uno slogan da "sol dell'avvenire": é una soluzione razionale per potersi permettere una bella casa, con un terrazzo, una lavanderia, una sala per le cerimonie e una serie di spazi da condividere con gli altri abitanti. Ovviamente, per vivere insieme dobbiamo rinunciare all'egoismo delle risse condominiali. E in Italia siamo arrivate al punto di scatenarne una ogni 15 minuti...».

Anche quella degli orti urbani sembrava un po' una moda "radical chic". Invece? «Anche questa non è una scelta ideologica o la moda di qualche ricco borghese metropolitano. È una nuova tendenza che riguarda strade, case e grattacieli. Un italiano su tre coltiva l'orto e non lo fa certo per una scelta di moda. Piuttosto ha la consapevolezza che con l'orto si migliora l'estetica di un luogo e si contribuisce a stare, tutti insieme, in un ambiente migliore. Il benessere di una società passa per queste scelte condivise».

La crisi ci ha ri-portato alla civiltà del baratto? «Anche questo è un cambio di paradigma, che coinvolge milioni di uomini e donne attraverso l'uso del web. Scambiano tutto, costruiscono comunità, fanno nascere relazioni. E insieme scoprono che non abbiamo sempre bisogno di strisciare una carta di credito».

Si scambiano anche le idee e questo può diventare una forma di grande, nuova ricchezza... «Ho assistito in America alle conferenze di Ted (Technology, entertainment and design, massimo 18 minuti, ndr). È un'avventura unica: con pochi soldi puoi condividere una scoperta, un'invenzione, una scommessa imprenditoriale. Insieme si scavalcano le montagne, e si realizzano sogni che da soli diventano impossibili».

 
TED conference


La fine dell'egoismo ci porta all'economia civile, a un nuovo welfare. Cos'è? «Senza quello che io chiamo lo stato sociale dal basso, costruito in una singola fabbrica, in una singola comunità, la Grande Crisi in Italia sarebbe stata molto più pesante. Il nuovo welfare è, ancora una volta, ispirato all'idea di riscoprire la forza di una comunità, e di offrire per esempio al lavoratore sostegno per i figli, asili nido, buoni per la spesa, assistenza medica non coperta dal servizio sanitario nazionale. In Italia abbiamo 800mila vittime dell'Alzheimer: senza la rete delle famiglie, senza il welfare dal basso, sarebbero abbandonate, con le loro famiglie, al loro destino. E lo stato non paga un euro».

Il suo è un manuale della felicità o della sostenibilità? «È un libro sull'amore. Su quella parte di noi, di ciascuno di noi, che ha bisogno dell'altro, di una relazione che unisce laddove la solitudine separa. Ed è un libro ottimista, perchè la fine dell'egoismo ci aiuterà tutti a uscire più forti e in tempi più brevi dal buio della Grande Crisi». 
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martedì 16 ottobre 2012

MODA & MODI

Minetti e Fico, la testimonial è un boomerang

Parah ha dovuto precipitosamente chiedere scusa, dopo che il suo sito è stato sommerso da improperi per la scelta della "testimonial" Nicole Minetti in bi e tri-kini alla settimana della moda milanese. Pin Up Stars non è arrivata a cospargersi il capo di cenere, ma quanto a figura non è andata troppo lontano dalla griffe concorrente , mandando in passerella dentro (e fuori) dai suoi costumini il pancione di Raffaella Fico, ovvero l'unico dettaglio della vita privata sua e del nascituro che la showgirl non abbia ancora sciorinato ai quattro venti. Il motto è sempre lo stesso: anche volgari, purchè se ne parli. In un momento di saturazione dilagante, le aziende paiono più che mai convinte che arruolare personaggi dell'arrembaggio politico e del carrozzone dello spettacolo, o far sedere in prima fila qualche star, non importa se ripianata dal lifting purchè con toy boy al seguito, possa regalare visibilità internazionale, meglio ancora se le signore in questione documentano su twitter ogni loro spostamento. O se, come capitato a Sharon Stone, reduce dal party notturno di Just Cavalli, si sente male alla sfilata di Fendi, regalando così, in parti eguali a entrambi i brand, la spettante (e lautamente compensata) dose di mediaticità.
Cambia la front row alle sfilate, dove, accanto alle vip trascinate da un marchio all'altro, con il rischio che si dimentichino - vedi Kate Moss - quello di cui sono testimonial e quello che devono promuovere con la loro "ospitata" (il che, fondamentalmente, è lo stesso), siedono i blogger, gli unici ormai "logati" da capo a piedi. Poche idee, nessun rischio, tanto ritorno per loro stessi e per i marchi con cui instupidiscono la rete.
Eppure, sarà la crisi, l'aria sta cambiando, almeno nel mondo occidentale. A parità di prezzo, si ritorna alla sartoria, spopola il vintage, il capo anonimo è il nuovo snobismo. Fra sè e ciò che promuovono le Minetti e le Fico, si sente il bisogno di mettere le distanze. Come dalle collezioni pesanti e appesantite apposta perchè siano subito riconoscibili e databili, pensate per i ricchi stranieri che si attovagliano nelle griffe e sono gli unici a farle crescere. Viva la recession, viene da dire. Anche in "Venere in metrò" di Giuseppe Culicchia, la protagonista Gaia, milanese ex-ricca, si salva il giorno in cui non pensa più che il blog "The Blonde Salad", con il suo elenco telefonico di firme, sia l'unico punto di riferimento dopo la caduta del muro di Berlino.
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Nicole Minetti sfila  per Parah

domenica 7 ottobre 2012

IL LIBRO

Lisa Corva, l'amore nella città dove niente è ciò che sembra


Un incontro casuale sulla pagina Facebook di un'amica, una foto di cielo e una citazione colta del maestro dei cieli, il pittore John Constable, una maglia a righe indossata da un uomo ruvido ma pronto a farsi coccolare, prima via social network e poi chissà. Sembrano gli ingredienti per l'innamoramento perfetto. Se non fosse che la storia inizia nella città dove niente è quel che sembra, dove una vecchia astronave abbandonata su un cocuzzolo in realtà è una chiesa e una pompa di benzina griffata è stata promossa a bar da happy hour, dove i biscotti cilindrici e diritti affondati dentro un "Berliner" si chiamano "storti" e per chiedere un cappuccino bisogna specificare la dimensione della tazza.
Sul Molo Audace, insomma, anche il lui della virtuale storia da manuale non è quel che sembra. E alla lei di turno, Benedetta, non resta altro che lasciarsi alle spalle questa Trieste sottosopra e tornare a Milano, da una mamma ex figlia dei fiori e bisognosa di badante, e poi a Londra, dove ha messo nel cassetto una raffinata laurea in storia dell'arte sull'unguentario di Maria Maddalena, per dedicarsi a miscelare profumi per un molto più prosaico "brand" beauty. L'essenza che le è stata commissionata dalla solita star over-quaranta in cerca di una qualsiasi etichetta su cui appoggiare il proprio nome, deve catturare l'essenza di vecchi libri, pomeriggi di pioggia, biancheria sexy, torta di mele, desideri sospesi e cera per pavimenti.
Desideri sospesi? Fragranza inafferrabile, almeno quanto la sostanza dei sogni e l'odore di pulito della cera. Ma sarà proprio nella Trieste dei contrari, in un vecchio negozio sopravvissuto agli shopping center e all'assalto delle lanterne rosse, che Benedetta troverà la soluzione: non l'uomo di facebook, che resterà, appunto, solo un desiderio sospeso, ma un prodotto d'altri tempi. Come d'altri tempi, quelli prima dei social network e degli ingannevoli corteggiamenti on-line, sarà forse un altro amore che l'aspetta.
Comincia così, con un cameo dedicato alla sua città natale, il terzo romanzo della scrittrice e giornalista triestina Lisa Corva, "Ultimamente mi sveglio felice", da martedì in libreria per Baldini&Castoldi Dalai, pagg. 240, euro 14,90. Trieste, per la protagonista, è più che mai un "nessun luogo", la città le cui luci scopre emozionata in fondo al golfo sull'onda delle parole di Joyce alla moglie Nora, per poi perdersi in una confusione di caffè sbagliati, cieli alla Constable diventati improvvisamente ostili, abbracci equivocati di un uomo che lei si ostina a volere "reversibile", come un cappotto.
E di caldo, Benedetta (nome d'elezione, perchè all'anagrafe l'inossidabile genitrice-contestatrice l'ha chiamata Asmara) ha tanto bisogno, al punto da scaldare il letto col phon, sempre che l'aggeggio non sia incardinato alla parete di un bagno d'albergo. C'è una mamma che è sempre più fragile, un casting badanti da gestire, una capa-Grande Tagliatrice da accontentare per non essere sforbiciata su due piedi dall'organigramma, con la sola consolazione di una seduta gratuita dall'hair stylist, e pure un'isterica che pretende un profumo con dentro un guazzabuglio di contraddizioni: vecchie mele, pioggia di biancheria, pomeriggi sexy, torta di cera. O, ancora una volta, è tutto il contrario?
Per fortuna che ogni mattina, sul giornale gratuito impilato nei bar o abbandonato nel metrò, trova la citazione da una poesia, un pugno di versi per "accompagnare" la sua giornata. Versi dove Benedetta si rifugia, se il cielo è una feritoia raggelante come il neon dell'ospedale, con cui si arrabbia, quando la vita le assesta qualche colpo che di lirico non ha proprio niente.
Ultimamente mi sveglio felice, aveva scritto, nel suo ultimo "status" Skype, un'amica che non c'è più, un'amica-maglione, di quelli che non riesci a buttare nemmeno quando sono logori, perchè ne conosci ogni punto, ogni rammendo, ogni occasione, ogni abbraccio dato e ricevuto dentro di loro. È un ritaglio che si aggiunge ai tanti, celebri, selezionati da Lisa Corva quando era giornaliera "spacciatrice di versi" sul defunto "City", free press di Milano. Così, alla fine, la protagonista del libro scopre che è la nostra poesia domestica, intima, a farci scegliere la direzione giusta.
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Lisa Corva a Trieste fotografata da Jana Urbas

martedì 2 ottobre 2012



MODA & MODI

La giacca del candidato non fa la differenza

Può una giacca determinare la fortuna del candidato? Almeno può influenzarla, è la risposta di qua e di là dell'oceano, dove giovani rampanti, diversamente rottamatori, sono impegnati nella scalata al potere. Ha mandato in fibrillazione le croniste la presenza di Matteo Renzi, in prima fila alla sfilata di Scervino nella settimana della moda milanese (e perchè mai, poi?? Era ampiamente annunciata nella cartella stampa), salvo poi registrare che lo stilista fiorentino si occupa dell'abbigliamento del tour in camper dello sfidante di Bersani alle primarie Pd. Ampia o attillata? Scervino non ha dubbi. La giacca dell'"Adesso!" di Renzi è moderna e a tre bottoni, perchè il giovanotto ha bisogno di capi che gli permettano scioltezza di movimenti e gesti fluidi, in colori scuri che lo identificano e marcano la differenza con gli asfittici grigetti, da topo del catasto, del suo segretario. E poi, nessun riciclo, di guardaroba o nomenklatura: il politico moderno non deve essere né trascurato né démodé, perchè scelte simili denoterebbero poco rispetto per gli elettori e, sia mai, scarsa capacità di osare.
Un'altra giacca anima il dibattito, quella del vice scelto da Romney, il lanciatissimo economista Paul Ryan, definito da Tmz, "the hottest vice presidential candidate ever", il più impetuoso numero due mai comparso in una battaglia per la casa Bianca. Peccato che in Virginia abbia toppato di brutto: un modello di due taglie abbondanti sopra la sua, come Tom Hanks nel film "Big" quando si ritrova bambino nella giacca di se stesso adulto. Il critico di moda maschile del New York Times, Bruce Pask, lo affonda: Ryan appartiene a quella categoria di uomini che pensa che la taglia sia proporzionale alla mascolinità, sale l'una così anche l'altra.
Insomma, il problema sarebbe del guru dello stile, o ce l'hai o non ce l'hai. I conservatori americani sono allergici al tema dopo la debacle di Sarah Palin con tutta la sua esosa corte di stylist e parrucchieri. Da noi, pur in tempi di "review", qualche suggerimento modaiolo si può sempre infilare tra le spesucce dei partiti. In realtà, il candidato "maturo" per qualsivoglia poltrona dovrebbe essere indifferente alle mode ma anche alle critiche, come ci illumina "The art of being Winston Churchill". O basta guardare all'altra metà del cielo: Hillary Clinton va agli incontri di Stato con lo "scrunchie", l'elastico di stoffa per capelli simbolo della più bieca casalinghitudine, le ministre italiane portano con disinvoltura cotonature, rughe e camicie d'antan. Più che di tendenza, un problema di autorevolezza?

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Paul Ryan con Mitt Romney

martedì 18 settembre 2012

MODA & MODI

Pancia scoperta nel tailleur del potere

Che cosa mai si poteva inventare per scardinare il "power dress", l'abito del potere femminile? Per mettere mano al tailleur, simbolo intramontabile dell'uniforme da ufficio, dell'autorevolezza e dell'efficienza, territorio interdetto alla fantasia, agli sghiribizzi dei creativi? Marc Jacobs, sulla passerella newyorkese di qualche giorno fa, dov'è sfilata la collezione per la prossima primavera, ha preso in mano le forbici e ce l'ha dimostrato: zac!, via un pezzo di gonna e imprevedibilmente la vita scende, lasciando esposte, in tutta la loro puntuta evidenza, le ossa dei fianchi. La silhouette si allunga un po' alla Olivia di Braccio di ferro, come davanti agli specchi "simpatici" dei parchi divertimento, dov'è difficile capire dov'è finito il proprio ombelico.
L'effetto sorpresa è assicurato. Immaginate di sfilarvi lo spolverino - perché se ditailleur parliamo, siamo nell'aria fresca e umidiccia di marzo o aprile - e accomodarvi al vostro tavolo con una generosa porzione di ventre in bella vista, quella regione a rischio, oggetto di bombardamenti specifici nelle palestre, che si vorrebbe tesa, levigata, uniforme, priva di crateri e avvallamenti.
«Per la prima volta da Marc Jacobs uno stilista ha premuto sul pulsante del sesso in modo convincente», ha sentenziato l'autorevole Cathy Horyn del New York Times, evidentemente convinta che far ammirare le pelvi da sotto peraltro deliziosi completini color caffelatte o bianchi e blu, sia il modo migliore per dare uno scossone al più convenzionale dei capi, sempre bistrattato (pensiamo a quelli di Melanie Griffith in "Una donna in carriera") come involucro dell'arrivismo al femminile.
Per indossarlo, però, questo nuovo tailleur "perverso", è impossibile permettersi anche un solo filo di rilassatezza, non con i sottoposti, ma coi propri addominali. Si richiede la "V line", quelle due rette perfette, quel compasso rovesciato dall'ombelico al pube che sono prerogativa naturale di bellissime come Gisele Bündchen e Cameron Diaz, e che oggi fanno tendenza nelle palestre. E anche il lato B, vuole la sua parte, non tanto con natiche rotonde, quanto con una zona lombare tonica e pronta a respingere pugnalate alle spalle, non dei colleghi ma degli spifferi.
Sotto, dunque, con palle, tappeti, spalliere, in ogni minuto libero della giornata. L'ha detto lo stesso Jacobs, sintetizzando il suo show: molto brutale, molto diretto, niente romanticismo o emozioni, solo potere, forza e semplicità. Bontà sua, le spalle imbottite ce le ha risparmiate.
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Uno dei tailleur di Marc Jacobs per la primavera-estate 2013

lunedì 10 settembre 2012

IL LIBRO

E il Vate, precoce stilista, ordina a Lalla: "Devi vestirti sempre di nero"


 Giselda Zucconi, diciassettenne, nel 1881

Disinibite, raffinate, inguantate in calze di seta finissima e con la collana ombelicale, eteree apparizioni in una nuvola di Chanel n.5. Le sue "belle di notte", le ospiti del Vittoriale, Gabriele d'Annunzio le voleva così, nella divisa d'ordinanza del piacere. Non si limitava a guardarle e a goderne, come più modesti epigoni dei giorni nostri, permettendo che venissero ammesse nelle sue stanze in straccetti qualsiasi, purchè sbarluccicanti. Per loro, il Vate diventava stilista, griffando con "Gabriel Nuntius Vestiarius fecit" audaci e modernissime "vesti magiche", abiti da sera e deshabillés, trasparenti, percorse da rushes e fili metallici, nere o nei colori pastello.


Sulle donne, e come gli piacevano abbigliate, d'Annunzio aveva le idee chiare fin da giovanissimo. Una fantasia ancora lontana dalle future iperboli, ma già sicura nella grammatica dei colori e nello stile. Lo sperimentò, per prima, la fidanzatina del Vate adolescente, Lalla, al secolo Giselda Zucconi, "strana bimba dagli occhioni erranti come il mare". Sarebbe diventata la nonna del vecchio leone della Lista per Trieste Gianfranco Gambassini, che la ricorda, insieme alla sua precoce e impegnativa love story, in "D'Annunzio avrebbe potuto essere mio nonno" (Archeografo triestino, 1998).
Lalla, ispiratrice del "Canto Novo", è la grande passione del poeta diciottenne. Il padre di lei, Tito, insegnante al liceo Cicognini di Prato, invita a casa il suo allievo più brillante. È il 15 aprile 1881: una passeggiata pomeridiana lungo il Mugnone fa da cornice al colpo di fulmine.


Pelle di crema, capelli folti, diciassettenne già profondamente "dannunziana". «Mia bella bambina pallida e sofferente» le scrive Gabriele in una delle quattrocento lettere che i due ragazzi si scambiano, fino al 31 gennaio 1882, quando il carteggio si chiude e lui sarà risucchiato da braccia ben più esperte. Lalla gli piace evanescente, ma sull'abbigliamento non ammette colpi di testa e di colore: deve portare il nero. E in un'altra lettera le suggerisce, con tono imperioso: «Tu vuoi sapere come m'è parso il ritratto... Mi sarebbe piaciuto che tu non ti fossi messo quel ricciolo bianco intorno al collo. Io, vedrai, quando sarai mia, ti farà ammattire; penso già come dovrai andar vestita, ti piaccia o non ti piaccia. Detesto, detesto, detesto, il chiaro in una donna, e in una donna poi come te. Se tu sapessi com'è divino il tuo pallore su'l fondo cupo! Vedrai insomma: ti farò io il figurino, un figurino co' fiocchi, e ti garantisco che dopo un mese molte signore ti imiteranno».


Lalla cede, davanti a quel giovanottino, all'epoca neanche tanto curato - quando peregrinava per le redazioni indossava sempre una giacchetta scura, a volte senza nemmeno la cravatta, ricorda il giornalista Edoardo Scarfoglio - ma con un modello femminile ben disegnato in testa. Pochi giorni dopo sarà lui stesso a intervenire nel guardaroba dell'amata e la ringrazierà, in una lettera del 23 maggio, "per il pensiero gentile che hai avuto nel dirmi che scelga io la stoffa del tuo vestito". Un mese più tardi le scrive ancora, facendole notare gli svarioni cromatici delle altre, annotati durante una passeggiata a Prato, che le fanno assomigliare a uccelli mimetici: «Le donne pratesi nel loro vestire preferiscono generalmente le tinte gialle cromes e le verdi sgargianti. Sono antipaticissime. Figurati una Signora coperta di giallo e di verde come un rigogolo! Oibò!!!«


Del Vate arbiter elegantiarum, cronista mondano e couturier racconta Paola Sorge nella monografia "Gabriele d'Annunzio padre dello stile italiano" (Silvana Editoriale, pagg. 117, euro 22,00), primo volumetto di una serie dedicata al poeta e al Vittoriale, che raccoglie gli atti del convegno svoltosi l'8 luglio 2011 in occasione della mostra, con lo stesso titolo, allestita all'Aurum di Pescara. 



Gabriele d'Annunzio sulla copertina del primo volume de "L'Officina del Vittoriale"
 

Quarant'anni dopo le prime missive, una lettera all'amante Ines Pradella, modella del pittore Cadorin, scritta nel febbraio 1930, sembra il "remake" di quelle indirizzate a Lalla, e ci restituisce la stessa indomita volontà di plagiare esteticamente le sue favorite: «Ti prego di mettere il vestito grigio e non quello dell'altra sera che è orribile e che non voglio più vedere. Non comprare vestiti: ti darò io quelli che ti si addicono, quelli che mettono in rilievo la tua bella persona».

E sui regali d'Annunzio non lesina (e spesso non paga, "ardens avaritia"). Vestiti, pellicce, i gioielli di Buccellati (che ribattezza "Mastro Paragon Coppella"), scialli, calze, borse e le scarpe pregiatissime di Adolfo Quinté di Milano, cui affida i "piedini meritevoli di essere ben calzati" di Ester Pizzutti, una delle belle provincialotte che voleva trasformare in donne sofisticate.


In quegli stessi anni, Biki - al secolo Elvira Leonardi Bouyeure - inizia la sua carriera di stilista con una ditta di biancheria intima di lusso, in via del Senato 8 a Milano, una vera novità per l'Italia. Il Vate - che lei ha conosciuto da bambina nella villa di Viareggio del nonno, Giacomo Puccini - la chiama "domina", signora, ma anche "dominatrice" dei gusti delle signore, e le chiede elaborate camicie da notte nei colori delle pietre dure che provvede a inviarle. Grazie al poeta, o meglio, al brillante giornalista mondano che esalta le toilette femminili, all'uomo di mondo conteso dai salotti, Biki entra nel mondo dell'alta moda e veste aristocratiche come Edda Ciano e le dive dell'epoca Alida Valli, Isa Miranda e Doris Durante.


Ma lui non si limita a descrivere ed esaltare. Disegna i modelli, modifica, dipinge "con mano volante" la seta per gli abiti, che poi ordina alla maison Paul Andrée Léonard, fornitrice di stoffe francesi in tutta Italia, indicando maniacalmente le tonalità che desidera, oggi diremmo le "sfumature". In mostra a Pescara erano esposti nove modelli di alta sartoria confezionati per Luisa Baccara, di cui uno estivo nei colori fiumani rosso e azzurro e a "disegni fiammeggianti", gli stessi utilizzati per i "quadrati magici", foulard con impressi i suoi motti di guerra.


Siamo nel 1930 e il Vittoriale è un autentico laboratorio "di sarte e modiste". Molti anche gli atelier di prestigio che riforniscono la villa, Maria Testa di Milano, sua sorella Emilia, Marta Palmer, di cui d'Annunzio è affezionato cliente fin dal 1919 e a cui si devono preziose e costose "mise" dai nomi evocativi: Cleopatra, Mio Capriccio, Orient Express, Villa Fiorita. Non altrettanto affezionato, il poeta, nel pagamento dei conti, almeno fino al 1925, quando una lettera dell'avvocato della Palmer gli intima di saldare subito 42.505,60 lire. Un mantello verde ricamato con collo di pelliccia costava 2.600 lire. È il "mantello d'autunno" che d'Annunzio manda alla Baccara nel 1924, mentre la pianista soggiorna all'hotel Cristallo di Cortina. I debiti possono aspettare, piuttosto è urgente soccorrere il gusto dell'amante: «Venturi scrisse ad Aélis di averti veduta in piazza e d'averti trovata "non elegante". Ti mando altre 5000 lire per provvedere all'eleganza».
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 Luisa Baccara nel giardino del Vittoriale

martedì 4 settembre 2012

MODA & MODI


Il rosso di Ann è anti-Michelle

Ha scelto il rosso Ann Romney per la convention repubblicana di Tampa, la sua prima grande apparizione mediatica al fianco del marito, sfidante di Obama per la Casa Bianca. Rosso pompiere, rosso sfrontato, rosso asseverativo. C'è da sostenere la fiducia che i maschi conservatori ripongono nel suo Mitt, ma soprattutto c'è da scaldare l'ancora poco tonico elettorato femminile, che giocherà un ruolo forte nel rush finale. Forte come quell'abito di taffetà di seta, cintura in vita e scollo a V, con cui sottolinea, evidenzia, assevera appunto, il suo messaggio: sono sua moglie da quaranta e passa anni, abbiamo cinque figli maschi tutti qui in prima fila con le loro belle mogli, sto combattendo due malattie tremende, mortali. In una parola: non sono una multimiliardaria annoiata che aspira a un fotoshooting nella stanza ovale, ma una moglie e mamma con gli stessi vostri problemi (sottaciuto: e molte più possibilità di risolverli) e porterò a Washington la solidità, unità e positività da cui è cementata la mia vita personale.

Tutto? Macchè. Quell'abito rosso vuol dire molto di più. È un Oscar della Renta, stilista abituato a frequentare da tempo i guardaroba delle first lady americane, amato da Laura Bush, Nancy Reagan e da Hillary Clinton, che lo scelse anche per il matrimonio della figlia Chelsea. Michelle, invece, non lo ha mai indossato, con suo grande scorno, bypassandolo per il figlio Moses. Fu Oscar de la Renta a criticarla pesantemente, salvo poi correggere ed edulcorare, quando gli preferì la zampata del drago, il rosso (e nero) di Alexander McQueen per la cena di Stato con il presidente cinese Hu Jintao. Oscar, piccato, sentenziò che sarebbe stato compito della first lady promuovere nello sterminato paese dei nuovi ricchi, gli stilisti americani. E non si risparmiò, nemmeno quando Michelle entrò in cardigan dalla regina Elisabetta: inappropriato.


Ora, sul palcoscenico della Florida, è il momento della riscossa. Seppure non entusiasmante, quel vestito della precollezione autunno-inverno - che, secondo stime comparate, oscilla tra i 2,5 e i 5 mila euro - è l'affermazione di un'identità e di una differenza. Anche Michelle fece una scelta cromatica dirompente, il viola di Maria Pinto, il giorno in cui il marito accettò l'investitura dei democratici. Ann rilancia: a entrambe piacciono i colori accesi, ma li riempiamo di contenuti diversi. I blogger si scatenano: i Romney mettono il sovrappiù della loro fortuna nei paradisi fiscali caraibici, Oscar de la Renta viene da Santo Domingo. Sono coerenti, tutto offshore.


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Ann Romney nel suo Oscar de la Renta rosso fuoco

IL LIBRO

Widad Tamimi e il caffè delle donne


Widad Tamimi
Al rito del caffè è legato un giorno importante nella vita della piccola Qamar: imparare a prepararlo con l'ibriq, il pentolino dal becco lungo dove viene fatto bollire e schiumare, profumandolo col cardamomo, significa diventare donna, abbandonare l'adolescenza ed essere ammessa nel consesso femminile di nonna, zie, cugine, vicine di casa, dove tra confidenze e iniziazioni, ogni giorno, a una prescelta, viene letto il futuro nei fondi che si depositano nella tazzina. È l'estate dei suoi quattordici anni, in Giordania, in casa della famiglia del padre, l'ultima che Qamar ricorderà con la spensieratezza dell'infanzia e la prima da giovane donna innamorata, quando scoprirà con tormento quanto diverse siano le culture di cui è figlia. Per riconciliarle, la protagonista compie un lungo viaggio di ritorno, al termine del quale anche il futuro letto nella tazzina, da cui è fuggita molti anni prima, trova una sua composizione.

 Esce "Il caffè delle donne" (Mondadori, pagg. 300, euro 17,50), il libro di esordio di Widad Tamimi, scrittrice trentaduenne figlia di un profugo palestinese e di un'ebrea di origini triestine, la cui famiglia scappò a New York durante la seconda guerra mondiale.Widad e Qamar sono la stessa persona? O quanto dell'una c'è nell'altra?
«Non c'è personaggio di un libro che non sia in parte specchio del proprio autore, credo. Widad è in ognuno dei personaggi, ma poi forse in nessuno, perché a un certo punto bisogna lasciarli andare, far sì che camminino da soli. Forse potrebbe essere appropriato dire che l'autore è genitore, più che sosia dei propri personaggi. D'altra parte tutti si chiedono cosa sia vero e cosa no nella scrittura di chi ci narra una storia. Addirittura mio padre mi ha chiamata al telefono per chiedermi tutto allarmato se abbia veramente rubato la macchina di mio cugino a dodici anni. Ho riso, e gli ho risposto che non lo saprà mai».

Lei si è mai fatta leggere il futuro nei fondi della tazzina del caffè? «Naturalmente! Sono una curiosa nata».

E si è spaventata come la protagonista del libro? «No, spaventata no, ma sono sempre stata molto scettica. Poi ho capito: non si tratta di stregoneria o lettura del futuro con la sfera magica. La lettura è soprattutto un dialogo, uno scambio e una condivisione, tra donne più giovani e donne più anziane, con più esperienza, più sagge. E quando ho finalmente messo a fuoco la natura di questo rito, ho capito quanto mi manchi questo aspetto della vita nella società in cui sono cresciuta. Quando mai ci sediamo con le nostre zie, cugine e nonne a chiacchierare della vita, dei dispiaceri, dei sogni, delle aspettative e delle delusioni?».

Nel suo libro, il rito del caffè scandisce la vita delle donne: l'ingresso nell'età adulta, la preparazione al matrimonio, la condivisione dei segreti. Lei l'ha vissuto e lo vive ancora così? «I caffè scandiscono la giornata di molti di noi. A me piace sedermi, avere una tazza di caffè gigante, riposare i pensieri o lasciarli andare. In questo senso il caffè segna dei passaggi, perché non c'è giorno in cui non ce ne sia uno, di passaggio».

Il caffè regala anche l'unica vera scena d'amore, quella in cui Qamar lo prepara col cugino Yusef. I due sono all'aria aperta, ma è tutto molto intimo e segreto... «Nonostante le proibizioni culturali, non c'è parte di mondo in cui due giovani innamorati non riescano a rubare l'intimità per incontrarsi, e sognare. E quando l'amore è così difficile da raggiungere, quando ogni attimo insieme alla persona amata è così difficile da conquistare, diventa persino più emozionante, più intenso». 

Anche lei, come la protagonista, racchiude in sè diverse culture e identità: la palestinese, l'ebrea, l'italiana, la slovena per matrimonio...Come le ha composte? «Per la verità faccio fatica a scomporle. Non so cosa ci sia di italiano, cosa di arabo e cosa di ebreo in me. So per certo che c'è posto per tutte queste identità, e molte altre, in ognuno di noi. Così come c'è posto in ognuno di noi per amare all'infinto. È più facile e bello vivere con tante identità, che coltivarne e coccolarne una sola. Ora che abito in Slovenia e che ascolto le prime parole dei miei figli in una lingua che capisco poco, mi si riempie il cuore di gioia, perché sento che la tradizione continua, le identità si moltiplicano e ai miei bambini sto offrendo un mondo ancora più ampio del mio». 

E c'è mai un momento in cui una di queste identità si impone, magari conflittualmente, sulle altre?«In famiglia hanno sempre detto che ho la testa dura. Da bambina mio padre diceva che è tipica hebbronese, mio nonno che è ebrea. A mio figlio, che ha ereditato la determinazione che ora mi si ritorce contro in ogni capriccio ostinato con cui mi sfida, diranno che ha la testa di un vero sloveno. Insomma, chi sa dirlo quale si impone?».

A un certo punto del libro, quando l'adulta Qamar presenta il marito Giacomo alla nonna, l'anziana gli offre il caffè nel bicchiere e loro due ricordano il "capo in B" bevuto a Trieste...
«Mio nonno materno è nato in una benestante famiglia ebrea triestina, nipote, fra l'altro, di Italo Svevo. Purtroppo, però, nel 1938 la famiglia fu costretta a lasciare l'Italia a causa delle leggi razziali e nel 1940 si stabilì negli Stati Uniti. Mio nonno era legatissimo alla sua città natale e io oggi sono felice di essermici avvicinata. Il nonno amava raccontare barzellette in triestino ed era divertente sentirlo prununciare "coccola", in quel modo tipico...».

Lei lo dice nella postfazione: il libro è nato da un dolore privato, da una perdita. In quel momento, andare alla ricerca delle sue origini è stata una consolazione?«Inizialmente ho pensato che la scrittura mi avrebbe aiutata a rielaborare una vicenda personale, poi ho scoperto che mi portava più lontano, che mi offriva molto di più. Forse per Qamar la ricerca delle origini era importante, ma Widad le origini non le ha mai del tutto cercate. Le lascio vivere, coesistere. La vera emozione è stato lasciar fluire i ricordi dell'infanzia, gli odori, i colori, e accorgermi di come sia possibile non crescere mai, non invecchiare, perché ci sono sensazioni che rimangono appiccicate per sempre, e per sempre suscitano emozioni enormi, fortissime. Certo, il Medio Oriente mi manca in questo periodo, ma la scrittura mi ha permesso di viverlo, sentirlo più vicino».

Multiculturale è una parola di cui spesso si abusa. Che cosa significa? «Essere liberi, soprattutto. Significa accogliere, invece che temere. Significa essere curiosi. Significa essere più ricchi».

C'è un'altra storia che sta maturando? «Eccome, è da tanto tempo che penso a un altro progetto. Ed è proprio da Trieste che comincerà la prossima storia. La mia è una famiglia di esuli: sia da parte materna che da parte paterna ha vissuto la difficile esperienza dell'esilio e, nonostante si tratti di momenti storici e luoghi completamente diversi, queste esperienze si intrecciano profondamente. Vorrei raccontare di questo: della sofferenza di un bambino che è costretto a lasciare i luoghi della sua infanzia, a scappare, sognando la terra natale senza capire perchè abbia dovuto abbandonarla. Mio nonno ha conservato nel cuore il sogno di Trieste per tutta la vita ed è lì che ha chiesto di riposare, perchè non c'è luogo al mondo che abbia amato di più…».
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martedì 21 agosto 2012

MODA & MODI

Fare tappezzeria diventa chic

Fare tappezzeria? Quest'inverno sarà di moda. E se l'espressione, datata come la tendenza in questione, vi fa venire in mente sfiga e grigiore, cancellate subito l'immagine. Sarà la gioia dei negozi vintage che scovano sempre vecchie borsette di pelle o portaspiccioli decorati a mezzo punto. E, se ancora li avete, per carità non cedete alla tentazione di liberarvi di quei piccoli set irrinunciabili per le nonne, pettine e specchietto da passeggio nelle loro custodie impreziosite da ricami floreali e ramage di punto croce. L'inverno 2012 li nobilita e li promuove ad avanguardia del dilagante tapestry trend che, nella traduzione autoctona, suona proprio com'è: tendenza carta da parati. Insomma, mettersi addosso un pezzo di divano, sventrare un cuscino per farne una gonna, riconvertire in tailleur o soprabito una poltrona dai leziosi cottage inglesi, dove tutto, dalla teiera al copriwater, è un tripudio di rose e lillà, pare essere la quintessenza dello chic.
Indossati dalle modelle e immortalati nei set fotografici delle riviste diventano esercizi di stile (e di stylist), divertenti anche se ridondanti e soffocanti, dove alla fine, di tutto l'ensemble, la donna comune compra la sottovestina da grande magazzino di cui appena si intravede un lembo (quel tanto che basta per citare la marca nella didascalia). Nelle vetrine dei negozi, che si sforzano di sedurci mentre Lucifero e la spending review impazzano, questi abiti sembrano invece proprio quello che sono: un vecchio e familiare pezzo di sofà rivoltato, come i paltò di un tempo che attraversavano generazioni di fratelli.
Alcune griffe, di alta fascia, ci hanno investito buona parte della collezione, abbracciando tutte le variabili di questa tendenza: dalle fantasie optical degli anni '70 per tailleur pantaloni, abiti e soprabiti, al barocco siciliano, con cascate di fiori e animali su giacchini, scarpe e borsette, ai disegni orientali per mini-trench e pigiama palazzo, alle fantasie geometriche delle steppe siberiane tradotte in lunghi cappotti che sembrano ricavati da coperte di pastori nomadi. Piacerà? Meglio prenderlo come un invito subliminale a non buttar via niente e a dare un'altra occasione a copridivani e a fodere di cuscini. A piccole dosi, e magari, con la saggezza della nonna, limitandosi alla trousse da borsetta, che c'è ed è utile, ma in pubblico compare poco.
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Tapestry trend secondo Jeffrey Campbell

IL LIBRO

Virginia Agnelli, la farfalla nel cassetto

Virginia Bourbon del Monte di San Faustino il giorno delle nozze con Edoardo Agnelli, l'8 giugno 1919

Le labbra sottili, l'ampia scollatura, la mano lunghissima che regge un fiore, i riccioli rossi pettinati all'insù, una corona regale intorno al viso. La massa dei capelli sostituisce il cappello, che invece dovrebbe portare, come impongono i canoni di eleganza alle aristocratiche, anche se giovani e testarde. Una donna reale e insieme una fata o forse un po' una strega. È Virginia Agnelli, nata principessa Bourbon del Monte di San Faustino, nel ritratto che Gianni, uno dei suoi sette figli, il più celebre, il principe della Camelot italiana, tiene accanto al letto nella casa di corso Matteotti, a Torino. Una giovane donna affascinante e misteriosa, di cui Leonor Fini, l'autrice del dipinto, coglie la natura più riposta: un giunco d'acciaio, anticonformista e volitiva, passionale e indomabile. Una farfalla dalla grazia innata, che, se mprigionata, sa sbattere le ali senza tregua, fino a riottenere la libertà. Sua mamma Jane, americana senza dote, cui il vecchio continente ha riservato Carlo, marito dal purissimo sangue blu, dice di lei, ventenne poco incline alle regole: «Il suo volto non era di quelli che lasciano intravedere un destino tranquillo e comune. Virginia non si sarebbe accontentata di ciò che fa felici le altre donne».
Come mai si sa così poco di Virginia Agnelli, la moglie di Edoardo, figlio di Giovanni, il fondatore dell'impero Fiat? La vedova che il potentissimo suocero fece pedinare, sorvegliare, "intercettare" si direbbe oggi,dall'Ovra, la polizia fascista, in un'estenuante battaglia giudiziaria, pur
di strapparle i sette figli? La donna bellissima, amata dal narciso Curzio Malaparte, che in lei vedeva anche lo strumento per riconquistare la direzione de "La Stampa", da cui era stato cacciato? La mamma attenta e tenera, soprattutto con Giorgio, uno dei sette, tormentato e malato come altri degli Agnelli a venire, cancellato da una morte misteriosa e dall'oblio della famiglia? La diplomatica che, il 10 maggio 1944, alle otto del mattino, promosse l'udienza segretissima tra Pio XII e Karl Wolff, capo delle SS in Italia, per scongiurare la distruzione di Roma da parte dei
tedeschi in ritirata? L'antica nemica che, nella stessa giornata, oliando le ruote cardinalizie di Roma, Milano e Torino, negoziò la futura salvezza del suocero, accusato, dopo il 25 aprile 1945, di essere stato collaborazionista
e fornitore di guerra?
"Virginia Agnelli. Madre e farfalla" s'intitola la biografia firmata da Marina Ripa di Meana e dalla giornalista Gabriella Mecucci (Minerva Edizioni, pagg. 286, euro 19,00), che restituisce, col respiro del romanzo, la breve vita di uno dei personaggi più eterei e inafferrabili di casa Agnelli. Cancellate le tracce, sparite le lettere, rastrellate le
fotografie, acquistata da Gianni, e sepolta in un cassetto, la sceneggiatura del libro "Vestivamo alla marinara", grande successo della sorella Susanna, dove molto si parla dell'intenso rapporto tra Virginia e i suoi figli, le due autrici hanno dovuto compiere un'opera da rabdomanti, cercando, sul filo dell'intuito, e portando alla luce con infinita pazienza, ogni più piccolo indizio, ogni traccia, ogni rimando contenuto nell'opera di storici, giornalisti, nelle memorie di amici.
Ma chi ha fatto scendere il silenzio sulla vita di Virginia? Perché Gianni, che pure provava tenerezza per quella madre bellissima e travolgente, non ne parlava mai e si è adoperato perché nessuno lo facesse? Per paura dello scandalo? Perché la costruzione del suo mito non lasciava spazio ad altri?
Marina Ripa di Meana e Gabriella Mecucci sposano questa tesi e raccontano, molto attraverso le loro debolezze, la storia dei Kennedy italiani, l'unica monarchia accettata dai tempi dell'esilio dei Savoia.
Scandalo c'è e fin da subito nella vita della principessa Virginia Bourbon del Monte, andata sposa ventenne, l'8 giugno 1919, a Edoardo, rampollo di casa Agnelli, di sette anni più vecchio. Matrimonio opportuno, anche se d'amore: lei ha un cognome di altissimo blasone, aristocrazia al soglio
pontificio, per lui il coriaceo padre, senatore Giovanni, aspira alla promozione sociale delle nozze con una fanciulla nobile. Rimane solo una comparsa alla Fiat, Edoardo, cui il padre preferisce Vittorio Valletta, così come alla "Stampa", dove pure presiede il consiglio di amministrazione: la coppia, giovane e dalla vita principesca, si limita a tenere le pubbliche relazioni con la nobiltà romana e con l'aristocrazia piemontese o a trastullarsi con avventure imprenditoriali minori come il lancio della stazione sciistica del Sestriere, Edoardo anche con la Juventus e i primi ingaggi "milionari" degli argentini Orsi e Monti.
Sette figli in quattordici anni, da Clara nel 1920, a Umberto nel 1934, e in mezzo ci sono Gianni, Susanna, Maria Sole, Cristiana e Giorgio, una vita spensierata e mondana, punteggiata da reciproci tradimenti e dagli scandali piccanti che coinvolgono Edoardo. Torino, austera e perbenista, sta stretta a Virginia, prima accolta con curiosità, poi censurata per i suoi modi, il suo accento romano e la sboccataggine, il vezzo di girare nuda per casa e di regalare biancheria intima alle cameriere. Anche il suocero nutre verso di lei un sentimento duplice, di fascinazione per la vitalità e la grazia della farfalla, di fastidio per l'esuberanza impossibile da contenere.
Il 14 luglio 1935, Edoardo, l'erede dell'impero Fiat, muore in un incidente sull'idrovolante, mentre da Forte dei Marmi sta entrando nel porto di Genova. È la svolta drammatica nella vita di Virginia. Di lì a un anno il suocero intraprende contro di lei una battaglia legale durissima e senza esclusione di colpi per l'affidamento di quei sette nipoti di cui fino ad
allora si è poco interessato, arrivando al punto di farli strappare alla madre dalla polizia, nel dicembre 1936, sul treno in sosta alla stazione di Genova. Virginia gli ha messo in mano un'arma formidabile, la relazione con
Curzio Malaparte, allacciata a Forte dei Marmi pochi mesi dopo la morte del marito. Un rapporto di cui si hanno notizie minuziose attraverso le informative dei migliori agenti dell'Ovra, Attilio Dubois ed Ezio Attieri, personaggi abili e di alta estrazione sociale, che non hanno problemi a infilarsi negli stessi ambienti dei due amanti e a riferirne ogni mossa al capo della polizia Arturo Bocchini, interessato direttamente dal senatore Agnelli. Virginia, che a Torino è perseguitata dalle maldicenze e considerata una sorta di Messalina, a Forte dei Marmi può vivere liberamente la sua passione. Malaparte, innamorato di se stesso, dei soldi e della carriera,
più che delle donne, che anche sessualmente avvicina in modo scostante e poco focoso, tuttavia si fa prendere dalla fulva vedova Agnelli, la nuora di quell'uomo che l'ha cacciato su due piedi dalla "Stampa" per conflitti con l'amministratore delegato: «Malaparte, qui dentro ci sono i soldi della
liquidazione; li prenda e, per favore, mi restituisca la busta», gli aveva detto il senatore Giovanni, mettendogli in mano una buonuscita d'oro, un milione di lire, c'è chi dice tre. Chissà che ora, attraverso Virginia, non possa riavere il posto e il ruolo.
Si arriva a un passo dalle nozze nel duomo di Pisa, a un anno esatto dalla fine del lutto. Ma al senatore la liaison non piace. Sono mesi di battaglie legali, di figli trascinati da Roma a Torino, di scontri sulla competenza dei giudici, di episodi surreali come il "rapimento" di Gianni da parte del
precettore, di colpi bassi. Virginia, che a differenza di altre
aristocratiche non ha mai indossato una divisa ma che è la madre di sette ragazzi e per questo premiata dal regime, chiede udienza al Duce. E il Duce si schiera con lei, soprattutto contro la protervia di un industriale che a
Torino manovra i giudici e usa con spregiudicatezza persino i vertici dell'Ovra.
Il grande conflitto si chiude con un accordo tra suocero e nuora, favorito in particolare da Gianni, che mai smette di perorare la causa della madre. A lei rimangono i figli, ma deve rinunciare a Malaparte. Ha trentotto anni, è bella, sensuale, gli uomini le cadono ai piedi. In Costa Azzurra, dove tutti vanno in vacanza dopo la tregua col nonno, gira in bikini e prende il sole nuda. Raccontano che una sera del 1942, a tavola con un gruppo di amici, qualcuno le mostra una foto di Malaparte che esce dalla sauna coperto solo
da un ramo di betulla. «Si è invecchiato anche lui» commenta Virginia, alludendo con tenerezza all'antica intimità e prendendone insieme le distanze.
Come per Edoardo, Forte dei Marmi è la stazione di partenza e di arrivo dell'ultimo viaggio. VIrginia muore il 21 novembre 1945, a 46 anni, in un incidente di macchina tra Livorno e Pisa, nella pineta di San Rossore Migliarino, quando la Fiat 1500 su cui viaggia verso l'amata casa al mare si scontra con un camion miliare americano. Suo figlio Gianni è entrato nel
consiglio di amministrazione della Fiat, la sua nipotina Ira, l'unica che conoscerà, figlia della primogenita Clara e del principe Tassilo von Furstenberg, ha ormai cinque anni. L'anno prima, insieme al colonnello Eugen Dollman, il diplomatico che fa da intermediario tra le SS e Mussolini, ha
concertato "l'operazione Farnese", l'incontro tra papa Pio XII e il capo della polizia tedesca in Italia, Karl Wolff, per salvare la capitale.

Come nella battaglia contro il suocero, la farfalla ha rivelato forza, abilità e intelligenza. E come con grazia ha attraversato la vita, così è entrata nella storia.
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Virginia Agnelli