martedì 22 gennaio 2013

MODA & MODI

Dan Stevens, da Downton Abbey a GQ

 
Dan Stevens and Michelle Dockery in Downton Abbey (foto Giles Keyte)

L'attore Dan Stevens, che ha di recente lasciato orfane migliaia di fan di Downton Abbey, incoronato dall'edizione inglese della rivista GQ come l'uomo meglio vestito del Regno Unito. Uno spot teneramente fané che gira nella radio italiana: dopo tanti anni, abbiamo sempre un debole per l'uomo in lebole. Titoli e definizioni nei reportage dalle recenti sfilate maschili di Pitti a Firenze: gentlemen con ironia, dandy rilassato, voglia di smoking. Sono indizi diversi che concorrono a suggerire una direzione della moda maschile più rilassata, eccentricamente demodé più che di moda, meno rigida e pompata. E si parla di tessuti, ma anche di corpi, che si sgonfiano come palloncini sforacchiati, per ritrovare naturalezza e compostezza.
Indizi contrastanti, qualcuno obietterà. "Tweedy" Stevens, come lo chiamano i detrattori, piace per il personaggio che lo ha reso celebre, l'avvocato Matthew Crawley, che salva magione e donzella in bancarotta. Quanto a lui, Dan in carne è ossa, più che elegante è prevedibile, mai un capello fuori posto, completo e cravatta ad ogni occasione, come un funzionario di lusso senza fantasia.
Lebole? Solidità e qualità imprenditoriale italiana, ma, di nuovo, un'eleganza quieta e rassicurante, seriale, senza ghiribizzi e colpi di testa. I titoli dei giornali, poi, cercano lo slogan per catturare l'attenzione su un soggetto, le collezioni uomo appunto, dove tacchi e scollature non fungono da succedaneo per occhi e testa
Tre indizi univoci, però, conducono sempre a una prova. Matrice british, è certo. Piaccia o no Dan, l'uomo si copre di rivisitati tessuti d'archivio, tweed, tartan, suede, principe di Galles, spina di pesce, in materiali che ne esaltano colori e morbidezza, come il cachmere. Il gilet è il pezzo forte della stagione, insieme alle giacche di flanella o di lana doppiata, quasi da "camera". La tecnologia dei tessuti è al servizio della figura: la accompagna, la sottolinea, ne smussa gli angoli. Non sono più gli executive anni '60 di "Mad Men", sempre un po' azzimati, ma gentiluomini di campagna che passano dai tessuti nobili di giorno alla dinner jacket senza sbavare. "Comeback" del montgomery, in panno o lana cotta, con i tradizionalissimi alamari di corda o legno. In ogni guardaroba: cappello, catenelle per l'orologio, loden che assomigliano a kimono o cappotti col vezzo del collo di astrakan e uno smoking tech. La parola chiave è equilibrio: le trame si appoggiano su un corpo dove ogni additivo, dai pettorali posticci al gettonatissimo botox , è surreale.
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Dan Stevens in Downton Abbey

lunedì 21 gennaio 2013

IL LIBRO

La fabbrica delle celeb, da Baudelaire a Lady Gaga


 
La scrittrice Nancy Cunard (1896-1965)





 Kate Moss, volto e corpo dell'«heroin-chic»: regina delle tendenze anche dopo la foto mentre sniffa coca. Madonna sigillata nel bustier dalle coppe a imbuto di Jean-Paul Gaultier, per il Blond Ambition World Tour del 1990. Amy Winehouse con gli occhi bistrati e la pettinatura da schiava romana, riproposta in fotocopia da Karl Lagerfeld sulla passerella di Chanel. Sarah Jessica Parker e il Cosmo-style di Manhattan in Sex&TheCity, ancora stra-citata dopo ben sei stagioni tv, implacabilmente replicate, e due film dimenticabili. Lady Gaga, star del travestimento kitsch, così potente e trasgressiva da ispirare una collezione di Victoria's Secret, lingerie osé per tutte le tasche made in Taiwan. E poi lui, il modello serbo Andrej Pejić l'«ibrido meraviglioso tra Brigitte Bardot e David Bowie», che passa dalle passerelle maschili a quelle femminili con la sua perfezione senza sesso: immagine di un'epoca, per scomodare il sociologo Zygmunt Bauman, in cui i confini si liquefanno, anche tra maschile e femminile.

 
Il modello Andrej Pejić


Cantanti, top-model, attrici, performer. Tutti con una caratteristica in comune: l'essere icona. Dopo cinema e moda, grandi serbatoi di immagini per buona parte del '900, vedi i binomi Audrey Hepburn e Givenchy o Grace Kelly nel "new look" di Christian Dior, oggi sono i riflettori di passerelle e palcoscenici a offrire un monumentale catalogo di trucchi, abiti, pose, atteggiamenti da imitare. In una parola: inspirational.
"Patterns of culture" le definisce il filosofo Edgar Morin, ovvero le star come modelli culturali, che fanno e impongono tendenze, influenzano gli stilisti, adottano gli street-style e li fanno diventare di massa. Nel 2008, Lagerfeld ha tratto spunto da Amy la maledetta e, nello stesso anno, la cantante, "riprodotta" con parrucca e un'asfaltatura di eye-liner dalla modella Isabeli Fontana, è finita sulla copertina di Vogue France. Dolce & Gabbana sono stati conquistati dal fascino dorato di Marilyn per la collezione del 2009, 
è andato ancora più indietro, scegliendo un'immortale e altera Katharine Hepburn.
Un tempo gli atelier fotografici, oggi la rete. L'icona nasce con la riproducibilità dell'immagine, a beneficio dei fan. L'"influencer" più nuova viaggia on-line, a opera di smanettatori scatenati che rilanciano planetariamente accessori e outfit, non sempre di buon gusto. Anna Dello Russo, giornalista di moda di lungo corso, ex direttrice di Vogue Uomo e consulente creativa di Vogue Giappone, è diventata solo di recente fenomeno di massa grazie alle sue foto rilanciate sui social network dai blogger appostati fuori dalle sfilate. Stylist di se stessa, si cambia in auto tra una passerella e l'altra, per farsi immortalare in continue puntate del reality modaiolo digitale. Lo facevano, in fondo, anche le dame e le principesse romane per attirare l'attenzione di Gabriele D'Annunzio e guadagnarsi così l'agognata citazione sulle sue cronache mondane per la "Tribuna".


 
Anna Dello Russo



L'immagine è sempre all'origine del mito. Lo racconta Federica Muzzarelli, docente di Fotografia e cultura visuale all'Università di Bologna, nel suo saggio "Moderne icone di moda" (Einaudi, pagg. 244, euro 20,00), dove, attraverso l'analisi di alcune "fashion mass icons" - l'attrice Cléo de Mérode, il poeta Baudelaire, il ballerino Vaslav Nijinsky, la scrittrice ribelle e "negrophile" Nancy Cunard, la fotografa e autrice di reportage Annemarie Schwarzenbach, prima crossgender di fama, l'eccentrico snob D'Annunzio, fashion blogger ante litteram - in un continuo rimando tra divismo di ieri e di oggi, indaga come nasce la star. In una società, spiegano i saggi di Guy Debord e Jean Baudrillard, il cui l'immagine vale più della realtà stessa e per la quale l'immagine di massa costituisce la principale merce di scambio. I sei personaggi indagati hanno lanciato tendenze - nero, esotismo, feticismo, eccentricità, sesso incerto - che moda e showbiz saccheggiano ancora.

 
Annemarie Schwarzenbach


All'alba del divismo pop e agli albori del '900 c'è l'immagine di Cléo de Mérode, la prima a sfruttare l'era fotografica per diventare fenomeno collettivo. Non è nè intensissima nè dotatissima sul palcoscenico, ma sa giocare coi feticci: una catenella legata più volte intorno al collo diventa elemento di riconoscibilità sul grande pubblico e richiamo sessuale, come molti "body-pieces" che Lady Gaga utilizza nelle sue performance. In un'epoca che ama i capelli gonfi, Cléo se li acconcia a bande piatte sul davanti per poi raccoglierli in trecce basse sulla nuca: come la cotonatura della Bardot, la testolina di Twiggy, l'alveare della Winehouse, la massa color miele di Farrah Fawcett in Charlie's Angels, i capelli sono veicolo di immaginario erotico e potente strumento di desiderio. Il viso e il vitino di vespa di Cléo finiscono su calendari, cartoline, scatole di sigari, sigarette e altri gadget pubblicitari, in un trionfo iconico, favorito dalla riproduzione meccanica delle foto.


 
Cléo de Mérode


"Celeb" prima che la parola diventasse di moda? Certamente due narcisisti come Charles Baudelaire, total black icon, e Nancy Cunard, scrittrice inglese paladina dei diritti civili dei neri e dell'african-style: entrambi sono ben consapevoli dell'impatto che i loro look hanno su fan e adoratori. Lui coltiva il suo dandysmo maniacalmente, ossessionato da abiti e trucco, lei gira con bracciali d'avorio fino alle ascelle, manipolando i media che impazziscono per la sua immagine di donna fatale e sessualmente disinibita. Entrambi, diremmo oggi, dei performer.
L'immagine, e la sua moltiplicazione, ha costruito il mito anche di Annemarie Schwarzenbach, vissuta tra il 1908 e il 1942, l'ispiratrice della prima collezione di prêt-à-porter di Antonio Marras che la scopre attraverso "Lei così amata", il bel libro di Melania Mazzucco. «Strano miscuglio di uomo e di donna... non un essere vivente, ma un'opera d'arte», ha detto della Schwarzenbach la fotografa Marianne Breslauer, che le scatta un famoso ritratto a Berlino nel 1933.
Prolifica e ricca scrittrice svizzera, sempre in abiti maschili, tormentata e drogata, Annemarie è fotografa lei stessa e quindi ben conscia della potenza dei mezzi di comunicazione visiva: il suo stile lesbo-chic, ancora una miniera per stilisti e designer, ha segnato il modernismo visivo del '900.
Tanto più che la confusione dei generi e l'iconografia transgender, di cui oggi è testimonial il sublime modello Andrej
Pejić, continuano a suggestionare la moda. Come per la viaggiatrice Annemarie, anche per lui, nato a Tuzla da madre serba e padre croato, emigrato a Melbourne con la famiglia per chiedere asilo politico e infine naturalizzato australiano, lo sconfinamento geografico ne suggerisce un altro: quello tra i due sessi.
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Federica Muzzarelli

sabato 19 gennaio 2013

IL LIBRO

Tania Kindersley e Sarah Vine: indietro tutta, sui tacchi a spillo

Ginger Rogers faceva tutto quel che faceva Fred Astaire. Solo, all'indietro e sui tacchi a spillo. Sarah Bernhardt aveva una gamba di legno e ciò non le impedì di diventare la migliore attrice del suo tempo. Diane Keaton, Rita Levi Montalcini, Germaine Green, Condoleezza Rice sono riuscite a diventare famose pur rimanendo risolutamente single. Anzi, per dirla con la scrittrice americana Djuna Barnes, voce autorevole della letteratura tra gli anni Venti e Trenta: «Non potremi mai sentirmi sola, se non avessi un marito».
In sostanza: anche se le donne hanno spesso capacità superiori agli uomini e nessun bisogno di mettersene uno al fianco, il mondo continua a essere un posto non ideale per loro. E non è si tratta di essere "femministe", ma di avere una serena certezza del proprio ruolo, perchè, citando le parole di un'altra scrittrice, Rebecca West (che potrebbero essere un'ottima risposta alla definizione di "giudicesse femministe e comuniste" di Berlusconi dopo la batosta degli appannaggi alla ex Veronica): «Io non sono mai riuscita a capire esattamente che cosa sia il femminismo: so soltanto che mi danno della femminista ogni volta che esprimo sentimenti tali da distinguermi sia da uno zerbino sia da una prostituta».

Ginger Rogers e Fred Astaire (ph. lesiconesdu7art)
Tania Kindersley scrittrice e collaboratrice di "Times", "Guardian" e "The Spectator" e Sarah Vine, collega del "Times", hanno deciso di mettere nero su bianco "l'impossibile arte di essere donne", come recita il sottotitolo del loro gustosissimo "All'indietro sui tacchi a spillo" (Einaudi Stile Libero, pagg. 370, euro 19,00), assolutamente non un libro di auto-aiuto nè un manuale di istruzioni per fare felice il proprio uomo, rendere i capelli più lucidi o perdere peso. È piuttosto l'equivalente di una leggera eppure profonda conversazione tra donne, quando si cerca di aiutare un'amica che ha bisogno di rimettere insieme i propri pezzi o solo di capire, insieme, dove si sta andando. Le due hanno un obiettivo dichiarato: fare sentire alle lettrici che hanno ragione, con tutta la loro complessità e le loro contraddizioni. «Perchè nel mondo - proclamano - esistono industrie su industrie il cui unico scopo è di insistere sul fatto che voi, in quanto donne, in un modo o nell'altro avete torto; e noi ne abbiamo le tasche piene. Siamo verdi di rabbia e non abbiamo nessuna intenzione di continuare a sopportare».
A cominciare dal lavoro e della supposta inadeguatezza femminile a organizzare i tempi, su cui si sprecano fiumi di carta: "Devo ancora sentire un uomo chiedere consiglio su come conciliare il matrimonio e la carriera", suggerisce di tenere a mente Gloria Steinem, giornalista e punto di riferimento delle femministe americane negli anni '60-70. O dal luogo comune sul fatto che le donne non abbiano mai mandato avanti l'umanità. E Susan Mather, che inventò il telescopio marino nel 1845? E Josephine Cochrane, che portò la prima lavastoviglie del mondo all'Esposizione universale nel 1893, dopo aver esclamato «Se nessun altro ci pensa, la invento io". E la bellissima Hedy Lamarr che, oltre ad aver corso nuda in un bosco nel film "Estasi" del 1933, inventò un sistema per guidare i siluri grazie a una tecnica detta salto di frequenza? L'esercito americano la snobbò, consigliandole di dedicarsi a occupazioni più acconce al genere femminile belloccio, quali intrattenere le truppe vendendo baci a cinquantamila dollari l'uno, per promuovere la sottoscrizione dei titoli di guerra. Quando il famoso salto di frequenza venne rispolverato, negli anni Cinquanta, formò la base per l'espansione della tecnologia che oggi rende possibili cellulari e internet. Fa bene all'autostima di tutte, ricordare che quando mandiamo un sms o riceviamo una e-mail lo dobbiamo a una ragazza che, nel 1933, corse nuda in un bosco. 

Hedy Lamarr (ph. The Skibbereen Eagle)
Dall'amore al sesso, dal lavoro al denaro, dalla politica alla salute, passando per maternità, soldi, politica, il libro analizza tutte le opzioni che ogni donna ha nella vita di ogni giorno, senza dare consigli, ma cercando di infondere una robusta fiducia nella bontà della scelta fatta, qualsiasi essa sia.
Prendiamo la moda. Malgrado sia pazzerella e tenti in tutti i modi di convincerci a galoppare per la città su tacchi dodici, non è detto che non sia divertente, sempre se si impara a interpretarla nel modo giusto. In fondo, quando negli anni '50 si affermò il New Look di Dior, i critici prendevano di mira le gonne larghe e a ruota e la follia di sprecare metri e metri di tessuto quando vigeva ancora il razionamento dei tessuti. Per molte donne, però, dopo gli anni di restrizioni e di mortificazioni della guerra, un abito gonfio con la vita da togliere il fiato, rappresentava un'indispensabile boccata di femminilità e frivolezza. Così, anche se non avevano mai sentito nominare la rue du Faubourg Saint-Honoré e anche se non avrebbero mai bevuto un martini al Ritz, si sedevano alla macchina da cucire del loro salotto e creavano modelli identici a quelli francesi.
Il New Look di Christian Dior
 

E l'emancipazione? Non per forza ha a che fare con lo stereotipo idiota della coltivazione dei peli sotto le ascelle. Ci si può fare la ceretta ed esfoliare in allegria pur essendo radicali. Perchè - concludono Kindersley e Vine - curando il proprio aspetto non si tradiscono le sorelle. Le si tradisce credendo che una donna sia solo tacchi a spillo. E non sappia nemmeno camminarci all'indietro.


La copertina del libro di Kindersley e Vine (Einaudi)
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martedì 8 gennaio 2013

MODA & MODI

Scarpette rosse ad Arcore

Quelle della favola di Andersen hanno un che di sinistro e di malvagio: non ci si può liberare di loro nemmeno tagliandosi i piedi . Continuano a ballare follemente e a prendersi gioco della malcapitata fanciulla, che così tanto le aveva adorate da mentire e tradire pur di continuare a indossarle.
La fiaba è splatter, con l'immagine di quelle maligne calzature che se ne vanno in giro da sole, perseguitando e comandando a bacchetta la proprietaria, ma il messaggio meta-fashionista supera il tempo e alla morale: le scarpette rosse sono irresistibili, una volta che le hai calzate sono loro a menare la danza, a catturare l'attenzione e a pretendere che tutto il resto, abbigliamento e accessori, si inchini alle estremità. Perchè è lì che si appoggiano gli sguardi, come attratti da una calamita.
Altissime o raso terra, con plateau o stringhe bondage, coperte di strass o infiocchettate, ci hanno permesso di attraversare le feste con una pennellata di energia e scavalcare d'un balzo - tipo Gatto con gli stivali, per restare in tema di fiabe - tutti i "crash" e i "cliff" economici e fiscali di fine anno. Depositandoci, sui loro tacchi e tacchetti, in un 2013 tutto da esplorare (e da mettere sotto i piedi).
Mentre l'intimo trash beneaugurante penzola triste dalle vetrine dei saldi, sapendo di avere le ore contate prima di finire in magazzino in attesa del prossimo Capodanno, le scarpe rosse, molte create dai brand apposta per Natale e dintorni, dimostrano di sapersi adattare perfettamente ai vestiti di tutti i giorni. A parte il total red, da evitare per non sembrare un abete addobbato, si sposano con i neri e i grigi, elettrizzano i nocciola e i polvere, danno un guizzo di vita perfino ai diplomatici blu. Ai due estremi opposti : per una sera incendiaria, i "gioielli" di Louboutin, dove il rosso finalmente sconfina dal perimetro della suola e si arrampica su sandali inarrivabili di suede con plateau. E le Ugg, questa volta non calzari da puffo, ma spiritose "papuzze" in lana tricot con pop pon, per una domesticissima sera al rosso brandy.
Le scarpette rosse hanno una natura mutevole, dipende dallo spirito e dalle occasioni. Sono combattive, come le centinaia distribuite nell'installazione alle Colonne di San Lorenzo a Milano contro la violenza alle donne. O trionfanti ai piedi di Francesca Pascale, bianca come uno spumone natalizio, per il primo ingresso da favorita ad Arcore. Sempre favola è, anche questa splatter.
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Francesca Pascale

IL LIBRO

Gianni Versace: Mutatiónx a Trieste, una prima per l'ultima passerella

Fu un omaggio postumo e anche l'ultima, spettacolare passerella di Gianni Versace. Era il 7 febbraio 1998 e al Teatro Verdi di Trieste debuttava, in prima mondiale, "Mutatiónx", il nuovo balletto di Maurice Béjart con i costumi che lo stilista calabrese aveva iniziato a disegnare prima del suo assassinio.

"Mutatiónx" di Maurice Béjart al teatro Verdi di Trieste con i costumi di Gianni Versace
Non erano trascorsi nemmeno sette mesi da quel 15 luglio 1997, quando Versace fu freddato con due colpi di pistola da Andrew Cunanan, alle 8.30 del mattino, sui gradini di Casa Casuarina, la sua villa di Miami. In quella torrida estate in Florida, i costumi per l'amico Béjart erano ancora solo dei bozzetti, ma dopo l'omicidio di Gianni i fratelli Santo e Donatella, insieme al compagno dello stilista Antonio D'Amico, e a tutto l'atelier Versace, avevano deciso di portare a compimento il lavoro iniziato, di trasformarli in abiti di scena.
Trieste fu la cornice di quel tributo alla memoria. Sul palcoscenico del Teatro Verdi, scenario del debutto internazionale del balletto e dell'unica tappa italiana, davanti a Santo arrivato per l'occasione, i danzatori si muovevano in tute di latex nero con tagli futuribili, che scoprivano pezzi di pelle e di colore, e in pepli assimmetrici dalle tinte violente. Quasi profeticamente nei confronti del destino dell'amico sarto, Béjart immagina gli ultimi momenti dell'umanità sulla Terra, quando un manipolo di sopravvissuti alle guerre e alle devastazioni ecologiche, prima di imbarcarsi su un'astronave e lasciare il pianeta, danza il commiato da quello che una volta fu un paradiso terrestre.
La sintonia tra il coreografo e lo stilista è assoluta: costumi aggressivi e tinte fosche per rappresentare l'angoscia per la distruzione dell'ambiente e il destino degli umani, poi il trionfo del colore e una sottoveste trasparente percorsa da applicazioni preziose e filiformi per la speranza che rinasce, come un fiore. «Gianni Versace - disse Béjart - ritaglia sete trasparenti, applica invisibili merletti su pieghe talmente nascoste che solo lui ed io le vedremo... ma nella costruzione artistica è proprio quello che non si vede che fa il capolavoro, è l'inutile che è indispensabile». 


 
"Mutatiónx a Trieste



Fu nella sartoria della mamma Franca, in via Domenico Muratori a Reggio Calabria, che Gianni capì, giovanissimo, quale sarebbe stata la sua strada: la moda e anche la moda pensata per il teatro. Lo racconta il giornalista Tony Di Corcia nel volume "Gianni Versace. La biografia" (pagg. 294, euro 24,00), uscito di recente per i tipi di Lindau, nel quindicesimo anniversario dell'assassinio. Un volume, con un'efficace cronologia conclusiva, che ricostruisce nel dettaglio la carriera dello stilista, soffermandosi anche su quella "parallela" di costumista.
I due ambiti e ambienti si incrociarono, si influenzarono, si scambiarono spunti e idee. Come testimoniò Franco Maria Ricci, l'editore del raffinato "Versace teatro", stampato nel 1987 in edizione limitata di 4.000 copie, quasi un sigillo all'attività del "profano" che aveva osato accostarsi alla sacralità della scena: «La grandezza di Versace come costumista è stata quella di portare la moda in teatro senza fare moda».
Già all'inizio della sua avventura tra le stoffe, c'è qualcosa di teatrale: la meraviglia, la sorpresa, il senso di trepidazione e di aspettativa legato al palcoscenico. A nove anni, un bambino vivacissimo, dagli occhi scuri, se ne sta nascosto dietro la tenda rossa che separa il laboratorio della sartoria dalla sala prove e assiste alla visione che gli cambierà la vita. Sua mamma sta drappeggiando metri di velluto nero sul corpo di una cliente e Gianni ne anticipa le mosse: ora accorcerà un poco il davanti, pensa, e poi darà alla stoffa quella particolare linea. Madre e figlio, separati ma in simbiosi, stanno creando lo stesso vestito nero, quello che per lui diventerà mito, archetipo, l'evento fondante della sua passione, per sempre «l'abito della memoria».
Molti anni più tardi, ormai stilista acclamato per le sue innovazioni, il preferito da Lady D e Madonna, Gianni si ispirerà a quella memoria domestica per il costume della Morte Torchon nello spettacolo "Malraux, ou la métamorphose des Dieux" firmato da Béjart nel 1986, e lo stesso vestito aprirà la mostra al Castello Sforzesco di Milano, nel 1989, intitolata "L'abito per pensare".
I primi costumi Versace furono per il balletto "Josephslegende" alla Scala, con Luciana Savignano e Joseph Russillo. Una sfida: quell'atto unico era stato creato da Richard Strauss per i Balletti Russi di Diaghilev e portato sulla scena da Nijinsky "vestito" da León Bakst.
La diffidenza degli ortodossi dell'abito di scena verso l'intruso Versace era forte, mentre i ballerini accolsero la novità con entusiasmo. Ricorda la Savignano, che venne anche a Trieste, nella serata dell'ultimo omaggio all'amico: «Il dono di Gianni era la consapevolezza del fatto che per un danzatore l'abito è uno stupendo mezzo per esaltare il corpo e il movimento».
Due anni dopo, nell'84, l'incontro con Maurice Béjart e l'inizio di un profondo legame artistico e umano: "Dyonisos", "Malraux", "Leda e il cigno", "Le notti bianche della danza", trasmesse in mondovisione dalla Russia, "Souvenir de Léningrad", con cui, il 21 dicembre 1987, debuttò la nuova compagnia di Béjart, il Ballet Lausanne. E poi "Sissi, l'imperatrice anarchica" Evita Perón e Mishima, "Pyramide". «Béjart è forse l'unico al mondo capace di far ballare un abito - disse Versace - creando movimenti indimenticabili per dargli vita, facendolo diventare un'estensione del corpo. Con Maurice sarò sempre pronto a ricominciare».
Versace lavorò con altri "mostri", tra cui Bob Wilson e Roland Petit, ma il sodalizio con Béjart durò fino alla sua morte. Anzi, attraverso "Mutatiónx", andò oltre: il 25 giugno '97, un mese prima dell'assassinio, Versace e Béjart erano al Giardino dei Boboli di Firenze per "Barocco Belcanto". 


 Nel luglio del '98, il coreografo ammirò per l'ultima volta a Trieste le invenzioni dell'amico sui suoi ballerini.
 "Mutatiónx" di Maurice Béjart
Quella di Versace nel teatro non fu un'incursione. Per la prima volta uno stilista entrava nella confezione di uno spettacolo con scelte estetiche così autorevoli e forti da stare alla pari di quelle musicali e registiche.
Fu una sorta di rivoluzione, a lungo osteggiata. Il celebre costumista Piero Tosi - che aveva "tollerato" le pellicce di Fendi sugli abiti da lui disegnati per "La storia vera della Signora delle Camelie" e "Traviata" di Mauro Bolognini - gli dirà: «Ti sforzi per fare costumi teatrali, ma non illuderti: passerai alla storia solo per le tue creazioni di moda. Tra cento anni, per capire gli anni Ottanta prenderanno i tuoi tailleur, le tue collezioni, non i tuoi costumi per il teatro».
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Gianni Versace