martedì 18 giugno 2013

MODA & MODI

Isabella e Diana, per sempre immettibili
L'abito di Alexander McQueen "adattato" per Isabella Blow


Pesantissimo, al punto da non poter essere indossato. La sua proprietaria, che pur l'aveva voluto così, senza le spalline necessarie a sostenerlo, finì per liberarsene, "passandolo" alla sua assistente. Un abito non abito, un'installazione per manichino tempestata di pietre verde acido su una gonna di crine di cavallo.
Era nato infelice almeno quanto la donna che lo commissionò, il modello creato da Alexander McQueen per la sua "scopritrice" e musa, Isabella Blow, morta suicida nel 2008, due anni prima di lui. Giovedì va all'asta a Londra e ci si aspetta che possa essere venduto a una cifra record, tra le 25 e le 35 mila sterline, perché è uno dei pochi capi sfuggiti all'acquisto in blocco del guardaroba di Isabella, Izzy, da parte dell'ereditiera Daphne Guinness che, insieme a un eccezionale patrimonio di moda, forse ha creduto di assicurarsi anche la visionarietà da cui è nato. La creazione di McQueen faceva parte della collezione autunno-inverno 2000-2001 intitolata "Eshu" e ispirata al popolo Yoruba di Benin e Nigeria. Il modello originale prevedeva un collo alto, che equilibrava il tutto, ma Isabella aveva ordinato al suo pupillo una "variante" con le spalle libere. Immettibile o mettibile solo da lei, forse solo una volta.
All'asta, nella stessa "Passion for Fashion" alla Kerry Taylor Auctions, andranno altre memorabilia di un'altra icona, di un'epoca in cui questa parola non equivaleva a socialite, blogger, famose per essere famose, ereditiere. Si vende la giacca da marinaio di lana blu di Diana Vreeland, la "fashion editor" che ha cambiato per sempre il modo di proporre la moda in Harper's Bazaar e Vogue, e poi quella stessa moda immaginifica ed esorbitante, soprattutto nei costi, ha portato nelle mostre al Metropolitan Museum di New York, di cui fu consulente. La giacca blu gliela disegnò Yves Saint Laurent e sul collo è appoggiato un micro ritaglio di nastro rosso, simbolo della Legion d'onore che le conferì la Francia per i servizi resi alla couture, di cui era fierissima. In vendita c'è anche un altro YSL, velluto da sera impreziosito da pesanti decorazioni, che Diana chiese allo stilista per la vernice della mostra "Royal India" al Met, nell'85, quattro anni prima di morire.
Storia di muse e di favoriti. Di amicizie viscerali e di capi immaginati per una persona sola, e solo quella, di cui mantengono l'impronta contro ogni passaggio di mano. Dopodomani saranno venduti e finiranno a penzolare negli armadi di qualche collezionista. Vintage che non avrà mai una seconda vita. Immettibili, per sempre.
twitter@boria_a
MODA & MODI

De and Down

Accumulatori seriali nel programma di Real Time


"
Decluttering", liberarsi del superfluo che ci circonda e ci zavorra.  "Downsizing", riaccomodarci in spazi più piccoli e funzionali. "Downshifting", decelerare il ritmo lavorativo. "De" e down", prefissi tornati di moda al tempo della de-crescita, come i vocaboli che in un articolo del Financial Times ci invitano a interrogarci su quanto ci è effettivamente necessario e quanto semplicemente accatastiamo. Perfino in televisione, tempio dell'eccesso per eccellenza, la nuova frontiera dei tutorial è chiamare esperti che aiutino gli accumulatori compulsivi a svuotare salotti o cantine e a recuperare spazio e serenità. Meno cose in giro, più libertà di respirare e tempo per se stessi, da sottrarre risolutamente alle cose.
La tendenza è tendere al minimal, anche nell'abbigliamento. Guardarsi allo specchio e togliere qualcosa, senza esitazione, per "recuperare" una delle citazioni storiche di Chanel. "Impilarsi" addosso i capi e gli accessori stride con quanto si respira in giro. De-pressione, senza lasciarsi cadere nella depressione.
Via a sgomberare (o al frenarsi dal riempire) il guardaroba, allora, cominciando dalle scarpe, prime fra tutte quelle la cui incongruità è quella che più si nota nel caldo finalmente in arrivo. Niente stivali estivi, da squaw o da cowgirl urbana: occupano "fisicamente" spazio e de-pennarli dalla lista significa, in un colpo solo, fare "downsizing" e "decluttering", oltre che evitare la terribile camminata zoccolante, che è poi un benefico "down" acustico. Nella categoria, rientrano i sandali da schiava, che vanno e vengono da un paio di stagioni: se il bello dell'estate è mostrare le gambe, abbronzate o meno, che senso ha insaccarle in un surplus di lacci? E per restare in zona piede, "delete" cavigliere e sandalucci tintinnanti. Spopolano le "slippers", le anonime ciabatte da casa riconvertite in accessorio modaiolo: basse, pratiche, colorate, meno impegnative di una selva di stiletto anche quando si tratta di fare le valigie.
E i vestiti? Alcune vetrine emanano calore: canotte su canotte su sciarpe su leggings, ormai a tutti gli effetti "calze" da infilare sotto qualsiasi cosa, anche shorts e micro-abiti (come a dire: ho coraggio di mettermeli ma non fino in fondo, il che, nella maggior parte dei casi, aggiunge bruttezza a bruttezza).
È l'estate dei colori netti, delle geometrie, delle fantasie discrete. "Deduzione" fa rima con semplificazione.

twitter@boria_a

mercoledì 12 giugno 2013

IL LIBRO
Daria Cozzi: quattro giorni tre notti per dire addio

Bastano quattro giorni e tre notti per staccarsi dal proprio uomo? Per dire addio alla vita presente e ripercorrere quella trascorsa, giorno dopo giorno fino a lui, all'incontro che quella vita ha cambiato, e per sempre? Adesso, Vittorio, sta morendo in un letto del General Hospital di Singapore, fulminato da un'emorragia cerebrale durante una vacanza. E lei, Daria, devastata, chiusa nella bolla del suo strazio, vede sgranarsi davanti ai monitor ogni minuto che rimane al suo compagno, accompagnandone il respiro con un lungo racconto. È uno scorrere lento di parole, un canto muto, un mantra, un modo per separarsi senza strappi, senza il clic dell'interruttore che oscura la macchina, per preparare con delicatezza il passaggio e, alla fine, per fare del dolore di chi resta una terra fertile, su cui sarà possibile crescere ancora, anche se non più insieme.
"Quattro giorni tre notti" è il titolo del primo libro della triestina Daria Cozzi (Pendragon, pagg. 189, euro 14,00) . Il sottotitolo lo dice, ma non è necessario: una storia vera. La sua, la loro. Un uomo e una donna che si incrociano in un momento delle loro rispettive vite, già piene di altri incontri, di esperienze e dolori. Vittorio ha un figlio piccolo e il ricordo della moglie, portata via, per uno di quegli sberleffi del destino, dalla stessa emorragia che, dieci anni dopo, farà lo stesso con lui. Daria ha una figlia già cresciuta, alle spalle un matrimonio iniziato e finito presto, tanti lavori diversi ma soprattutto un lavoro ininterrotto dentro e con se stessa, per sintonizzare corpo e mente, per cercare di raggiungere quelle parti insondabili dove ognuno di noi custodisce vitalità, forze, risorse.
Il libro racconta come arrivarci a quelle risorse, come imparare e a conoscerle e farle crescere. Attraverso le persone che amiamo e che condividono con noi un pezzo di strada, attraverso le letture, i viaggi, la disponibilità a mettersi in gioco, ma anche la casualità della vita. Quella che magari ti fa entrare, col tuo catalogo di rappresentante di fotocopiatrici in mano, nell'ufficio di un'agenzia di onoranze funebri e scoprire che sei davvero capace di venderlo a qualcuno uno di quegli aggeggi. Che nel posto più improbabile, nella situazione più crudelmente assurda in cui il fato ti mette, se vuoi puoi tirare fuori una parte sconosciuta di te e da lì cominciare, ricominciare, a costruire.
Medici e infermiere, delicati e incomprensibili, si danno da fare intorno a Vittorio. In quella stanza di ospedale il tempo e il rumore sono sospesi, mentre fuori corre la vita caotica di Singapore, corrono la vacanza e i sogni di un bambino che non riavrà più suo padre.
E corrono i ricordi, i flashback di Daria, come pagine di diario sfogliate sempre più convulsamente, man mano che la vita si allontana. Dalla prima volta in cui vide Vittorio, l'uomo che rientrava a casa dal funerale della moglie eppure era capace di prendere in braccio il suo bambino, di farlo ridere e giocare: Mattia, che Daria aveva "conosciuto" nella pancia della mamma, preparandola al parto, e che, anni dopo, avrebbe adottato legalmente. Dall'inizio di un amore fino ai quattro giorni e tre notti, fino al conto alla rovescia degli ultimi battiti del cuore, quando la morte li trova sullo stesso letto, Daria e Vittorio, e fa spazio alla certezza che ogni cosa, anche il dolore, ha finalmente il suo posto.


twitter@boria_a
Daria Cozzi con il suo primo libro

domenica 2 giugno 2013

L'INTERVISTA

Irene Cao, con la mia trilogia ho preceduto le Sfumature


 
Irene Cao

 

Prima di tutto, non ditele che saranno le "Cinquanta sfumature" in salsa italiana. Irene Cao, giovane autrice pordenonese esordiente, non teme il confronto e assicura che nella sua, di trilogia, parlerà soprattutto il cuore, prima dei sensi. Ci sarà sesso, ma non sarà l'unica "sfumatura". Intanto, ancora in attesa di arrivare sul mercato, è già un caso editoriale. Il primo libro "Io ti guardo" (Rizzoli, pag. 350, al prezzo speciale di lancio di 5 euro), uscirà martedì. Il secondo, "Io ti sento" arriverà il 19 giugno 2013 e il terzo, "Io ti voglio", il 10 luglio (questi ultimi costeranno 14,90). Altissimo il numero di copie già stampato, enorme per una debuttante, segno che la casa editrice punta sul prodotto. «L'altro giorno un editor è venuto a trovarmi per vedere se ero ancora viva», confessa candidamente lei. Che, da un anno a questa parte, vive da reclusa con i suoi protagonisti: Leonardo, chef affascinante, ed Elena, restauratrice. Un triangolo nella vita, prima ancora che nella storia.

Dalle lettere classiche, all'erotismo. Un bel salto, per un'insegnante precaria, con un dottorato in Storia antica, che ha fatto anche la barista, la hostess, la commessa. Proprio mentre era al lavoro in profumeria, gli emissari della Rizzoli sono venuti a stanarla. Per dirle di riprendere in mano la bozza originaria e di trasformarla in qualcos'altro. «Effettivamente è stato un passaggio traumatico - racconta Irene Cao - ma non così immediato come sembra. Tre anni fa avevo scritto un romanzo d'esordio, molto giovanile, rivolto a un pubblico femminile. L'ho mandato in giro, tra lo scetticismo di tutti. Contro ogni pronostico mi ha risposto Rizzoli e mi ha chiesto di lavorarci su. Due capitoli erano piaciuti molto, raccontavano scene di sesso, secondo loro viscerali, profonde. Era il settembre 2012. Di quel libro abbiamo salvato cinquanta pagine, forse meno. Da lì è nata la trilogia».

Quindi è vero che ha preceduto le "Cinquanta sfumature"? «Quando ho iniziato quel mio primo libro, non sapevo nemmeno che esistessero. Poi mi sono sentita in dovere di leggerle, per capire... Lo so che sembra un prodotto creato a tavolino, ma non voglio portarmi dietro a vita il marchio di aver fatto il "doppione". Nei miei libri c'è erotismo, ma anche molto altro, per esempio le componenti del romanzo tipico italiano».

Che cosa c'è di diverso? «Intanto le ambientazioni. Nel primo libro Venezia, nel secondo Roma, dove la protagonista Elena, ritroverà Leonardo, che il destino rimette sulla sua strada. Infine Roma e Stromboli, quando lei, dopo un incidente, lo vede ricomparire in ospedale. Poi c'è la cura che ho cercato di mettere nella psicologia dei personaggi. Tra il primo libro e il secondo, Elena cambia radicalmente, si trova a compiere una scelta, è una donna in bilico tra il fidanzato, Filippo, che rappresenta la certezza, e la passione per Leonardo, dove parlano il corpo e il cuore».

E il sesso?«Anche qui c'è una bella differenza. La componente emozionale prevale. C'è scuotimento dei sensi, non azione meccanica. E poi la protagonista è più adulta, ha trent'anni e le paranoie tipiche di tante donne di questa età, non è una ragazzina ventenne. Io non racconto un triangolo, ci sono tanti altri personaggi che pian piano emergono, con una loro importanza. Per questo spero che i lettori non si fermino al primo libro, altrimenti rischierebbero di non capire».

Non la imbarazza il paragone con E.L. James, l'autrice delle "Sfumature"? «Il paragone verrà fatto, ormai è certo. Cerco di gestirlo e mi fa anche piacere. E.L. James ha il merito di aver "sdoganato" un genere che già esisteva, ma al quale ha avvicinato grandi fette di lettrici, probabilmente non abituate a una lettura di evasione. Non è mica facile "evadere". Anche per me è stata una sfida trovare un registro piacevole, tendevo a virare verso temi cupi. Semplificarsi non è un'operazione semplice».

A lei piacciono le "Sfumature"? «In effetti non sono scritte bene, ma va considerato che noi leggiamo la traduzione. E poi anche la James ha dovuto seguire un filone: è una sceneggiatrice, sceglie il cliquè televisivo. Diciamo che nella trama non si è tanto spesa, dopo un po' si rischia di cadere nella noia».

Nel suo libro ci sono il cibo e il cuoco, che adesso spopolano. Ci ha pensato? «È stata una scelta combattuta. Con gli editor, avevamo pensato a un ballerino, a uno scrittore. Poi ci siamo trovati d'accordo sul cuoco».

Una specie di Cracco? «Per la verità mi sono ispirata a Filippo La Mantia, per tutta la parte siciliana della trilogia. Ho studiato la sua cucina, mi sono documentata a fondo sulle ricette. Ho fatto molte ricerche. Nei libri si parla di arte e di cucina, sono campi in cui non si può improvvisare. Adesso mi auguro che mi invitino a qualche talent di cucina...».

Sulla copertina un'immagine bondage. Ma non c'è sesso "sottomesso"... «Quando l'ho vista, in effetti, ho detto "Mamma mia!". Non mi piace che ci sia violenza nel sesso. È una scelta personale, non condivido certe pratiche. Infatti molte lettrici non hanno amato questa componente, sia nelle "Sfumature" sia nei libri di Indigo Bloome, dove si parla delle donne in toni denigratori. Al contrario, la mia prima preoccupazione era proprio preservare il valore della donna. Non credo che sia necessario passare per questi cliquè per far capire la passione. Sulla copertina del secondo libro c'è una mano, e già dà un altro effetto».

E il titolo? «"Io ti guardo" l'ho scelto io, mi piace. Gli altri due, "Io ti sento" e "Io ti voglio", mi piacciono meno, ma bisognava dare il senso della continuità. "Io ti guardo" significa che il senso della vista è fondamentale per Elena. Lei è ubriacata dai suoi occhi, vede tutto solo attraverso di essi, mentre sarà Leonardo a insegnarle che esistono anche gli altri sensi».

C'è un filo di speranza per questo amore tormentato? «Un filo c'è, anche più di uno. Me le vedo le mie lettrici, d'estate, che hanno voglia di sognare e di essere felici. Poco fa rileggevo le bozze del secondo libro e mi scappava quasi la lacrimuccia. Ma l'amore trionfa, alla fine. Dovrebbe essere così anche nella vita, no?».

Ha già qualcos'altro in testa? «Ho finito di scrivere domenica scorsa, alle 19.24, me lo sono annotato. Mi sto ancora liberando da questa storia, che ho tenuto dentro per un anno. Però non voglio rimanere legata a un filone, essere identificata con un prodotto».

La sua famiglia ha letto i suoi libri? «Nessuno. Però sono stati preparati lentamente e saggiamente da me. Ho sempre detto loro: "Sono preoccupata per voi, non per me". I miei genitori sono gente umilissima, mio papà è pensionato e qualche volta va a curare i giardini, mia mamma è casalinga. Ho dedicato il libro a mio fratello, che fa l'informatico ed è spesso fuori casa. Abbiamo fatto un accordo: quando non c'era, andavo a scrivere da lui».

E il suo fidanzato? «Sono single. Purtroppo non c'è il Leonardo della situazione. Per questi libri sono stata otto mesi chiusa in casa, senza vedere nessuno, è stata quasi una gravidanza. A volte perfino mi incavolavo con la mia protagonista, Elena, e mi dicevo: "impossibile che lei ci riesca". Ma questi periodi servono. Ho 33 anni, in passato avrei voluto che alcune cose andassero diversamente e non è stato così. Speriamo che adesso qualcuno arrivi anche per me. E che la trilogia porti fortuna».
@boria_a