domenica 29 settembre 2013

IL FILM

Baby modelle sulla passerella per l'inferno

Casting in Russia
Fuori, un paesaggio spelacchiato, una nave mercantile in porto, strade sterrate e qualche carcassa d’auto. Dentro, in quella che potrebbe essere una palestra, ragazzine in bikini da quattro soldi si mettono in posa davanti alla macchina fotografica, ciascuna con un pezzo di carta in mano, su cui c’è scritto il nome, spesso impronunciabile, e misure da prepubertà. La macchina da presa si trattiene sugli esterni, una landa congelata dal freddo e dalla miseria, facendoci capire che lì, in Siberia, è importante avere un sogno. E loro, al massimo quindicenni, replicanti l’una dell’altra con la pelle diafana e i capelli lunghissimi, un sogno ce l’hanno davvero: diventare “girl model” e lasciarsi alle spalle la Russia per tentare la fortuna nel mondo dell’immagine.
Comincia così Girl Model il docu-film girato nel 2011 da David Redmon e Ashley Sabin, che esce per Feltrinelli Real Cinema accompagnato dal libretto “Apparenze” a cura di Anna Maria Pasetti, un collage di interviste agli stessi autori - coppia di documentaristi americani vincitori di molti premi - a poi a esperti nel campo della moda, a psicologi e sociologi (dvd e volume euro 16,90). Un film agghiacciante che segue passo passo il viaggio della speranza di Nadya Vall, tredici anni, scelta in un casting ai confini del mondo per rappresentare il noto brand americano di abbigliamento giovanile “Switch” sul mercato giapponese, dove “giovane è bello”, e più sei acerba e ingenua più fai vendere.
A far da contrappunto alla storia di Nadya c’è quella, parallela, dell’ex modella americana Ashley Arbaugh, diventata “reclutatrice” in Russia di nuovi volti da spedire nel paese del Sol Levante.

La baby modella Madlen
 

È stata proprio lei a contattare i due filmaker perchè girassero lo squallore e lo sfruttamento infantile che si celano dietro la promessa delle passerelle, ma nel film la sua volontà di denuncia è sfuggente e la sua figura rimane avvolta nell’ambiguità, finendo per assumere i contorni della vittima diventata il più implacabile carnefice delle bambine che sceglie. Non le protegge, non le incoraggia, si limita a guardarle come un entomologo e a osservare in loro la sua stessa sofferenza. La moda è un “mondo inconsistente, perfino noioso”, dice Ashley, ma poi ammette che è anche una droga da cui non ci si libera. A costo di diventare parte del marchingegno di tortura.
C’è un momento, nel documentario, in cui David Redmon appoggia idealmente a terra la telecamera e si sveste dei panni del testimone per aiutare la piccola modella. È quando Nadya si trova, sola, nell’immenso aeroporto di Tokyo, senza saper pronunciare una parola se non in russo. Porge il dizionario, smarrita, alla hostess, cercando invano il modo di acquistare un biglietto dell’autobus, mentre le luci abbaglianti si riflettono nei suoi occhi sgranati.
Scorrono in sequenza i fotogrammi di quello che ha lasciato in Siberia. Una mamma orgogliosa fino alle lacrime della coroncina simil-swarovski di Miss Elite Star, che ha assicurato alla sua piccola un contratto di lavoro temporaneo in Giappone, un padre che spera, coi guadagni promessi, di ristrutturare la casa, un’intera comunità che sogna il riscatto sociale. «Credo che non si debba crescere troppo in fretta», confessava Nadya alla telecamera appena pochi giorni prima della partenza, mentre raccoglieva ribes nell’orto con la nonna.
E invece. Casting defatiganti da un capo all’altra della megalopoli nipponica, poco da mangiare e un appartamento grande come una stia per polli, da dividere con la compagna Madlen, che però è benestante e ha una carta di credito e un telefono per chiamare casa. Le due, morte di fame, sgranocchiano dolcetti vicino ai letti a castello, non sapendo che nei loro contratti c’è scritto che la Switch può cambiare le clausole a suo piacimento e che nessun lavoro è garantito. A Madlen basteranno due centimetri di troppo sul giro vita per essere rispedita a casa con un debito di oltre duemila dollari.
Ashley è la proiezione di quanto accadrà alle modelle-bambine, almeno a quelle che riusciranno a non essere stritolate. Nella sua enorme e vuota casa design, acquistata ad appena ventitrè anni, senza una traccia di calore, impermeabile a qualsiasi intimità familiare, raggelante come la landa siberiana da cui Nadya è partita, la “reclutatrice” vive con due bambolotti di plastica, un maschio e una femmina, nudi e abbandonati sul divano di pelle: «Li ho comprati quando ho preso casa, perchè una casa non è tale senza figli e questi sono i miei figli». Poi l’immagine si sposta e Ashley viene ripresa di profilo, mentre guarda allo specchio la sua pancia arrotondata. Non è una nuova vita che comincia: in un letto d’ospedale la giovane donna mostra crudamente la cisti e il fibroma che le hanno tolto e, alternando poche frasi smozzicate a silenzi eloquenti, parla del sogno di una futura maternità.
Nessun giudizio, se non per implicazione. Nel film si sentono solo le voci dei protagonisti. «A scopo educativo - dice Tigran, l’agente di Nadya e tra i più potenti model booker del Paese - qualche volta le portiamo in visita all’obitorio di San Pietroburgo. Facciamo vedere loro le ragazze e i ragazzi morti per droga. È una cosa che non dimenticheranno mai. E se non è sufficiente le facciamo assistere a un’autopsia. Credimi, ha un effetto devastante. Perchè pensano che potrebbe capitare a loro».
Nadya ha deciso di continuare a fare la girl model, nonostante anche lei sia tornata indietro dal Giappone solo con un mucchio di debiti. «Abbiamo saputo - dicono Redmon e Sabin e in un’intervista riportata nel libro - che è andata in Cina per alcuni lavori. Onestamente siamo rimasti sconvolti nell’apprendere che tanta sofferenza non sia bastata a farle cambiare idea, ma comprendiamo anche che in quella fascia d’età e con un background famigliare e culturale come il suo, tutto può sembrare migliore che non restare a a casa. Il vero problema è che queste teenager si espongono a un “mercato umano” fortemente sessualizzato, con tutti i rischi implicati al caso».
Sul blog del film http://girlmodelthemovie.com/ si raccolgono i nomi delle giovanissime morte per autodistruzione, di cui solo le famiglie custodiscono ormai le storie. Non sono top model, nessuno se le ricorda. «Chi difende l’industria della moda - si legge - ammette che esistono diversi problemi al suo interno, ma li espone come problemi di un’industria qualunque. Dimenticandosi così che in quest’industria si investe sulla vita di giovanissime donne. La maggioranza viene sbattuta in uno stile di vita “adulto” prima di raggiungere l’effettiva età adulta. La moda reagisce definendosi un’arte. Ma - posto che arte sia - è giusto che siano le vite di queste ragazze a pagarne il prezzo?». Segue un elenco di trentun nomi, dai sedici ai trentasei anni: donne morte per anoressia, overdose, la maggior parte per suicidio.
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Nadya Vall con la nonna



mercoledì 25 settembre 2013

IL PERSONAGGIO

Maryla Lednicka, la scultrice delle navi inghiottita dall'oblio

C'è qualche collezionista privato, o qualche istituzione triestina, che custodisce nelle sue raccolte un busto dell'armatore Oscar Cosulich sulla cui attribuzione nutre dei dubbi? O magari possiede qualche altra scultura di pregevole fattura, in marmo o legno, la cui firma è un nome avvolto nella nebbia? Pezzi recuperati da qualche nave andata distrutta?
L'autrice di queste opere potrebbe essere un'artista polacca, Maryla Lednicka, famosa e apprezzata in Italia tra gli anni '20 e '30 del secolo scorso, che raggiunse l'apice della carriera con alcune opere realizzate per navi costruite a Trieste e a Genova: la Victoria, il Conte di Savoia, il Rex e l'Oceania.
Maryla ebbe in sorte il destino peggiore che può capitare a un artista: le sue più importanti sculture, anche monumentali, collocate a Milano o sulle navi, sono state inghiottite durante la seconda guerra mondiale, distrutte o perdute. E il suo nome, quando non è caduto nel buio più totale, è stato confuso con quello di Tamara de Lempicka, di cui, per ironia del destino, Maryla fu amica per alcuni decenni: si frequentarono a Parigi tra il 1919 e il 1923, quando la Lednicka lavorava anche con l'architetto Adrienne Gorska, sorella di Tamara, poi a Milano e infine a New York, dove la Lednicka arrivò nel 1938 e la Lempicka nel '42, ritrovandosi a vivere a pochi isolati di distanza. Qui Maryla si suicidò, nel 1947, gettandosi da una finestra: il fratello Waclaw, grande slavista e docente all'Università di Berkeley, testimoniò che era depressa e aveva problemi economici, al punto da non riuscire nemmeno più ad acquistare la materia prima per le sue sculture.



Maryla Lednicka, a sinistra, con Tamara de Lempicka, di cui fu amica per decenni
 

A investigare in quello che è un appassionante "giallo" artistico, ma soprattutto a ricostruire una carriera arrivata ai vertici della fama e poi piombata inspiegabilmente nel dimenticatoio, è la storica dell'arte Gioia Mori, che in Maryla si è imbattuta proprio attraverso Tamara, di cui è la massima esperta in Italia. «In effetti - racconta - è una storia che sembra uno scherzo del destino. Sono stata infatti interpellata dalla Banca d'Italia per visionare una scultura, che faceva parte della collezione dell'istituto dai primi anni 30. Già negli anni '50 si era perso il nome dell'autrice, forse perchè troppo difficile da trascrivere. Nel '97 l'opera fu sottoposta a restauro e in quell'occasione eminenti studiosi la attribuiscono a Tamara de Lempicka: è firmata, ma il cognome "Lenicka" venne letto male. Quando ho visto la scultura - prosegue la professoressa Mori - ho subito riconosciuto "L'angelo nero", un'opera che avevo visto pubblicata in diversi articoli della stampa polacca negli anni '20 e '30, perchè all'epoca era tra le più famose di Maryla Lednicka. Così ne ho ricostruito l'intera storia, restituendole la giusta "maternità"». L'attribuzione corretta è pubblicata nel bel catalogo Skira che correda la mostra su Tamara de Lempicka allestita nei mesi scorsi alla Pinacothèque di Parigi (8 aprile-8 settembre 2013), e curata dalla Mori: il libro ricostruisce il rapporto tra le due artiste e rende giustizia postuma alla vera artefice dell'"Angelo nero". La scultura era stata esposta a Parigi nella mostra "La Jeune Pologne" nel '22 e poi in due personali della Lednicka a Milano, nel '24 e nel '26. 

"L'angelo nero" di Maryla Lednicka dal catalogo Skira dedicato a Tamara de Lempicka a corredo della mostra parigina
 

Ma chi era Maryla  Lednicka? E qual è il suo legame con Trieste? Di lei troviamo traccia in due articoli del "Piccolo". Il primo, del luglio 1931, cita due opere realizzate per la "Victoria", motonave costruita dal Lloyd Triestino per il servizio celere Trieste-Alessandria d'Egitto: il pannello di legno con una scena di caccia, accanto allo scalone che dal secondo conduce al terzo e quarto ponte, e la "Vittoria rutilante d'oro" collocata nel bar. In chiusura si fa menzione anche del busto di Oscar Cosulich, ma senza dare di quest'ultimo ulteriori riferimenti. Il secondo articolo, dell'aprile 1932, firmato da Mieczyslaw Treter, il maggiore storico dell'arte polacco dell'epoca, dà notizia della partecipazione di Maryla alla XVIII Biennale di Venezia come artista indipendente, fuori da gruppi o correnti.
Nata nel 1893, Maryla Lednicka approda a Parigi nel 1913 e poi vi ritorna nel '19, dopo la prima guerra mondiale, ed espone al Salon d'Automne del '20. In quegli anni divorzia dal marito, il nobile Wladislaw Niemirowicz-Szczytt, ma per un po' sceglie di firmare col suo cognome da sposata, uno scioglilingua impronunciabile. In Italia arriva nel 1924 col padre, lo statista Alexander Lednicki, personalità politica molto in vista, e fa tappa a Varese nella villa di un amico di famiglia, il banchiere Jozif Toeplitz, presidente della Banca commerciale italiana e potente mecenate degli artisti polacchi: doveva essere per lei un breve soggiorno estivo, vi rimarrà quindici anni.
Fu molto stimata dagli artisti e dai critici italiani. La sua personale del '26 a Bottega di Poesia, la galleria di via Montenapoleone a Milano gestita dal conte Emanuele Castelbarco, fu presentata da Carlo Carrà. A Milano collaborò con due architetti di punta, Giuseppe de Finetti e Piero Portaluppi, ornando con quattro gigantesche cariatidi il Padiglione degli Alimentari della Fiera di Milano progettato dal primo, e con una statua la fontana firmata dal secondo per la Banca commerciale italiana. «Finora - racconta Gioia Mori - il corpus di opere della Lednicka che ho rintracciato è costituito da due sculture che sono al Muzeum Narodowe di Varsavia, una del Museo teatrale di Cracovia, oltre alla tomba Lednicki a Varsavia. In Italia ho ritrovato la fontana realizzata con Portaluppi in via degli Omenoni a Milano, nel 1930, che poco dopo venne rimossa. È stata rimontata in un cortile interno di Banca Intesa, ma nessuno sapeva chi ne fosse l'autore. È l'unica opera monumentale della Lednicka che si sia salvata».
Per quanto riguarda le opere per le navi, Mori precisa: «L'articolo pubblicato sul Piccolo nel '31 aveva avuto una certa risonanza sulla stampa polacca e io ne avevo notizia attraverso "Wiadomosci Literackie" di quell'anno. La "Victoria" fu disarmata a Genova all'inizio della seconda guerra mondiale, per essere utilizzata nel trasporto delle truppe in Africa, e poi affondata nel '42 nel golfo della Sirte. Ora è da vedere se nel disarmo quelle opere si salvarono e magari sono "anonime" in qualche casa oppure se andarono veramente distrutte...». 


La scena di caccia del pannello che Maryla Lednicka firmò per la nave Victoria
 

Su Maryla Lednicka, Grazia Mori sta scrivendo una monografia, che uscirà il prossimo anno. Sicuramente la scultrice realizzò busti per committenti triestini, oltre a quello di Cosulich, che potrebbero trovarsi ancora nelle case degli eredi o in qualche istituzione cittadina.
C'è qualcuno che può aiutare la studiosa a completare il catalogo delle opere di Maryla, ricostruito finora attraverso documenti, immagini, archivi tra Polonia, Italia, Francia e Stati Uniti? Anche una sola scultura può essere un tassello importante per restituire identità all'artista dalla vita come un romanzo, celebrata e poi divenuta fantasma. E questo tassello, magari finora ignorato, può essere qui, a Trieste.


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Il busto di Maria José firmato Lednicka installato sul "Conte di Savoia"

mercoledì 18 settembre 2013

IL LIBRO

Sira e Blanca, le donne di Maria Dueñas

La scrittrice spagnola Maria Dueñas

Una donna che ha perso le sue coordinate e un capitolo di storia spagnola da riscoprire. Ancora una volta Maria Dueñas trova l'alchimia tra questi due elementi per confezionare un romanzo teso e affascinante, ricco di rimandi al passato senza essere pedante, dove le scelte della protagonista diventano un elegante pretesto per andare indietro nel tempo, sulle tracce, e dentro i segreti, del Camino Real, le missioni dei francescani spagnoli in California. "Un amore più forte di me" (Mondadori, pagg. 389, euro 19,50) esce a tre anni di distanza da "La notte ha cambiato rumore", il primo libro di Dueñas, diventato un best seller da venti edizioni grazie al passaparola dei lettori. Al centro della vicenda c'è sempre una donna i cui punti di riferimento familiari e sentimentali si liquefanno dal giorno alla notte, costringendola a tagli chirurgici e svolte repentine per ritrovare un equilibrio. Nel romanzo d'esordio ("La notte ha cambiato rumore") era Sira, la sarta che diventerà creatrice di alta moda nel protettorato spagnolo di Tetuàn, in Marocco, e stringerà amicizie pericolose con alti esponenti del regime franchista. In questo nuovo libro è Blanca Perea, docente come l'autrice, che, all'indomani della scoperta del tradimento del marito, prossimo padre del figlio di un'altra donna, accetta l'incarico della defilata università di Santa Cecilia, in California. Si tratta di mettere ordine nelle carte di Andrés Fontana, un letterato spagnolo morto trent'anni prima, il cui lascito è da allora sepolto sotto la polvere e l'indifferenza.
Quella di Blanca è una fuga. Dal tradimento, dalla disillusione, dal ricordo di una vita familiare solida e in apparenza serena che ha contribuito a costruire con tante rinunce, anteponendo le ambizioni del marito a qualsiasi sua gratificazione professionale. E le carte di Fontana, le sue minuziose ricerche sulla fondazione delle missioni oltreoceano, rappresentano il primo rifugio in cui barricarsi, il puzzle monco dei suoi appunti l'antidolorifico con cui addormentare il cervello e impedirgli di attorcigliarsi sul passato.
Dai freddi documenti, alle onde magnetiche di un uomo vero. Quando Blanca vede per la prima volta il volto di Fontana in una vecchia fotografia, capisce che il suo approccio è sbagliato. Non bisogna solo registrare e archiviare fogli ingialliti, ma tornare sui passi del letterato, vivere la sua passione, cercare, come lui, di svelare il mistero di un francescano ribelle alle direttive dei superiori e di una missione di cui non esiste alcuna traccia.
Quelle carte nascondono non solo le orme del Camino Real, ma le ombre di tante vite. Quella di Daniel Carter, per esempio, l'allievo più brillante di Fontana, oggi luminare degli ispanisti americani, che torna a Santa Cecilia non appena ha notizia che qualcuno sta mettendo le mani sull'eredità del maestro. Di Aurora, la moglie che Carter aveva incontrato durante un viaggio di formazione in Spagna e sposato su due piedi in modo rocambolesco, contro ogni convenzione, anche lei rimasta vittima delle ambizioni di un marito giovane e promettente, fino a morirne. Di Luis Zárate, il frustrato direttore dell'istituto universitario, di Darla Stern, l'ottuagenaria ex segretaria, una megera inacidita con i suoi segreti e le sue recriminazioni.
Tutti questi personaggi devono fare i conti con qualcosa di irrisolto, un filo tagliato di netto e rimasto a penzoloni. Sullo sfondo di un pezzo di Spagna trapiantato in America, è la passione che alla fine riuscirà a riportare ciascuno di loro alla vita. Come in quella di padre Altimira e della sua "Misión Olvido", l'ultimo tassello del puzzle viene alla fine recuperato e rimesso con delicatezza al suo posto. Così il disegno, individuale e corale, può essere letto. E la sfida di un altrto amore, accettata.

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martedì 17 settembre 2013

MODA & MODI

Stritolate dai must have 

Must have. Imperativo categorico da mettersi addosso. Trend da seguire, mood in cui sprofondare, pezzo da accaparrarsi per essere "it", una it-girl con la sua it-bag. La moda di questi giorni è piena di obblighi, di capi che si devono avere, comprare, portare. Detto in inglese non fa lo stesso effetto, anzi, quel must infilato qua è là nelle riviste o nei patetici "tutorial" televisivi per imparare a vestirsi (con capi per lo più orrendi, va detto, ma bisogna pur pagare un prezzo agli sponsor...), il must, insomma, sembra il solito vezzo dei modaioli di professione, che infilano una parola straniera ogni due per far vedere che fanno parte di un giro ristretto.
In italiano cade tutto il glamour, tanto per seguire la corrente: quella fantasia, quel capo, quel colore "devo-avere" dà più l'impressione di un esercizio da ragioniere che di stile. E l'aspetto più ridicolo di questa tirannia psicologica è che, seguendo l'ormai frenetico ritmo al quale vengono sfornate le collezioni - fino a dieci in un anno, considerando le ridicole "cruise", crociera, e pre-fall, prima dell'autunnale vera e propria - siamo già bombardati da quello che "dovremmo" indossare nella prossima primavera-estate, che da New York, dove si è aperto il calendario delle fashion week, sta rimbalzando a Londra e poi a Milano e Parigi. Ovvero, stiamo già allenando gli occhi su tinte e stampe che, a meno di non essere un miliardario dei paesi Brics dalla fornitura anticipata, troveremo in negozio almeno tra sei mesi, mentre nelle vetrine cominciano a comparire i "must" che abbiamo assorbito sei mesi fa, roba da sdoppiamento della personalità.
Quindi, facciamo scorrere indietro le lancette dell'orologio e ricapitoliamo. Quali sarebbero i "must" dell'inverno? Resettiamo abitucci con le frange, righe, pelle traforata al laser che campeggiano sulle pagine dei giornali di questi giorni, e infiliamoci in una maglia animalier, in una gonnellina di tartan, in un giubbotto di pelle, in un paio di tronchetti borchiati o di cuissardes, in una pelliccia, eco o autentica. Ma come, i "must have" vi sembrano obsoleti? Niente paura, non è solo perché li abbiamo già visti sviscerati e moltiplicati dal web mentre aspettavamo ancora il primo sole primaverile, ma perché effettivamente sono obsoleti. Da almeno tre stagioni c'è poco di nuovo, anche nel campo dei colori dove, accanto al nero, ci sono blu e grigio, entrambi, come da copione, il nuovo-nero. Un'unica consolazione: se, almeno una volta, abbiamo ceduto a una tentazione da fashion victim, ce la ritroviamo nell'armadio quasi nuova. Must, certo, ri-have.


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 Anna Dello Russo con il copricapo a ciliegia di Piers Atkinson

martedì 3 settembre 2013

MODA & MODI

Borchie come zavorra


L'onda metallica continua. E si fa più acuminata, quasi avessimo bisogno di una corazza di aculei per attraversare i rigori dei prossimi mesi. Il punk celebrato nella grande mostra al Metropolitan Museum di New York ha disegnato una perfetta cornice, un "alibi" intellettuale per l'abbondanza di dettagli "heavy" che renderanno l'inverno ferrigno (e pure ferino, con il ritorno alla grande della pelliccia, eco ma anche no). È da un po' di tempo che la moda cosparge ogni superficie utile con una spolverata sbrilluccicante, non si capisce bene se per rianimare capi ripetitivi e banali che, dalle passerelle delle griffe, scendono a cascata fino alle catene cheap (e più i prodotti sono ordinari, più sale la concentrazione di paillettes, glitter, borchie e borchiette), oppure per citare tendenze fashion del passato e adeguarle al tempo presente (che non è arrabbiato come per i punkaioli, ma incerto, e dunque eccede, quasi per compensarci di altre mancanze). Ne fanno ancora le spese le scarpe da ginnastica simil-Converse, ormai infarcite di applicazioni dorate o argentate come uno strudel dell'uvetta, con quel risultato ibrido che gli esperti di moda si arrabattano a definire "urban chic" (per quanto impaillettate restano scarpe da ginnastica, non si possono promuovere in nessun'altra categoria dell'armadio...).
Eccoci all'inverno del nostro scontento, dunque. Che, tra le tante altre confuse tendenze, sarà "metallaro". Niente di bassa lega, assicurano le bibbie, sventolando gli esempi nobili di Valentino con la sua linea Rockstud, o Louboutin e i suoi tacchi inarrivabili irti di spuntoni argentati, o, per risalire indietro nel tempo, Versace e la sua rivisitazione "colta" del punk.
L'accessorio che va per la maggiore sono gli anfibi di pelle borchiati, di rigore in nero. I più cattivi hanno il tacco a carroarmato, ma si trovano anche proposte addomesticate, come gli stivaletti di camoscio con gli strass, o con le cinghie, o con una fantasia di pietre e borchie insieme, stile arma impropria. La febbre da metallo risale fino alla borsa, che si carica di anelli, rivetti, catene. Contagiate anche due icone, che di altro non avevano bisogno: la clutch di Alexander McQueen con la chiusura a teschio, che in questa versione cattiva è di nappa con tanti anelli, e la tracolla di nappa matelassée di Chanel, riveduta e corretta con catene. Completano il look i pantaloni con binari di applicazioni in metallo.
Bello? si chiederebbe uno dei miei blog preferiti, www.againstfashion.wordpress.com. No, soprattutto ripetitivo, già visto, poco versatile. In una parola: pesante.
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