venerdì 31 ottobre 2014

MODA & MODI

 Junk fashion da supermarket 




Sui suoi vestiti aveva già sparso di tutto: mucche, maiali, galline, pasta e posate. Adesso Moschino è entrato in un fast food e ha prelevato le divise dei dipendenti e i contenitori delle patatine fritte. Poi, al supermercato, ha fatto provviste di junk food, cibo spazzatura, riempiendo il carrello di barrette di cioccolato, sacchetti di pop-corn, minestra in scatola, caramelle. La prima sfilata del nuovo creativo post Rossella Jardini, l'americano Jeremy Scott, ha portato tutto il chiassoso packaging in passerella: signore in rigorosi tailleur simil-chanel, felpe, camicie e pantaloni sartoriali virati nei colori di McDonald's, e borse che sono la versione deluxe dei contenitori del cibo take-away. Anche la sera ha le tinte stralunate di un film di Wes Anderson e gli abiti da tappeto rosso nascono accartocciando sul corpo gli involucri dei dolciumi, con codice a barre in vista.
Scandalo chips chic. I commenti del giorno dopo parevano scritti da ortodosse della macrobiotica ingozzate a forza con scatolame e snack alza-colesterolo. In qualche post in rete è spuntata Maria Antonietta con le sue brioches: la sfilata di Moschino vero e proprio incentivo all'insurrezione popolare contro gli stilisti che fanno a pezzi, a scampoli, quanto c'è di più sacro - il cibo, il lavoro, la salute - per puro lucro. Come osa Scott scimmiottare i grembiuli di chi non guadagna al mese neanche la somma per comprarsi il manico della borsa-happy meal? E perchè saccheggia schifezze nei market per vestire a suon di migliaia di dollari signore che di zuccheri e grassi hanno dimenticato l'uso?
Ragionamenti che non fanno una piega, se non fosse che sventolare l'etica della moda spesso diventa più ipocrita che inneggiare spensieratamente allo spreco. Si sono viste sfilare pelliccie, alligatori e serpenti vari, democratici denim prodotti in paesi dove gli operai guadagnano al giorno molto meno del prezzo di un big burger. Nessuno ha gridato allo scandalo per le contraddizioni insopportabili del lusso. Quando Nicola Formichetti ha vestito Lady Gaga di carne cruda, si è parlato di geniale intuizione (la performer che si offre in pasto ai suoi fan...) non di spreco inaccettabile, di offesa a chi la bistecca la compra se può. Il dna di Moschino è provocante, irritante, surreale.
Forse con la junk fashion voleva scuoterci: mettetevela addosso, non ingeritela (nè fatela ingerire agli altri), che è meglio. E coi vestiti divertitevi, piuttosto che moraleggiare.
twitter@boria_a

giovedì 30 ottobre 2014


MODA & MODI

Brad "arruolato" al n. 5

Se voleva "bucare" la rete, Chanel non poteva scegliere strategia migliore. Brad Pitt non era ancora comparso in tv a biascicare quel messaggio stralunato per convincerci a comprare il celebre profumo n.5, che già nel cyberspazio spopolavano le parodie dello spot: Brad sussurrante col sottofondo del ronzio di una mosca ("dovunque vado, tu ci sei"), Brad testimonial non della leggendaria essenza di mademoiselle Coco ma di un taco o un preservativo per cani, Brad trasformato dagli "Sgommati" di Sky in un "Bradlusconi" che profeticamente annuncia il suo rientro in campo ("inevitable").
Brad Pitt nello spot di Chanel n.5
 


 Cade il monumento di genere, per cui il profumo femminile nell'immaginario commerciale è sempre impersonificato da attrici stupende, nel caso di Chanel Catherine Deneuve, Carole Bouquet, Estella Warren (ve la ricordate? Era la bellissima Cappuccetto rosso del video di Luc Besson), Nicole Kidman, Audrey Tatou.

Audrey Tautou nello spot diretto da Jean-Pierre Jeunet
 

Senza dimenticare Marilyn e le due gocce che la accompagnavano a letto.
Col primo uomo mai scelto per promuovere Chanel n. 5, la prospettiva cambia ed ecco il nostro Brad stampigliarsi sul video in bianco e nero, grigio e stropicciato, con l'occhio fisso sulla sterminata platea televisiva mentre balbetta un'incomprensibile filastrocca che paragona il n. 5 alla sua fede, alla sua fortuna e alla sua sorte. C'è anche un video, dove il nostro evoca nel pensiero due donne molto simili a quelle della sua vita, un'eterea bionda come l'Aniston del passato e una bruna ardente come l'Angelina, supermamma sexy del presente.


I pubblicitari spiegano: per tener desta l'attenzione sul prodotto, bisogna sempre cambiare il punto di vista. Catherine Deneuve, splendida protagonista di "Bella di giorno" di Buñuel, attraversò gli anni '70 regalando al profumo Chanel il contenuto della desiderabilità, dopo l'appiattimento degli anni '60. La Kidman, reduce dal successo di "Moulin Rouge", nel 2004 trasferì alla boccetta la carica erotica, la sottile perversione del triangolo.


Che Brad, allora, sia una sorta di testimonial per proprietà transitiva? Vediamo lui e pensiamo alle sue partner circonfuse da Chanel, che gliele ha rese inevitabili come un destino? O è Chanel che può guadagnarci un uomo così fascinosamente scipito, che ci considera una fede e si mette in secondo piano per noi? Il dubbio resta. Magari, scaricando Brad, due gocce di Chanel n.5 ci aiuteranno a sottrarre Antonio Banderas dagli artigli della gallina Rosita.
twitter@boria_a

Estella Warren, Cappuccetto rosso per Chanel


martedì 28 ottobre 2014

L'INTERVISTA
Cristina Benussi: le donne cambiano il mondo, senza tweet

Passa attraverso le parole e gli scritti di Diotima, Santa Caterina da Siena, Madame de La Fayette, Virginia Woolf, Simone Weil, Hanna Arendt, Simone de Bouvoir, e anche attraverso le opere della triestina Anita Pittoni, il "viaggio nel pensiero femminile" di Cristina Benussi. L'autrice, professore di Letteratura italiana contemporanea all'Università di Trieste, pubblica con le Edizioni Unicopli, "Cambiare il mondo", ovvero l'«altra» storia rispetto a quella ufficiale della nostra civiltà, scritta dalle donne con le loro arti e il loro pensiero, le loro teorie ed elaborazioni concettuali, ma anche attraverso i saperi manuali e i comportamenti. Un viaggio complesso, che arriva fino ai giorni nostri e alla virologa Ilaria Capua, la prima a depositare la sequenza genetica del virus dell'influenza aviaria in un database ad accesso libero. Un cambio di atteggiamento che ha spinto le organizzazioni internazionali a confrontarsi sul tema della trasparenza dei dati e a raccomandarla, rompendo la consuetudine delle disponibilità limitata a pochi. La scelta di una donna ha dunque determinato un cambiamento culturale in un terreno ostico e spesso maschile come la ricerca, ha stimolato un'inversione di rotta che lei stessa ha messo per prima in pratica.
La docente Cristina Benussi
"Per il pensiero femminile non è tanto il filo che conta quanto l'intreccio", diceva Anita Pittoni. È un po' il senso di tutto il libro?
«In un certo senso potrebbe esserlo, se specifichiamo che il punto di vista femminile, quando non sia obbligato a muoversi secondo una logica impropria, ha la capacità di superare il principio di non contraddizione, tipico del pensiero occidentale dominante. Quindi non il filo unico conta, ma quanto intorno a questo filo può essere inglobato, cioè l'intera gamma delle possibilità di conoscere, anche sensoriali, quasi una rete che accoglie necessariamente qualcosa di diverso dal proprio "cogito"».
Citiamo ancora la Pittoni, quando dice che "il senso della dosatura del colore" nelle sue stoffe è lo stesso "senso" che la guida nello scrivere. Che senso è?
«Per la Pittoni, come per molte altre scrittrici, tutti i sensi sono strumenti fondamentali di conoscenza poiché permettono di entrare in contatto con la materia, e sentire tutta la complessità dei legami, empatici ed emotivi, che essa stimola. Così nel depositare il proprio pensiero attraverso la scrittura, le donne tendenzialmente non concettualizzano ciò che vogliono dire, ma seguono il corso del pensiero che vaga, stimolato da accadimenti minimi: il monologo interiore, infatti, l'ha inventato una scrittrice, Dorothy Richardson».
Anita Pittoni nel suo studio (1901-1982)
Lei cita il Premio Nobel Elfriede Jelinek, secondo la quale la donna, quando scrive, non dice "io", ma "noi", non parla della sua identità ma dell'identità di tante. È d'accordo con questa differenza?
«Certo, è nel rapporto con l'altro che si è venuta costituendo l'identità femminile, e dunque il confronto con è sempre costantemente cercato. L'"altro" abita poi la donna, magari anche solo potenzialmente. Così, la situazione narrativa dell'"io" femminile quasi mai giunge al nichilismo in cui incorre l'"io" maschile, proprio perché non è egocentricamente del sé che si parla, ma di una situazione in cui non si è mai sole, bensì legate al destino di altri, dentro un mondo tendenzialmente connesso con i cicli eterni della natura».
Vale ancora questo "noi" in tempi di rete e di blogger, dove si gioca tutto sull'egoistica "individualità"?
«Questo è il punto. Il titolo del mio libro infatti è "Cambiare il mondo. Viaggio nel pensiero femminile": ebbene, se non corriamo ai ripari, anche solo il sospetto che esistano gli altri finirà per scomparire a favore di un ego ipertrofico che non si preoccupa di chi verrà dopo di lui. Simone Weil, Hannah Arendt, Maria Zambrano hanno ribadito con forza che non sulla competitività, valore attuale, ma sul "dare" un nuovo senso alla vita bisognerebbe insistere».
Per la generazione di donne "native digitali" esiste uno scrivere che non sia interattivo?
«Auguro loro di sì, perché la dimensione della riflessione e della meditazione è ancora capace di cercare dentro noi stessi ragioni e valori quali noi pensiamo debbano essere e non quali ci vengono ossessivamente suggeriti: il termine interattivo dovrebbe acquisire un senso non tecnico ma coscienziale, per non lasciarsi prendere da quella che Arend chiamava "la banalità del male"».


Hanna Arendt nel 1969
Si può fare un discorso di "valore"? In pratica, qualcosa resterà dei "post" in rete?
«Se per "valore" si intende un valore estetico non lo escludo, anche se siamo in una fase ancora troppo aurorale per capire quali potranno essere i nuovi parametri valoriali».
Secondo lei, nelle scritture indirizzate alla comunità digitale, si può ancora distinguere tra "maschile" e femminile?
«Non si tratta, ovviamente, di distinguere tra maschi e femmine, perché, come ovvio, molte donne sono state abituate a pensare e a comportarsi come è richiesto in un mondo in cui il potere ha i caratteri maschili (ma c'è anche il caso opposto, ovviamente). Ma se tutti noi riflettessimo su cosa il genere umano rischia di perdere, forse rinunceremmo anche agli sprechi energetici dovuti alle comunità digitali, e, ovviamente, non solo ad esse».
Nell'ultimo capitolo, "Potranno le donne salvare il mondo?", lei cita Sheryl Sandberg, che è diventata amministratore delegato di Facebook. Ma queste grandi società sono le stesse che vedono con favore il fatto che le manager congelino gli ovuli per rimandare la maternità...
«Ha detto bene, per questo bisogna "salvare il mondo"!».
Puntiamo all'uguaglianza o alla differenza?
«Punterei non solo alla differenza, ma a una differenza talmente vantaggiosa da attrarre finalmente anche il pensiero maschile, che è quello dominante, dentro una logica che concepisce l'essere come parte di un tutto da difendere nel suo intero complesso, non da sfruttare a favore del singolo, o di un gruppo ristretto».
Nei 140 caratteri massimi per un tweet, lei come sintetizzerebbe il "pensiero femminile"?
«Il coraggio di non seguire la logica del profitto e del potere ma quella della partecipazione empatica, alla ricerca di un benessere che non è necessariamente materiale».
twitter@boria_a

venerdì 24 ottobre 2014

Roberto Capucci a trovare due amici

IL PERSONAGGIO

Roberto Capucci a Villa Manin: "Pasolini mi disse: rompa il ghiaccio con la Mangano"

Ottantaquattro anni il prossimo 2 dicembre, sessantaquattro nella moda. Ma non vuole essere chiamato stilista Roberto Capucci, l'ultimo tra i grandi fondatori del made in Italy, preferisce "inventore", "sperimentatore". Le sue sono sculture di tessuti rari, esplosioni di colori e di volute, intersezioni aeree di linee, che da anni frequentano i musei più importanti del mondo. Pezzi "inavvicinabili" (l'aggettivo è proprio suo...), anche se il suo sogno ancora irrealizzato è fare il prêt-à-porter, «conquistare tanta gente». Una vita tra sete rare e disegni, un ricordo per ogni donna che ha vestito. Tanti viaggi in India, il primo con una guida d'eccezione, Sonali Das Gupta, compagna di Roberto Rossellini, l'ultimo, il trentaseiesimo appena concluso, nella regione dell'Assam. E, in questi giorni, la parentesi in Friuli Venezia Giulia, a Villa Manin di Passariano, per l'omaggio a due amici.
 
A Villa Manin ci sono gli abiti dei film di Pasolini e del costumista Danilo Donati. Che ricordo ha di loro?

«Pasolini non lo conoscevo, ma avevo letto tutto di lui, lo ammiravo profondamente. Un giorno mi telefonarono dalla produzione e mi dissero che voleva incontrarmi per i costumi di "Teorema". Quando venne da me, ero emozionatissimo. Lui non fece il nome dell'attrice, disse solo: «Maestro, non potrà mettere i suoi capolavori, è una donna borghese». Tornò dopo due giorni con la scaletta del film e mi rivelò che era Silvana Mangano. Provai una gioia immensa: "Posso rivelarle un segreto?", gli risposi. "Avevo due desideri nella vita, conoscere Pasolini e vestire la Mangano". E lui: "Ogni desiderio che lei culla nel cuore con amore e con un'ambizione sua, segreta, prima o poi si avvera. Ma attenzione, perchè vengono anche i desideri nefasti...". Diventammo amici. Nel mondo del cinema, dove c'è violenza, prepotenza, Pasolini era una persona eccezionale, educata, silenziosa».

 
I costumi dei sacerdoti ne "Il Vangelo secondo Matteo" di Pasolini a Villa Manin di Passariano

  
E Donati?
«Mi chiamò Zeffirelli: "Mi devi fare un vestito per Olivia Hussey, perchè dobbiamo presentare il film "Giulietta e Romeo" alla regina Elisabetta. Mi raccomando qualcosa di semplice, di pulito, che le schiacci il petto perchè quella mangia venti cioccolate al giorno... Verrà con Danilo Donati". Donati ci telefonò: "Quando vedete uno unto, sporco, con l'aria da salumaio, aprite perchè sono io». Era un uomo innamorato del suo lavoro, che realizzava cose che non esistevano. Prendeva la stoffa, la plissettava, la bagnava, la asciugava al sole, la plissettava di nuovo, creava una "corteccia". Pierino Tosi era un perfezionista, lavorava con Visconti. Donati inventava, altrimenti non si divertiva. Era simpaticissimo, semplice, viveva in una casa modesta come ogni enorme artista».
"Teorema" è stato il suo unico film...
«Mi ricordo quando Pasolini mi chiamava per chiedermi come andava con i costumi. "Benissimo - gli rispondevo - ma fra me e la Mangano ci sono silenzi abissali...". E lui: «Rompa il ghiaccio, Capucci, perchè è timida...". Quando è successo ho scoperto in lei un essere umano meraviglioso. Al cinema perdeva tanto, nella vita c'erano i suoi silenzi, i suoi occhi enormi, sgranati, la sua educazione, la gioia di aiutare gli altri. "Teorema" mi ha crocifisso, dopo quel film non ho più accettato costumi per il cinema. Mai più si sarebbe verificata quella magica coincidenza, un regista e una donna che amavo. Io non credo che le cose si ripetano nella vita con la stessa intensità. C'è un solo amore, una sola emozione. Ringrazio dio per questo incontro».


 
Silvana Mangano e Pier Paolo Pasolini sul set di "Teorema" (1968)

 
E poi la Mangano è diventata la sua musa...
«La sogno ancora, quando disegno faccio il profilo del suo naso. E io le ho vestite tutte le dive, tranne la Lollobrigida e la Vitti, tutte. Ma la Mangano aveva una classe superiore. Non aveva origini nobili, era la figlia di un ferroviere, ma indossava un vestito da sera con la semplicità di un cardigan, e un tubino blu come una tiara regale. Mi ricordo la sua prima apparizione in sartoria, con un tailleur grigio di tweed, una borsa di coccodrillo un po' fanè, i tacchi di sei centimetri. Aveva gambe meravigliose».
Come l'ha vestita in "Teorema"?
«Pasolini mi disse: colore solo alla fine, quando lei scopre il sesso. E le ho fatto un tailleur di lino corallo. Nelle altre scene vestiva come le mie clienti quando stavano con le amiche o giocavano a carte, per la maggior parte tailleur e bluse di chiffon e georgette».
E Marilyn Monroe?
«Non l'ho mai conosciuta. Le mandavo i colori da Milton Greene, suo fotografo e consigliere, e avevo il suo bustino. Erano abiti in georgette, sempre morbidi e aderenti. Quando è morta sono stati venduti all'asta da Sotheby's a Londra. L'ho saputo dai giornali, altrimenti almeno due ne avrei ricomprati».
Lei ha debuttato nel luglio 1951 con Giovan Battista Giorgini, il patròn della nascita della moda italiana. È vero che gli altri non la volevano?
«Avevo circa vent'anni e appena aperto la sartoria. La mia direttrice, Maria Foschini, una signora settantenne che si occupava di alto artigianato, partì per conoscere Giorgini e mostrargli i miei disegni. Gli piacquero molto, ma non poteva farmi un invito ufficiale, dimostravo quattordici anni, nessuno mi conosceva. Allora mi propose di vestire sua moglie e le sue figlie per il ricevimento conclusivo delle sfilate, nella sua residenza, Villa Torrigiani, e di fare cinque tableau, abiti diversi che lui avrebbe messo in giardino, illuminandoli con un effetto sorpresa. Ma una mannequin lo disse a Schuberth, lui si arrabbiò molto e mi bloccò».
Un disastro.
«Piangevo come una pecora, avevo finito i soldi. "Venga, che nella vita si aggiusta tutto", mi disse Giorgini. E io andai alla festa con un piacere speciale, di cosa proibita. Tutti i giornali parlarono di me, scrisse la Fallaci, e il giorno dopo esposi nella terrazza della villa e cominciai subito a vendere. Ma quella proibizione mi segnò: da allora ho imparato a non farmi coinvolgere completamente nelle cose, a non inalberarmi per la gloria, a distaccarmi da questo mondo».
Ci racconti delle sue dive. La prima, Isa Miranda.
«Dolcissima, carina, morta quasi in miseria».
Clara Calamai.
«Spavalda, sicura di sè, mi guardava e rideva, spettinata, con i capelli arruffati. Era dirompente, ma in confronto alle veline di oggi, un'educanda».
Elisa Cegani.
«La compagna di Blasetti. Non bella ma di enorme classe».
Doris Duranti.
«Una vamp».
Perchè no la Lollo e la Vitti?
«La Lollobrigida non è il mio genere, nè io il suo. Dovevo vestire la Vitti ne "Le amiche", ma poi la produzione non aveva soldi. Peccato, la trovo affascinante, ambigua».
Una vanità di Rita Levi Montalcini, che ha ricevuto il Nobel in Capucci? 

 
L'abito indossato da Rita Levi Montalcini alla cerimonia del Nobel
«Non voleva l'abito con quel po' di coda. "Mi inciampo", mi diceva. Poi mi chiamò per raccontarmi che la regina di Svezia le aveva fatto i complimenti. Le ho disegnato quarantasette vestiti, l'ultimo a cent'anni. Alla fine, quello del Nobel me l'ha regalato per la Fondazione. Era pazza di gioia quando in televisione dissero che le scienziate vestono male e che solo la Montalcini era elegante. Una volta mi chiese un vestito per un ricevimento al Quirinale: "Professoressa, in sei giorni non ce la faccio, metta l'ultimo". E lei: "No, me l'hanno già visto".».
Su Capucci stanno facendo ben tre film...
«Il primo è di Ottavio Rosati, in via di conclusione. Ha l'esclusiva fino a fine anno. "Che esagerazione, in tutto quel tempo fai la Bibbia", gli ho detto. Il secondo lo sta organizzando Amalia Carandini, il terzo lo vuole fare Pappi Corsicato. E pensare che il mio lavoro mi ha rovinato la vita, è venuto sempre prima di tutto, prima della mia vita privata. Quando disegno sono narcotizzato, faccio mattina».
Qualche giovane stilista le piace?
«Tanti, ma non ricordo i nomi. Mi piacciono soprattutto i giapponesi, che hanno linee pulite, eleganti. Ci sono anche italiani che stanno uscendo, sono contento. Io ho fatto il passato. Tocca a loro».
twitter@boria_a

Roberto Capucci

martedì 21 ottobre 2014

IL LIBRO

Murmur,  il bambino peloso di Leonor Fini
 

La copertina del libro "Murmur", tradotto e curato da Corrado Premuda

 Murmur è uno strano bambino, diverso dagli altri. Ha le orecchie piccole e lunghe, le pupille che a mezzogiorno si trasformano in due fessure minuscole, il pelo argentato sulle zampe. È un essere fantastico, figlio di "un padre umano sconosciuto" e della gatta Belinda, un piccolo semi-uomo e semi-felino. Per sottrarsi alle malelingue questi due esseri straordinari si travestono e scappano dal paese in cui vivono. Li ritroveremo in un monastero in riva al mare, dove incrociano animali fantastici e creature magiche. Murmur, stordito e stupito, conosce il sesso, anche con la sua stessa madre ma senza peccato, e viene iniziato alla fantasia e al piacere.
Che autrice si nasconde dietro questi indizi? Quale fantasia aerea mette insieme animali, creature di fiabe e mitologia classica, sogni, sesso, amicizie, in un'ambientazione dove spesso la realtà si confonde con i sogni e l'identità di ciascuno sfuma nel travestimento?
La risposta non è immediata, perchè della triestina Leonor Fini, pittrice, scenografa, designer, costumista, l'attività letteraria è quella meno nota ed esplorata.



Leonor Fini (Buenos Aires 1907, Parigi 1996) in una foto di Richard Overstreet

Ora, tradotto e curato dallo scrittore Corrado Premuda, esce Murmur. Fiaba per bambini pelosi, primo romanzo della Fini mai proposto in Italia, pubblicato dalle edizioni Arcoiris di Salerno (pagg. 116, euro 10,00, collana "Gli eccentrici"). È lo stesso Premuda, che firma un minuzioso saggio in chiusura del libro, a guidarci nell'analisi dell'opera letteraria di Leonor, inserendola nell'ampio e frastornante contesto dei suoi interessi, nell'intreccio dei suoi rapporti sentimentali e intellettuali.
Gli amati felini, il cambiamento di identità, la fuga, l'assenza del padre, il dialogo costante con la madre, un circolo di interlocutori con cui condividere curiosità, arte, amori, il buen retiro del monastero: tutti questi sono tratti biografici della vita di Leonor che ricorrono in questo romanzo breve, "Mourmour, conte pour enfants velus", uscito per la prima volta nel 1976 con le Editions de la Différence a Parigi e poi, nel 2010, da La Tour Verte, in un'edizione riveduta da Richard Overstreet - che oggi cura l'archivio Fini di Parigi - e Robert de Laroche, tenendo conto delle correzioni della stessa autrice.
Leonor amava scrivere. Lettere, innanzitutto, cui dedicava oltre due ore al giorno, indirizzate alla madre Malvina Braun, al cugino e pittore Oscar de Mejo, marito di Alida Valli, a Elsa Morante, Bobi Bazlen, Federico Fellini, Carlo Levi, al poeta e scrittore André Pieyre de Mandiargues, che fu suo compagno di vita a Parigi tra gli anni Trenta e Quaranta, periodo a cui risalgono molte opere della pittrice rimaste inedite. Leonor inviava all'amante le trascrizioni dei suoi sogni, riportate sulla carta con grande forza drammatica e percorse dalle paure e dalle tensioni legate al periodo del secondo conflitto bellico, poi i suoi poemi e racconti. I due scambiano scritti, si consigliano e si influenzano reciprocamente, al punto che uno dei personaggi di Leonor, il Gatto Mammone, soprannome con cui Mandiargues chiamava l'amica, compare in una celebre raccolta di lui, "Museo nero".



Una delle ultime foto di Leonor Fini
Negli anni Settanta, l'attività letteraria di Leonor si consolida, anche per la presenza nella sua vita dell'intellettuale italo-polacco Konstanty Jelenski. Scrive saggi su vari argomenti, dai gatti alla moda, testi che accompagnano libri di illustrazioni e fotografie e tre opere narrative, in francese: l'Oneiropompe, tradotta in tedesco, catalano e giapponese, Rogomelec, che ha una versione tedesca, e Mourmour. Nessuno è mai comparso in Italia.
Mour Mour è un soprannome, come Gatto Mammone, un altro di quelli con cui Mandiargues chiama Lolò. Il monastero dove Belinda e il piccolo uomo-felino trovano riparo è quello di Nonza, in Corsica, il rifugio estivo della pittrice. Come il suo personaggio maschile - in cui si identifica, secondo una soluzione narrativa che adotterà anche in seguito - Leonor non conosce il padre. La fuga del personaggio con la mamma gatta Belinda, è la stessa di quella che Leonor compie precipitosamente insieme alla madre Malvina, da Buenos Aires a Trieste, per sfuggire alla violenza del padre Erminio. Leonor conosce bene anche i travestimenti, quegli abiti maschili in cui Malvina la infila, tagliandole pure i capelli, per sottrarla ai segugi inviati a Trieste dal padre. Murmur ha gli occhi piccoli e verticali, una caratteristica che la pittrice attribuisce a se stessa, quando con le compagne di scuola favoleggia di essere figlia di una donna e di un gatto o di essere una "bambina sostituita", scambiata da una bambinaia per errore.
La fata Lucidor, il diavolo Murko, le fate streghe che vanno a lezione di volo dal diavolo Belfagor e che sperimentano, oltre all'esaltazione del volo, quella dell'orgasmo. "Murmur" è infatti una favola per adulti, per bambini "pelosi" che hanno oltrepassato, o sono in procinto di farlo, il confine tra infanzia e età adulta. Un racconto di iniziazione al piacere tutto pervaso da una sottile tensione sessuale, descritta con accenti allusivi ma potenti, in una dimensione onirica e insieme molto concreta e carnale. «Come per incanto tutto cambiava: l'umido diventava secco, il tenero duro, il piccolo grande, noi diventavamo liquidi e tutto ricominciava».
È questo il fascino della "favola da grandi" di Leonor Fini, il continuo rimando - indistinguibile e inestricabile, a meno di essere condotti per mano, come fa Corrado Premuda nella sua analisi - tra biografia e fantasia, tra sogno e ricordo, tra realtà e immaginazione. Il sesso in una sagrestia, l'inquietudine del proibito, rimanda a un aneddoto dell'infanzia di Leonor, ovvero l'incursione forse nella chiesa di Sant'Antonio Taumaturgo, dove sottrae delle ostie per giocarci. Le perette da clistere della fata Lara l'Ilaria evocano l'aggeggio metallico che Lolò vede nello stanzino dei medicinali nella casa dei nonni, con un misto di fascinazione e di terrore. La canzone dell'agnello tosato, infine, che qualcuno intona accanto a Murmur, è un'intima confidenza che la pittrice fa al lettore sulla sua infanzia, forse essa stessa un sogno o una filastrocca della madre: la violenza del taglio dei capelli e la promessa che un giorno potrà farli ricrescere, quindi riappropriarsi della sua natura femminile e sprigionare la sua personalità artistica.

Parole e colori che lei sente inscindibili: «Rogomelec, L'Oneiropompe, MourMour e altri racconti - dice - testimoniano la mia passione per il potere che le parole hanno di provocare meraviglia, ma soprattutto la mia passione per le immagini».
twitter@boria_a


Leonor Fini con uno dei suoi amatissimi gatti nel buen retiro di Nonza, in Corsica (foto di Colombotto Rosso)

sabato 18 ottobre 2014

 MODA&MODI

 Sporty ciabattone


"Sporty-sandal", l'importante è scendere dai tacchi. Primavera ed estate camminano rasoterra, ma non senza rischi. Mai più dondolare sugli stiletto o torturarsi l'epidermide nei calzari da schiava, anche se l'alternativa può essere altrettanto rovinosa: ritrovarsi a bordeggiare con la versione modaiola delle ciabatte da piscina, "pool slippers" secondo i "report" delle tendenze, che ci spiegano come tanti accessori che abbiamo in casa, per usi innocui e banalissimi, siano diventati di botto l'ultima frontiera della novità, purchè rivisitati e griffati. Ricordate? Quando un anno fa Céline lanciò i birkenstock bordati di pelliccia, in grado di trasformare l'andatura più sofisticata in un incedere da palmipede, si gridò al miracolo: comodi e imprevisti, una vera sorpresa della moda, paragonabili ai jeans sotto le natiche che Alexander McQueen lanciò nel '97.
I jeans, fatti salire dalla strada alla passerella e poi ridiscesi in strada, trovano ancora estimatori, seppure in via di estinzione. Ma non so a quanti sia capitato, nell'ultimo anno, di vedere camminare l'ogm calzaturiero ricavato incrociando la pesantezza alemanna e la frivolezza francese. Esattamente un anno dopo, eccoci disvelato un altro accessorio, le cui potenzialità ignoravamo: le ciabatte, riconvertite in "sporty-sandal". Celebrità varie (una per tutte, Rita Ora), e gente "di moda", dicono di portarle da anni e di non poterne fare a meno: ironiche, più liberatorie di un mocassino e non squadrate come un birkenstock. L'idea a molti è venuta osservando i ragazzini messicani che a Los Angeles le usano per giocare a basket in strada. Per i comuni mortali, al contrario, l'unico esempio di utilizzo frequente è da parte degli ospiti stranieri dei centri di raccolta, ed è certo che gli interessati ne farebbero volentieri a meno.
Le ciabatte da piscina in versione urbana sono ovviamente chic e firmate. E sono l'ideale per muoversi nelle infuocate estati cittadine, ma anche per un cocktail, come illustrano le interminabili gambe che ci dondolano sotto il naso, dalle pagine pubblicitarie e con molto glamour, queste compatte bistecche di gomma.
Alternative ad alzo zero dal suolo? Le intramontabili ballerine, tonde o appuntite, che la londinese Cocorose (www.cocoroselondon.com<http://www.cocoroselondon.com>) propone, piegate in due, dentro una pochette da infilare in borsetta. Per portarle ovunque e dare ai propri doloranti talloni, una provvidenziale (e, questa sì, elegante) pausa dalle pianelle natatorie.
@boria_a


sabato 11 ottobre 2014

MODA&MODI: Auguri Eamz
Buon compleanno, splendida Eamz




Ha compiuto dieci anni, che nella moda equivale a un'era geologica, ma ancora fa girare, anzi, abbassare la testa. E, inevitabilmente, scatena nell'osservatore la stessa domanda: "Ma si cammina bene?". È la celebre scarpa "Eamz" di United Nude, il brand fondato nel 2003 dall'olandese Rem Koolhaas, l'archistar chiamato quest'anno a dirigere la Biennale Architettura. Ispirata dalla sedia progettata oltre mezzo secolo fa da Charles e Ray Eeames, la scarpa "Eamz", ha un tacco che il suo ideatore voleva "invisibile", un semplice ma robusto sostegno metallico fissato nel centro della suola, che tocca il terreno solo con un disco di gomma nera e dà l'impressione di un piede sospeso a mezz'aria. Un tacco, futuribile, quasi una mezza zampa di volatile domestico, una diagonale, un ponteggio gettato tra la pelle o il tessuto della calzatura, e il suolo.
Ma se invisibile doveva essere, questo è l'unico obiettivo non centrato. In una stagione modaiola in cui sotto i piedi ci si mette qualsiasi cosa, dalle statuine africane alle farfalle, quella semplice diagonale metallica, che pare il reperto di un cantiere, riesce infallibilmente a stupire. Massiccia ed elegante, aerea e solida, una prova da architetto astratto che per una volta non si è risolta in una tortura.
Come ben sanno le fan della prima ora, che continuano ad acquistare e acquistare sempre l'identico tacco montato su varianti e per stagioni diverse - pump, sandalo, tronchetto - la " Eamz", pur rodata, stra-fotografata, entrata nei musei, ormai tra le icone del design da calzatura, ha il potere di catturare subito lo sguardo del passante, dirottarlo verso il piede e materializzare la nuvoletta del fumetto: "È possibile stare in equilibrio su quella roba lì???".
Non solo è possibile, ma viene proprio naturale. E il piede non è issato su uno spillo, costretto a inventarsi a ogni passo un nuovo baricentro, ma si sente confortevolmente agganciato al suolo e può andare di fretta senza il rischio di franare o ticchettare come le stiletto-addicted.
Dietro un altro modello di punta di Koolhaas, la scarpa ispirata al nastro di Möbius, dove tacco, suola e tomaia non si interrompono mai, pare ci sia la voglia di stupire, e riconquistare, una donna amata. Con la signora in questione non si sa come sia andata a finire, ma con migliaia di altre, da Lady Gaga e Björk alle comuni mortali, l'archistar ha iniziato una inossidabile storia d'amore.

twitter@boria_a

venerdì 10 ottobre 2014

IL LIBRO

 Non ho l'arma che uccide il leone

Elda che ha perso tutti i denti per l'elettroshock, che mangia dal piatto degli altri e ogni sera dorme in un letto diverso, infilandosi in quello di qualche compagna. Nadia che è arrivata a quattro anni e ha scoperto la vita "fuori" solo da adulta, "ricattata" dalla famiglia con regali perchè ritorni in fretta all'ospedale, senza essere un peso. Carla e Giovanni che hanno coronato il sogno di stare insieme sotto lo stesso tetto, tra grandi difficoltà economiche, in una casa che il parroco non benedice, perchè convivono. E ancora Sergio, un omone sradicato e dipendente dalla mamma, Giovanni, il profugo schizofrenico, Rosina, Carletto, Nevio.
Sono alcuni dei protagonisti delle storie raccolte da Peppe Dell'Acqua tra le mura di quello che, all'epoca, era l'ospedale psichiatrico di San Giovanni e confluite nella prima parte del libro "Non ho l'arma che uccide il leone", oggi alla sua terza edizione per i tipi di Alphabeta Verlag. Nella Giornata mondiale della salute mentale, queste storie hanno preso vita e corpo nell'ex Opp di San Giovanni, lette per l'occasione da esponenti del mondo politico, istituzionale, culturale, dell'associazionismo e della salute mentale, a testimonianza, quarant'anni dopo la chiusura del manicomio, che quella di San Giovanni è una storia, e una conquista, che appartengono a tutta Trieste. In una serata-evento, presentata da Massimo Cirri, conduttore di Caterpillar di Rai Radio 2, al fianco dello stesso Dell'Acqua, le storie di questi uomini e donne, le loro vicende di cadute e rinascite, di piccoli passi e sconfitte, di emancipazione e fragilità, incorniciate nella grande storia di San Giovanni, nella rivoluzione "che ha cambiato il mondo", hanno trovatola voce, tra gli altri, del sindaco Cosolini, del senatore Russo, della presidente della Provincia Bassa Poropat, dell'assessore alla Cultura Tassinari, del direttore dello Stabile Però, del questore Padulano, di Misculin dell'Accademia della follia, e ancora di medici, attori, giornalisti, dei magistrati Tamborini, Carlesso, Dainotti, Antoni.
Tutti, una trentina di lettori, a ricordare che "Non ho l'arma che uccide il leone" non è un libro per addetti ai lavori, ma per tutti coloro che vogliono conoscere il senso di una battaglia ancora in corso, per le giovani generazioni, com'erano tanti i giovani che, all'epoca della riforma Basaglia e al fianco degli operatori, sostennero una trasformazione culturale cruciale e aprirono le porte della città ai "matti di San Giovanni".
Il volume si compone, nella prima parte, di ventidue racconti, scritti in forma diretta e molto soggettiva, affiancati da appunti che restituiscono al lettore emozioni, nostalgie, memorie, riflessioni. La seconda parte riporta la cronologia dei fatti e delle circostanze, dal '71 al '79, le tappe del percorso del cambiamento nell'approccio alla malattia mentale. «Beppe - scrive Franco Basaglia nella presentazione inedita al volume, datata ottobre '79 - ha voluto raccontarci delle storie come le ha vissute da psichiatra che fortunatamente non capiva cosa volesse dire essere psichiatra, e probabilmente l'internato che gliele raccontava non capiva cosa volesse dire essere internato...».
Così si inventava e si costruiva una "complicità", una potenziale "pariteticità". Si cercava insieme, se non come uccidere il leone, almeno come tramortirlo, come riacquistare un'identità sociale che non fosse quella del malato di mente. Un percorso che ritroviamo tutto nella "storia esemplare" di Giovanni Doz, l'internato istriano "guarito" dall'istituzione: dopo vent'anni era diventato un oggetto e riusciva ad avere rapporti solo con altri oggetti, con i letti che ogni mattina riassettava all'Opp. È attraverso il disegno che il dialogo difficile tra paziente e medico comincia ad avviarsi. Dell'Acqua scopre così che "Messina", quella parola spesso biascicata dall'uomo, è il nome della barca con cui andava a pescare insieme al padre e ai fratelli. Dal disegno, prendono forma i desideri di Giovanni, pian piano realizzati: un'uscita, l'incontro con la famiglia, le prime esperienze "fuori".
Ancora Basaglia ricorda nella prefazione: quando Beppe andò in Jugoslavia, a San Giovanni di Umago, con Giovanni Doz, erano cadute le mura di Gerico del manicomio di Trieste. Il ritorno al paese era il principio della liberazione.
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Marco Cavallo all'interno dell'ospedale psichiatrico di Trieste

sabato 4 ottobre 2014

MODA & MODI

Runway gay correct

Americans do it better. Il talent della passerella in versione nostrana è come le italiche serie tv sui medici: provinciali, noiose, con dialoghi surreali, soprattutto buoniste e politically correct. Poteva essere un'occasione, questa di Project Runway Italia - la cui prima puntata è andata in onda mercoledì su FoxLife - per rilanciare dalla tivù i concorsi tra aspiranti stilisti, ormai fagocitati dal Young Fashion Designer Prize del gruppo del lusso Lvhm, che ha una giuria stellare e quindi un surplus di attenzione dai media. Bastava copiare pari pari l'originale americano, i suoi ritmi, la sua cattiveria e la sua fantasia, metterci una presentatrice simpaticamente nazi come la pannonica Heidi Klum, un mentore cicisbeo con eleganza alla Tim Gunn e soprattutto scovare una decina di personaggi in grado di bucare un pezzo di stoffa e così pure lo schermo. Invece, l'italian runway, non ha nemmeno partorito l'equivalente Rachida di Masterchef, capace di far impazzire gli hashtag con gli etno-foulard e la lacrimuccia finta.
Un esempio concentrato di provincial-surreale, politically correct da passerella? Il malcapitato concorrente Jacopo, paladino dei normalmente diversi, al quale gli autori fanno inanellare due sublimi scemenze: "vorrei essere il primo stilista etero a vincere un project runway" e, rivolto ai compagni di cameretta, "ma non c'è nessuno che vuol vedere la partita?", battuta seguita da uno sfarfallio di manine orripilate (ma come? con tutti i gay che ci sono nel calcio, neanche un gay al quale piaccia guardarlo??).
Gli altri maschi del programma, va da sè, hanno gareggiato in outing più che in vestiti, come se non avessero mai sentito dire che ormai, per fare sollevare un sopracciglio al fashion, di sessi devi averne almeno due e possibilmente indistinguibili.
Gli abiti non hanno fatto più storia dei concorrenti, tra tovagliati da pic nic, leopardi a casaccio e creazioni uscite da un impazzito Edward mani di forbice. L'emergente Salvo ha vinto la puntata con una sua interpretazione della donna metropolitana, che se ne va in giro con un paio di short fiorati su una giacchetta bluette coperta da un rigoglio di rushes, cappellino da baseball in tinta e camicia di pizzo. A scelta l'occasione in cui indossare l'«outfit»: majorette di paese o soccer mom?
L'unico commento sottoscrivibile della puntata è della stilista Alberta Ferretti: «Anche no».
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4 marzo 2014