domenica 30 novembre 2014


MODA & MODI

Profondo bordeaux 



Tra l'anonimo grigio e lo strillato arancione, spunta per l'inverno un nuovo colore-rifugio, il bordeaux. Impegnativo perchè austero, autorevole, vagamente curiale, ma anche pastoso e avvolgente, come un deciso bicchiere di rosso. Che riscalda e rincuora, senza esagerare.
Ci siamo sentiti ripetere fino allo sfinimento nei mesi scorsi che "grey is the new black" e anche che "orange is the new black" (qust'ultimo adagio sulla scia dell'omonima serie tv, uno dei nuovi successi Usa, dove l'arancione in questione è quello delle divise del carcere femminile Litchfield: colore-corazza, dunque, dentro cui fronteggiare i freddi a venire...).
Ma il grigio, per quanto le griffe si siano sforzate di galvanizzarlo con tocchi da star trek, glitterandolo e trasformandolo qua e là in argento, rimane una tinta ostica, che porta con sè l'idea delle mezze maniche da ufficio, del grembiule del bidello, della sottana della suora, della fodera cattura-macchia. E l'arancione? Mette allegria, è "vitaminico", come piace al gergo della moda, è il colour block per eccellenza, quello che buca, che non passa e non fa passare inosservati. Tutte qualità sacrosante, che hanno un comune risvolto della medaglia: l'arancione stanca. Si mette un po' di volte e man mano esaurisce la sua batteria, diventa "già visto" e "troppo visto", si spompa.
Il bordeaux, al contrario, con la sua palette che va da un estremo all'altro, non pretende di essere "the new black", il colore-non colore che soddisfa una gamma vastissima di identità, dalle fashioniste alle feticiste, dalle dark alle luttuose, dalle poco fantasiose alle insicure. Si impone senza essere invadente.
Mia Tanjevic, modella d'eccezione
Sulle passerelle si è visto nei due estremi opposti della palette, vicino al rosso rubino, più gorgogliante e vivace, o nelle sfumature del melanzana e del prugna, quasi contiguo al nero. In mezzo tutta una declinazione di rossi profondi, antichi, con cui sbizzarrirsi a costruire accostamenti. Pantaloni, abiti, cardigan, ma anche cappotti e mantelle. Scarpe, borse e cappelli non fanno eccezione: il borgogna si declina in capi e accessori, dalla testa ai piedi.
L'abbinamento preferito dagli stilisti è col nero, ma lo si trova combinato col panna, col grigio, col verde muschio, perfino col bluette. Chi lo ama può osare il total-red, meglio se alte e slanciate. È il colore del passaporto, un passe-partout, appunto, per ore e occasioni diverse, al lavoro o da gran sera.

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sabato 29 novembre 2014

IL LIBRO

Shopping noir



La copertina del libro di Radhika Jha


Puro attimo di felicismo. Quando dopo un confronto fisico e mentale di pochi attimi, strappandosi di mano l'attaccapanni e incenerendo l'avversaria con lo sguardo da predatore, si conquista l'oggetto supremo del desiderio, si chiami Prada, Miu Miu, Fendi, Burberry, La Perla, Christian Dior. È una guerra e le donne sono i samurai dello shopping, nei grandi department store di Tokyo come sul campo di battaglia: determinate, implacabili, insaziabili. Sete di shopping come di sangue, per una Vuitton o un paio di sandali di Ferragamo si ammazza o ci si ammazza. La posta in gioco è la felicità, anzi, quel felicismo che gli americani hanno introdotto in Giappone, e che ti porta a raggiungere una condizione di totale appagamento, un'estasi che ti fa uscire da te stesso e contemplarti dall'esterno nella tua perfezione, solo acquistando e accumulando voracemente. Felicismo uguale consumismo.
Non facciamoci ingannare dal titolo, "Confessioni di una vittima dello shopping" (Sellerio, pagg. 249, euro 16,00), qui la Kinsella, con suo spendere esilarante e spensierato da chick-lit, dove c'è sempre un Mr. Right dal pingue conto in banca che salva e convola a nozze con la dissipatrice, non c'entra niente. Il romanzo di Radhika Jha, scrittrice indiana che ha studiato in America, ha vissuto a Tokyo e ora risiede a Pechino, è uno spietato e nero viaggio nella mente di una serial shopper, che scopre nell'acquisto compulsivo il modo di rompere la ferrea routine di moglie di un uomo in carriera e madre di due bimbi piccoli, costruendosi una vita parallela.
Per la giovane Kayo l'incontro fatale è con una vecchia compagna di liceo, l'affascinante Tomoko - che già anni prima le aveva propiziato un appuntamento con il futuro marito, complice una gonna griffata Burberry, prestata dall'amica - donna di suprema eleganza e mestiere misterioso, ma neanche poi tanto. Grazie a lei, Kayo entra in un club, governato da un segreto: la stessa appartenenza al club. Le donne che vi fanno parte - casalinghe con tanto tempo e pochi yen e impiegate con più denaro ma niente tempo, divise da odi e invidie feroci - sopravvivono all'interno solo se sono, appunto, samurai, se riescono a mentire sul conto familiare che si prosciuga, se trovano usurai pronti a prestare soldi e ad alimentare la catena di menzogne, se corrompono commesse ed entrano nel giro delle svendite, se lottano senza risparmiarsi ai due lati di un appendino col capo concupito. Se, infine, come succede a Kayo, imparano a sfruttare madre natura per continuare a rimanere nel club.
Pagina dopo pagina, cresce l'ossessione della protagonista. È una droga, che «inizia come un solletico alle dita dei piedi, poi senti le bollicine invadere ogni cellula del tuo corpo. Evaporate le bollicine, ecco che un'olimpica concentrazione prende possesso del cervello: la caccia ha avuto inizio...». Ma cresce anche la difficoltà per Kayo di mantenere distinte e distanti le sue identità parallele, che corrono verso l'inevitabile collisione.
Fino all'ultimo Radhika Jha tiene il lettore sul filo di questo romanzo cinico e dark. Pare che tutto sia destinato a concludersi per la protagonista nel tempio dove il marito l'abbandona, a contatto con la perfezione della natura e la frugalità delle abitudini. «Ma niente rimane com'è... - dice Kayo - tranne i vestiti. Per questo i vestiti mi piacciono tanto. Se hai i vestiti non hai bisogno di amici e nemmeno della famiglia». Così se i vestiti, se il felicismo è violato, si può arrivare a uccidere.
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venerdì 28 novembre 2014

MODA & MODI

Una seconda pelle


Attraverseremo l’inverno con una seconda pelle. Morbida, colorata,
fluida, lavabile e rigorosamente “eco”. Il giubbino da biker, riscoperto nella primavera appena passata ma “ripulito” dalla sua identità punk e
rock, per abbinarsi (e ingentilire) vestitini a fiori, abiti da sera lunghi fino ai piedi, gonne plissè e pantaloni a sigaretta, resiste e non sarà certo l’unico ritaglio di pelle nel guardaroba. Anzi.
Dai grandi magazzini alle griffe, l’ecopelle è una tendenza trasversalee democratica (attenzione, però a non farsi prendere dal “trip” green e arraffare qualsiasi cosa venga spacciata come “naturale”: si tratta sempre di un prodotto di derivazione animale che viene conciato con metodi rispettosi dell’ambiente, mentre la “pelle sintetica” può essere anche un tessuto, ma “spalmato” di materiali plastici o composto di sola
plastica). Di eco-pelle ce n’è per tutti i budget, chiunque voglia togliersi lo sfizio di un pezzo potrà permetterselo, la differenza la faranno solo - firme a parte - qualità e ricchezza di tagli e dettagli.
È una pelle, quella della stagione 2014-’15, finalmente elegante e discreta, avvolge il corpo, accompagna le forme, non le imbusta in un involucro spigoloso e innaturale. E anche i colori non si limitano al nero, che è comunque predominante, ma si sbizzarriscono in un’ampia
palette di nuance: il grigio, il bianco, dal ghiaccio al torrone, il verde, il bluette, il blu profondo, il mou, l’arancio...
La pelle degli anni Ottanta e Novanta è un ricordo lontano. Allora si trattava per lo più di pantaloni taglio jeans o di pencil skirt col piccolo spacco posteriore per agevolare il movimento dentro un indumento rigido. Di qualche soprabito dal sapore vagamente prussiano. O dellegiacche degli anni del punk, borchiate e arrabbiate per i più ortodossi,
con le spalle rinforzate, i grandi revers, le punte aguzze per le signore alla “Dallas”, che amavano cotonarsi e corazzarsi.
Ecco, è tempo proprio di cambiare pelle. Che ora ha la consistenza di una seta e disegna capi ben definiti: la gonna a ruota, o pencil ma con tasche che sporgono come appendici, la camicia con la cascatella di rushes o decorazioni di tagli al laser, legging o pantaloni a campana, anche la gonne-pantalone, altro must “reloaded”. I più belli sono gli abiti, che spesso hanno tasche e applicazioni in camoscio, o i vecchi “scamiciati”, alla Claire di “House of Cards”, raffinatissimi con la camicia bianca maschile o le resuscitate dolcevita. È una pelle molto adattabile, basta non cedere al total-skin da motociclista.
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giovedì 27 novembre 2014

 MODA & MODI

 Abominevoli donne delle nevi




A vederli in passerella si prova un insostenibile e malinconico senso di déjà vu. Anni Ottanta e cinepanettoni, vacanze di Natale a Cortina nei tempi storditi in cui non c'erano i raid degli scontrini fiscali e le signore (ma anche i signori...) sullo schermo se li sfilavano un attimo prima di saltare nell'ennesimo letto (occupato) a disposizione. Doposci pelosi, praticamente l'equivalente "erotico" degli stiletto nelle stazioni sciistiche in voga, dove era d'obbligo farsi paparazzare in tenuta da abominevoli donne delle nevi, e più il pelo era morbido e lungo, più faceva status symbol, era "it" oggi traduciamo, e pazienza se dopo pochi metri sulla neve urbana si era calzati da una sorta di mocio irsuto, ispido e appiccicoso. Sono tornati. Ed è questa estate inconsulta, a renderceli più digeribili in pieno agosto, come "tendenza" per l'inverno a venire, quando il precedente non ci ha quasi ancora mollato.
La voglia furry, la tentazione pelosa, si insinua nel guardaroba già da un po' di stagioni. Chanel e poi Dolce & Gabbana hanno fatto da apripista, è il caso di dirlo, già nel 2010, con doposci da città dal tacco altissimo dissimulato sotto la pelliccia. Quest'anno senza un tocco di pelo, un cespuglietto sulle scarpe o sulle borse, non ci si sposta. E mentre siamo attentissime a strappare alla radice dal corpo ogni accenno pilifero a prezzo di indicibili torture, la moda ci ricopre di un manto esuberante e posticcio, colorato ed eccessivo, quasi una compensazione termica.
Hedi Slimane per Saint Laurent si è fatto un po' prendere la mano, o il piede, proponendo stivaletti dal pelo lunghissimo e nero, alti fin quasi a metà polpaccio, con una sorta di cavigliera che accentua l'effetto yeti. Per chi non ama il boot preistorico, c'è l'opzione scarpa o sandalo, con un esuberante lapin ad avvolgere anche la caviglia, trattenuto da lacci di pelle. Se siete tipe sportive, ecco la (confusa) versione scarpa da ginnastica o scarponcino in pelliccia ma con tanto di carroarmato, mentre per la sera i sabot alti sfoggiano piccoli sbuffi scuri o colorati in punta, ispirati alle ciabattine da camera delle dive da Telefoni bianchi.
Il "mood" Vacanze di Natale risucchia un po' tutti gli accessori: ecco i guanti di pelle e cincillà, le clutch o le mega-borse di ecopelliccia degli Antenati, lo scaldamani bordato di pelo. Una sorta di irsutismo che si diffonde su tutto il corpo, dalle orecchie alla punta dei piedi. Allegro? Come i Vanzina reloaded: strappano un sorriso e gli perdoni quel po' di cattivo gusto.

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martedì 25 novembre 2014

 IL LIBRO

A Longbourn house


Jo Baker autrice di "Longbourn house"


Chi sopportava le scottature tra le dita per arricciare col ferro caldo i capelli delle signorine Bennet? Chi scrostava il fango dai loro abiti di mussolina o si sobbarcava miglia al buio e sotto la pioggia torrenziale per rifornirle di rose da applicare alle scarpe da ballo? Chi svuotava i pitali dei pretendenti o preparava pasti leggeri per le convalescenti dalle pene d’amore?
Le si ami o le si odi le cinque ragazze Bennet di “Orgoglio e pregiudizio”, e tra loro soprattutto l’indimenticabile Elizabeth - da tempo sfuggita col suo Darcy alle pagine di Jane Austen per occupare quelli che un tempo si chiamavano sceneggiati, poi le fiction televisive, il grande schermo in prima persona o attraverso le continue citazioni in altri film (ricordate la passione smodata che per lei nutriva la Meg Ryan botox-free in “C’è posta per te”?) - delle Bennet, appunto, dei loro sospiri, batticuori, retropensieri, delle strategie al tavolino da té per assicurarsi un marito, sappiamo tutto. Nulla sappiamo, invece, di chi si muoveva e che cosa succedeva nelle stanze della servitù, quelle che oggi, anche grazie al successo di prodotti televisivi raffinati come Downton Abbey (e, a metà degli anni ’70, l’antenata Upstairs Downstairs della Bbc, da noi “Su e giù per le scale”, che ispirò appunto Julian Fellowes per la sceneggiatura di Gosford Park e poi per “Downton”), sono tornate di gran moda e suscitano curiosità.
Perchè ai “piani bassi”, almeno all’epoca, si riproducono le stesse dinamiche personali, le stesse tensioni e sopraffazioni, le gerarchie e le alleanze che dominano quelli “alti” e anche “downstairs” ci si strugge e si inganna, si maltrattano i sottoposti e si palpita per amore.
“Longbourn house” di Jo Baker (Einaudi, pagg. 373, euro 18,00, con l’ottima traduzione di Giulia Boringhieri) non comincia là dove finisce “Orgoglio e pregiudizio”, piuttosto racconta quelli che nel romanzo della Austen sono fantasmi, l’ipertesto dell’amore di Elizabeth e Darcy, di Jane e Bingley, la vita dei domestici nell’Inghilterra di inizio Ottocento, che consigliano e consegnano, cucinano e corrono, su e giù per le scale delle insuperabili differenze e diffidenze di classe.
Ecco Sarah, la giovane cameriera che si lascia abbindolare dalle attenzioni del valletto Ptolemy Bingley, Tol, l’esotico mulatto figlio del ricco Bingley e di una delle sue schiave. «Se siete una delle sue proprietà prendete il suo nome» spiega l’uomo alla ragazzetta, e la scena segue alla lettera il copione di Downton Abbey, quando il maggiordomo Carson chiama il cameriere arrivato dall’America al seguito del fratello di Lady Cora, Harold, col cognome del suo datore di lavoro, mettendo subito in riga l’irritazione del giovanotto yankee: «In questa casa vi chiamate come il padrone». C’è la signora Hill, saggia governatrice della piccola comunità dei domestici, la giovane Polly, salvata da un destino da orfana e messa subito a servizio, il silenzioso James, servitore dal passato misterioso racchiuso in uno zaino pieno di conchiglie, che lascia intuire come tante volte quello che l’autrice chiama il “sacco amniotico” tra i due mondi, servi e padroni, venga rotto, con conseguenze amare.
Dopo l’incursione nella Spagna delle guerre napoleoniche, al seguito di James (parentesi lunga, forse troppo, ma funzionale a dare sostanza al personaggio), il finale ricompone il quadro domestico delle ragazze Bennet, felicemente maritate o disonorate, ritagliando per la fida Sarah un ruolo da protagonista, ben diverso da quello della sedotta e rassegnata.
Come in “Piccole donne” ogni capitolo ha un piccolo sunto in corsivo e per le affezionate della Louisa May Alcott è una piacevole sorpresa scoprire che il “calicò”, cotone economico per i vestiti da casa delle signorine, di qua e di là dell’oceano, con grandi sogni di marito e piccoli mezzi, non è ancora andato in disuso.

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La scrittrice Jo Baker

domenica 23 novembre 2014

MODA & MODI 

Gli acchiappa-falsi

Voglia di un accessorio "it", una borsa, un paio di scarpe o di occhiali, di un abito griffato ma fuori budget? Per qualcuno che cerca, c'è sempre qualcun altro che ha voglia di liberarsi di qualche pezzo "storico" per far posto al nuovo, possibilmente recuperando parte dell'investimento. Ma quando si parla di moda, tra domanda e offerta di griffe, soprattutto sul web, c'è di mezzo un rischio: l'imitazione.

Quanti, da una semplice schermata, da uno zoom pur accurato su etichette e rifiniture, saprebbero distinguere l'autentico dal falso, la sospirata Chanel, Vuitton, Bottega Veneta da un filologico fake? Ci è caduta anche Susie Bubble, come ammette nel suo blog: davanti a cinque pezzi autentici e ai loro rispettivi falsi, ha saputo riconoscerne solo uno. Quando in una borsa non si può ricorrere ai numeri di serie, introdotti solo a partire da determinate stagioni o annate, bisogna destreggiarsi con cuciture e qualità delle pelli. Toccare con mano, letteralmente, è indispensabile. Meglio ancora, se a farlo è un esperto.
  
La francese Vestiaire Collective (www.vestiairecollective.com) è una piattaforma web per l'acquisto e la ri-vendita di moda e accessori di lusso che ne ha a disposizione un intero team. Sono i professionisti a valutare l'autenticità di abiti e accessori dei privati e a giudicare la congruità del prezzo: prima di fare passi falsi, quindi, è meglio fare un po' di surfing nel sito e accertarsi delle quotazioni dei pezzi simili al proprio, perchè una sopravvalutazione può mettere in allerta la "community" dei potenziali acquirenti, piuttosto attenta ed esigente.




Il primo passo è registrarsi, con eventuale foto e un mini-identikit fashion: griffe preferite, taglia, numero di scarpe. A questo punto la caccia all'oggetto dei desideri è aperta o, invece, si può aprire bottega, inviando le immagini di quello che si vuole cedere. Se sarà giudicato in linea con gli standard del negozio virtuale - piuttosto alti: l'articolo deve essere griffato, di tendenza o vintage, in perfetto stato - il capo o l'accessorio verrà inviato a Parigi per l'expertise e poi messo in vetrina. L'e-commerce diventa sempre più social, così sulla piazza di Vestiaire si può presentare i look preferiti, scambiare pareri con gli altri utenti, avere like e follower, diventare influencer. La marcia in più sono gli acchiappa-tarocchi, trait d'union tra chi vende e chi compra: nel far west del web una sicurezza per le brand-addicted.

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venerdì 21 novembre 2014



MODA & MODI

 La gauche leopardata 





Boxer di sinistra e mutande di destra? Si è discusso a lungo, e un po' stancamente, sui retroscena ideologici dell'intimo maschile. Dopo l'ottobre 2013, quando Maria Elena Boschi, deputata del Pd, si presentò alla Stazione Leopolda di Firenze su décolléte  animalier tacco dieci, padrona di casa alla tornata di incontri voluta da Matteo Renzi, il dibattito si è spostato e infervorato sul messaggio politico dell'abbigliamento femminile. La leopardata, nell'immaginario comune, è molto prossima alla pitonata, alla serpentifera Santanchè, che dei suoi rettili fa un inequivocabile manifesto di intenti. Conclusione: la futura ministra Boschi ha scelto di non smacchiare il ghepardo, testimoniando una volta di più la deriva a destra dell'emergente ala renziana del Pd.

Del leopardo dopo la Leopolda si occupa, gustosamente, "Glamoursofia" (Il melangolo, euro 7,00, pagg. 93) un librettino da borsetta scritto da Debora Dolci, ricercatrice in Scienze filosofiche, e Francesca Gallerani, esperta di moda, per aiutarci a riflettere sul fatto che nutrire il proprio spirito non significa per forza andare in giro con la gonna di velluto e gli zoccoli. Con tanto di spiegamento filosofico, da Nietzsche a Kant a Heidegger, passando per l'inevitabile Roland Barthes, le due autrici si rivolgono alle figlie delle figlie del femminismo, che non hanno alcun bisogno di bruciare indumenti e di dimostrare, castigandosi in involucri scoloriti, che "oltre le gambe c'è di più", magari un cervello.
Ma torniamo al punto: il leopardo e i tacchi a spillo fanno destra? E cosa dovrebbe indossare una donna per "apparire" di sinistra, quarant'anni dopo quella cultura hippie che considerava anche la moda un affare "politico", una dichiarazione di attivismo e impegno?
Le scarpe della Boschi aggiornano lo scenario: l'abbigliamento oggi è solo una scelta estetica, in passerella vediamo l'eskimo o gli anfibi svuotati da ogni messaggio, da ogni rimando ad appartenenze e schieramenti. L'antropologo Ted Polhemus lo chiama il "supermarket degli stili": possiamo essere punk, grunge, rocker, castigatrici o madonnine, senza dover sposare alcun credo o crearci un'identità immodificabile. Gli abiti continuano ad avere significati, ma sempre più allargati e meno rigidi. E la signora impegnata à gauche può camminare su stiletto maculati, con l'unica preoccupazione di non franare.

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mercoledì 19 novembre 2014

MODA & MODI

 Il moderno gentleman 

Il manuale di Alex Pietrogiacomi



Se, archiviate le giornate della moda maschile, vi è rimasta un po' di confusione tra "pinocchietti" ("simbolo dell'abbigliamento più triviale e insensato") e "pinocchi" ("millantatori di stile", di cui su blog e trasmissioni tv c'è un vero saldo...), cogliete il consiglio di Alex Pietrogiacomi: tornate ai fondamentali. Non gettatevi allo sbaraglio nel guardaroba maschile, cercando di pescare qua e là a casaccio dalle cosiddette icone mediatiche, un Lapo Elkann o un David Beckham, tanto per fare degli esempi, (il che sarebbe come saltare al pentametro giambico senza sapere la grammatica), ma cominciate dalle basi, tenendo presente che l'eleganza è un processo lungo, faticoso e a volte disorientante e che non ha a che fare solo con quello che uno si mette addosso, ma con un modo di vivere, rilassato, equilibrato, di gusto, senza surreali scopiazzature.
S'intitola "Semplice, elegante. Piccolo prontuario ad uso del moderno gentleman", il vademecum messo a punto da Pietrogiacomi, giornalista, scrittore, conduttore radiofonico, ma soprattutto amante della ricerca "artigianale" del bello (editore Giubilei Regnani, pagg. 228, euro, 13,00).

Una mappa - l'autore la definisce un "bugiardino", perchè evita come la peste la "cattedraticità" dei maestri del vestire - leggera ma ricca di informazioni, che parte da una regola fondamentale, la stessa che indicava Balzac nel suo "Trattato della vita elegante": UNA, unità, nettezza e armonia. Un acronimo che possiamo adeguare agevolmente ai tempi moderni: sobrietà. Tratto che ha una carica esplosiva e che, all'occhio femminile, permette di individuare a colpo, in una sala gremita di doppiopetti, una cravatta giusta, una pochette non invasiva, l'accensione di una sigaretta. Iniziare dalle basi, dunque, senza timidezza. Dalla rasatura, alle mani, ai profumi (e qui Suskind ci vuole: "colui che domina gli odori, domina il cuore degli uomini", oltre che una chiacchierata con l'istrionico maestro profumiere di Varmo, Lorenzo Dante Ferro), proseguendo attraverso intimo, calze, camicie, giacche, pantaloni, bretelle e cinture, cravatte, capispalla, scarpe per finire con cappelli, ombrelli, bastoni, e un capitolo sull'arte del fumo: il tutto corredato da interviste e indirizzi utili.
Tra snob e dandy, poi, ce ne corre. A proposito di questi ultimi, il suggerimento di Massimiliano Mocchia di Coggiola, conte: «Cerco nel mercato del vintage, nei negozi e nel su misura. Le marche non mi interessano, a volte le scucio dalle giacche di confezione: cerco soltanto l'effetto e la qualità del prodotto».


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lunedì 17 novembre 2014

MODA & MODI


Col pallino dei pois 

Esagerati o minuscoli, mandano in palla l'intero guardaroba. Perchè quest'estate ha un pallino: i pois. Fantasia che mette d'accordo vecchio e nuovo, i negozi di tendenza e quelli vintage. Eccoli, sulle sete degli anni Trenta, piccoli e dicreti, poi più grandi e scanzonati per gli abiti e i costumi da bagno dei Fifties, oggi riesumati dalle professioniste del new burlesque come Dita von Teese, o combinati con azzardo e miscelati ad altre stampe nella versione urbana reloaded. Per chi li ama da sempre, e si sente a "bolla" solo con un capo o accessorio puntinato, è il momento giusto per dar sfogo alla propria mania: i poissono tra i top trend di stagione. Intergenerazionali, senza tempo e un po retrò, mai sopra le righe, sanno alzare il volume a palla e diventare aggressivi e trasgressivi. Questione di dimensioni, ma soprattutto di colori e abbinamenti.

I polka dots (eh sì, tutto comincia con un ballo, in voga fino a fine '800, e quei pallini richiamano le file ordinate dei danzatori...) hanno una storia lunga e immagini indimenticabili passate dagli schermi alle cronache di moda: dall'ombrellino rosso a pallini bianchi di una Marilyn in costume nel 1952, alle sue curve fasciate di puntini in "The seven year itch" del 1955, dal due pezzi di Audrey Hepburn alla Julia Roberts in pois bianchi su fondo cacao per la partita di polo in Pretty Woman.


Periodicamente ritornano in auge, senza mai essere usciti dall'armadio. Perchè lo stesso top blu a bolle bianche va d'accordo con i micropants delle ragazzine, ma basta infilarlo in un paio di pantaloni a vita alta, appoggiarlo sulla pencil skirt, perchè sia perfetto per la passeggiata della mamma. E le varianti cromatiche, dagli occhiali alle scarpe da ginnastica, dalla pochette alle camicie, sono infinite: il classicissimo pois bianco su fondo nero o blu, il nero sul verde, il giallo sul nero, il puntolino bianco in campo mou, la mega bolla bluette che campeggia sul rosso.


La versione più contemporanea, li vuole giganteschi, ispirati alla op-art. O abbinati alle righe, in quello che potrebbe sembrare l'accostamento più strampalato. Mina sostituiva i pois alla sua zebra canora, ma oggi bolle e strisce vanno d'accordo.

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sabato 15 novembre 2014

MODA & MODI

Claire, camaleontico potere



Robin Wright, Claire in "House of Cards"



Le fan di "House of Cards", serie televisiva cult (in Italia su Sky Atlantic) che tra i fedelissimi conta anche il presidente Obama, ne sono stregate: Claire Underwood, protagonista femminile interpretata da Robin Wright, algida, siderale, impenetrabile, moralmente frigida lady Macbeth, è la nuova icona estetica al femminile. Non solo perchè è la perfetta metà di suo marito Frank, deputato democratico assetato di potere e con pochi scrupoli, che nella serie ha il volto comune e spietato di Kevin Spacey, ma soprattutto perchè il suo guardaroba è diventato in poche puntate un fenomeno glamour virale. Se ne parla dappertutto, giornali, blog, riviste. Lei è altissima, porta i capelli corti scolpiti al millimetro (prima rivoluzione: quando mai l'eroina non ha boccoli o chiome piastrate almeno fino alle spalle?), trucco impercettibile e pochi capi che ricicla: camicie, tailleur, pencil skirt, trench, vestiti a guaina, grandi borse appese all'avambraccio. Potrebbe ricordare una Christine Lagarde più giovane, con la stessa silhouette sottile e imperativa, ma Claire non fa mai concessioni al colore, nemmeno su un foulard o una pochette.
Fin dalle prime puntate, il suo stile ha annientato quello dell'avversaria tivù che frequenta le stesse stanze del potere, Casa Bianca e dintorni, la curvy Olivia Pope di "Scandal" (l'attrice Kerry Washington), tutta una palette di colori marzapane, pantaloni a pelle, rushes e volant imbizzarriti, dentro cui la signora piange, si strugge per amore del presidente americano, si macera per la scia di sangue che lascia dietro di sè. Claire non lascia trasparire debolezze, le gestisce e le maschera con tocco impeccabile. Anche quando spalanca il frigorifero e ci caccia la testa dentro per superare una vampata di calore è inguantata in uno dei suoi shift dress tinta unita, che lasciano le braccia scoperte e modellano la figura senza involgarirla, fermandosi appena sopra il ginocchio. Ho tutto sotto controllo, ci dice, anche il passare del tempo, anche quello che non mi piace. E così i tailleur con la camicia appena scollata, le cinture-bustino, le gonne a tubo, l'assenza totale di accessori con cui scivola accanto al marito, superbamente anonima. Rimette gli stessi vestiti, ma non è un vezzo alla Kate Middleton, da principessa che gioca al risparmio. Una divisa da guerriera: sono qui e conto, dice Claire, soprattutto perchè non ve ne accorgete o vi accorgete solo di un tubino già visto. Nero, bianco, grigio, beige, blu. La sua palette è limitata, una seconda pelle in cui si muove da regina. Perchè il potere vero è camaleontico.

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lunedì 10 novembre 2014

MODA&MODI

 Il beach-vintage è a rischio 





Il bikini cambia proporzioni, ma non ci rassicura. Se poi cambia anche nome, e diventa hipkini, s'impone una lunga pausa di riflessione davanti allo specchio. Eccoci catapultate dal caldo improvviso all'appuntamento con la rimandata prova costume. E quanto si vede nelle vetrine, quei nonnulla tentatori dai colori esplosivi, quei tutto d'un pezzo ormai così squarciati da essere due pezzi sotto mentite spoglie, sono la più attendibile valutazione dell'inverno trascorso a correre e sollevare, o, in caso contrario, una fonte ineludibile di rimorsi.
Cominciamo dal revival vintage, dal bon ton della moda mare coprente, con gli slip alti e il top che sembra un reggiseno contenitivo. Meno centimetri di pelle in vista, non significa, proporzionalmente, più difetti occultati. Pensate alla mutanda allungata fino all'ombelico: se la pancia non è tonica e piallata non basterà lo slippone a farla scomparire, peggio, la ciccia deborderà a filo, annullando il punto vita. Lo stesso vale per le cosiddette "maniglie": tutto quanto c'è in più da queste parti resterà esattamente lì, sotto il sole, siano triangolini o calzoncini. Vale anche per il reggiseno: se diventa più largo e conformato, top-bustier, l'effetto finale di questo over bikini è quello di un costume intero tagliato a metà. Vintage-beach elegante, discreto, stile hollywood anni '50, ma devastante per curvy e bassette, ulteriormente appiattite al suolo.
E il reggiseno a fascia o monospalla, trendissimo di stagione? La fascia oggi è più elaborata, ma nulla può contro la forza di gravità. Non a caso i top-bandeau, come i triangolini grandi quanto un capezzolo, sono i preferiti intorno ai dieci anni, quando si ha tanta ansia di reggiseno e nulla da reggere, o dalle adolescenti che possono permettersi il topless. Al di fuori di queste due categorie, ristrette, è consigliabile appendersi a quelle bretelline che, per quanto esili, raccolgono e sorreggono i dispersi.
Le definizioni nel beachwear si moltiplicano: hipkini è lo slip basso e sgambato che però non scopre il sedere, trikini o monokini sono gli interi con tagli, oblò, striscioline centrali da indossare a vacanza finita, per evitare la pelle animalier.
La scelta migliore rimane quella più semplice. Ai due pezzi si chiede di essere pratici e non mortificanti. Agli interi di coprire con eleganza, senza voler diventare da cocktail. Quelle scollature che ci farebbero scartare una camicia, perchè ritrovarsele sul costume?
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IL FILM

In viaggio di Marco Cavallo al Torino Film Festival

Il viaggio di Marco Cavallo è diventato un film. I quattromila chilometri lungo l'Italia percorsi in tredici giorni da questo animale di cartapesta, simbolo della battaglia per il riconoscimento della pienezza dei diritti ai reclusi nei manicomi giudiziari, sono stati raccolti e documentati in una pellicola di cinquanta minuti firmata dalla triestina Erika Rossi. Il film - di cui si sta mettendo a punto il suono, in pratica appena sfornato - debutterà in prima nazionale il 24 novembre fuori concorso al Torino Film Festival, dove è stato selezionato nella sezione "Diritti e Rovesci". A produrlo sono le Edizioni alphabeta Verlag di Merano - che realizzano anche la Collana 180-Archivio critico della salute mentale - mentre la fotografia è firmata da Daniel Mazza, che ha documentato "Piccola Patria" di Alessandro Rossetto. Erika Rossi, autrice di documentari a carattere sociale, si è già misurata sul terreno della malattia mentale: il suo "Trieste racconta Basaglia" del 2012 ha vinto il Trieste film festival ed è stato selezionato per le rassegne internazionali di Roma, Napoli, Glasgow, Split e Buenos Aires. Insieme a lei, come assistente alla regia, Giuseppe Tedeschi, che ha alle spalle, oltre a "Piccola Patria", esperienze al fianco di Pappi Corsicato, Luca Miniero, Carlo Vanzina, Giacomo Battiato.

Lo psichiatra Peppe Dell'Acqua e Marco Cavallo nel film di Erika Rossi

Quattromila chilometri, sedici città italiane, tra cui le sei sedi di ospedali psichiatrici giudiziari, un percorso guidato da Marco Cavallo, e dallo psichiatra Peppe Dell'Acqua, che "materialmente" e idealmente ne tiene le redini, per chiedere la chiusura dei manicomi giudiziari, scongiurare la loro sostituzione con "mini manicomi" regionali e battersi per l'apertura di centri di salute mentale operativi ventiquattr'ore al giorno. Perchè il viaggio di Marco Cavallo, sostenuto da molte istituzioni e premiato con la medaglia del presidente della Repubblica, prima macinando chilometri, adesso sugli schermi, vuole far conoscere a tutti che cosa e come si vive "dentro", dietro i cancelli dei manicomi giudiziari - dove in Italia ci sono ancora meno di un migliaio di internati - e come devono cambiare, "fuori", un'anacronistica psichiatria e una obsoleta legislazione, per garantire a tutti dignità e speranza di futuro.
L'umanità e gli spazi (alcuni in condizioni igienico-sanitarie pessime) che scopriamo intorno a Marco Cavallo, sono il cuore del racconto e, per la regista, l'impatto più forte dell'esperienza e il senso ultimo del viaggio e del film, che - dice - «sono stati molto importanti rispetto alla legge approvata il 28 maggio scorso».
«Siamo entrati in tutti e sei gli ospedali psichiatrici giudiziari - racconta Erika Rossi - e abbiamo avuto sempre l'impressione di un fortissimo anacronismo, di ambienti dove non c'è nulla di curativo nè di appartenente al nostro tempo. In tutte le strutture abbiamo presentato Marco Cavallo, e il senso dell'esperienza, la volontà di dar voce a chi non ne ha. A volte - prosegue Rossi - abbiamo trovato un clima "istituzionale", interventi preparati e soggetti scelti ad hoc. Ma altrove, come a Castiglione, si è sviluppato un confronto vero e proprio con gli internati. È stato un momento chiarificatore. Li abbiamo sentiti parlare dei loro diritti regolarmente violati. La cosa più dura da accettare, non solo come regista ma soprattutto come persona, è scoprire che queste persone non sanno nè "se" nè "quando" potranno uscire. Anche i permessi sono sepolti sotto una mole di burocrazia...».
Marco Cavallo, metafora dell'incontro, ma anche delle contraddizioni fra fuori e dentro. Fuori è sempre in movimento, percorre chilometri in autostrada, attraversa piazze, vicoli, strade. Dentro, è immobile, ascolta le voci, aspetta un segnale di cambiamento. «L'obiettivo del film - commenta Dell'Acqua - è di far conoscere questa storia e i risultati concreti raggiunti con il viaggio al maggior numero di persone possibili, cercando di contrastare la disinformazione e i luoghi comuni su una questione tra le più difficili da veicolare. Il film, inoltre, continua la campagna avviata lo scorso novembre, soprattutto per vigilare e denunciare le inadempienze che già numerose rischiano di tradire il portato della legge approvata nel maggio di quest'anno». La selezione al Torino Film Festival - accolta con «grande entusiasmo e soddisfazione» da Aldo Mazza, direttore delle Edizioni alphabeta Verlag - apre al film nuove prospettive e la speranza di conquistare ora i festival stranieri.

Per continuare la strada di Marco Cavallo, oltre i nostri confini.
twitter@boria_a


sabato 8 novembre 2014

MODA & MODI

Il soprabito non è trench 

Da Nicole Kidman, che li farà sfilare tra poco sullo schermo del festival di Cannes vestendo il guardaroba pastello della principessa Grace di Monaco, a Kate Middleton, signorina borghese diventata principessa vera, che ha portato il suo ultimo modello Missoni, riciclato in due occasioni pubbliche, sulle pagine e i siti di mezzo mondo. Il soprabito è tornato di moda in questa stagione, elegante, sartoriale, raffinato eppure adattabile a molte occasioni. Soprabito, chiamiamolo proprio così, in sintonia col glamour della moda italiana degli anni Cinquanta e Sessanta protagonista della grande mostra al Victoria & Albert di Londra, termine fascinosamente "polveroso", che ha messo in secondo piano il multitasking, funzionale, banale "trench", e i simil-burberry di poca fantasia, capi da pioggia sempre in grande spolvero a cavallo tra primavera ed estate.
Grace, e poi Jackie, Ingrid Bergman, e "icone" meno conosciute della moda, come Babe Paley, fashion editor di Vogue e "socialite" americana moglie del ricchissimo fondatore della Cbs, una di quelle signore che Truman Capote chiamava "cigni": Babe che i suoi soprabiti li sfoggiava lunghi, col collo arrotondato e una fila di bottoni a suggellare un aspetto di rarefatta monacalità, non sempre preziosi ma impreziositi dalle spille. E c'è anche Marilyn al fianco di Arthur Miller, con quei suoi spolverini lineari, su di lei quasi castigati a coprire abiti, gonne e camicie fascianti, che le donano un'aria svagatamente assorta, adatta al compagno di quegli anni.


Babe Paley

La galleria retrò offre infiniti spunti alle versioni aggiornate del soprabito. Molte le stampe floreali, un po' Seventies, dal taglio asciutto, e quelle geometriche ispirate ai Cardin e Courreges degli anni '60. E poi i modelli più impegnativi, in broccato e a mezze maniche, a sacchetto, sopra il ginocchio e nei colori marzapane, per finire con i tessuti kimono, che richiedono pantaloni a sigaretta e tacchi preferibilmente rasoterra, per sfuggire all'effetto geisha su trampoli.
È uno dei revival più convincenti e aggraziati delle ultime stagioni della moda, ma gli autentici soprabiti vintage, i pezzi di sartoria inspiegabilmente lasciati andare, che qualche fortunata riconosce e recupera in negozi e mercatini, restano inimitabili, soprattutto per i bottoni gioiello, che, da soli, valgono la spesa.
twitter@boria_a

lunedì 3 novembre 2014

MODA & MODI

 Il braccialetto "fita"




Riuscire a trasformare un brutto e riconoscibile souvenir in un accessorio divertente e non pacchiano, non è cosa da poco. Ci vogliono estro e gusto. Se poi dietro c'è anche la storia (vera?) di due giovani designer che, al ritorno da un viaggio in Brasile, riportano nel Vecchio Continente i colori vitali, gli accostamenti ubriacanti e un po' della superstizione del paese carioca, ecco in nuce la ricetta per un prodotto che subito diventa "must have".
L'exploit dei braccialetti Hipanema risale a un paio di estati fa, in Francia. Ma contro ogni legge della moda, per cui inevitabilmente i pezzi definiti "it" hanno una data di scadenza molto ravvicinata, sono ancora un successo di mercato, più complessi e quindi più difficilmente taroccabili dei "cruciani", i cui fake ormai si vendono al supermercato (non a caso il brand ha deciso di cavalcare l'imitabilità, non potendo arginarla...).
Gli Hipanema sono un'invenzione di Delphine Crech'riou  e Jenny Collinet, designer francesi che hanno reinventano i nastrini portafortuna brasiliani, i coloratissimi "fita" con la scritta in bianco "lembrança do senhor do Bonfim da Bahia".
I fita sono piuttosto fastidiosi, una volta evaporato il salvifico effetto vacanza: non devono essere mai tolti e, per aspirare al miracolo, bisogna aspettare che ognuno dei tre nodi si sciolga da solo. Quindi: si sporcano, si bagnano, si sudano, fanno a pugni con quasi tutto il guardaroba. In una parola: a casa sono e si sentono fuori posto, come la maggioranza dei ricordini da viaggio.
Delphine e Jenny li hanno resi modaioli, conservando la "patina" brasiliana. Così, intorno al nastrino, hanno moltiplicato i braccialetti, racchiudendoli in un unico fermaglio.
Lacci di corda, di pelle, di tessuto, picchiettati da perline colorate e dorate, con foglioline, conchiglie, frangette metalliche, sbrilluccicanti ed estivi (ma ci sono anche più discrete versioni invernali) senza essere trash. Etnici, ma non così tanto da essere scambiati col gadget.
Il vero colpo d'intuito, però, è la chiusura (non a caso sono stati inventati da donne...). Le calamite all'interno del fermaglio, li rendono mettibili e toglibili in un secondo, pronti a sparire prima del bagno in mare o a essere sostituiti sul momento, assecondando abito e umore.
Non sarà un miracolo,ma una bella comodità sì. (facebook: bardot trieste; twitter: @bardotrieste; www. hipanema.com)
twitter@boria_a

27aprile2014