lunedì 30 marzo 2015

MODA & MODI: Pretty Woman prostituta-principessa che piace a Dior


Julia Roberts e l'haute couture S/S 2015 di Dior

Pretty woman ha festeggiato i venticinque anni. Dell’anniversario del film si è parlato molto, soprattutto perchè, a distanza di un quarto di secolo, l’amore della prostituta Vivian-Julia Roberts per il miliardario Edward-Richard Gere continua a tenerci incollate al divano alla milionesima replica. Più della longevità da piccolo schermo, però, colpisce quella del guardaroba di lei, in parte disegnato, in parte assemblato dalla costumista Marilyn Vance.
Secondo i criteri della moda sono passate ere geologiche. Abbiamo bruciato le spalle quadrate, sono caduti in disgrazia i pantaloni bumster, morti e resuscitati i leggings, “riscaldati” periodicamente come minestre gli abitucci a fiori, il tartan, la salopette e la zampa di elefante. Era il 1990 quando la stangona Julia, ventenne, cavalcava Rodeo Drive in miniabito stretch e cuissard di vernice agitando invano la carta di credito del suo cavaliere per comprare qualche vestito che la rendesse presentabile in società.
L'abito a pois per il polo (foto Cordon Press)
Era il modello più azzardato, quello del mestiere di strada, che la Vance diceva aver copiato da un suo costume da bagno, ma pari pari l’abbiamo rivisto quest’anno sulla passerella primavera-estate della haute couture di Dior, “citato” filologicamente, stivaloni compresi, nella variante rosso acceso.

Venticinque anni sono passati dall’abito a pois su fondo mou per il pomeriggio di polo, da allora riproposto incessantemente e anche nello stesso, ostico colore, vieppiù quest’anno che i pallini ritornano in auge. E altrettanto “datati” sono il vestito da cocktail di pizzo nero del primo appuntamento con Gere e la pennellata fuoco con scollatura a cuore che Vivian indossa a teatro, quando, piangendo per Violetta, s’innamora dell’opera. In mezzo, tra i pezzi “iconici”, il tailleur maschile coi bermuda e l’abito-soprabito bianco e manica a tre quarti, tutti “vecchi” pezzi attuali, appena rivisitati in qualche sfilata.
Molti hanno spiegato il segreto del film: lei è una battona ma si vuole bene, usa il filo interdentale, ha rispetto di sè e le piacerebbe tornare a scuola. Vale anche per il guardaroba. È “misurato”, mai volgare, nemmeno quando fa il mestiere. Procede per sottrazioni progressive, senza rompere l’equilibrio. Vivian non si metterebbe quella creazione di Versace che inguaina una Marcuzzi senza mutande nell’ultima puntata dell’Isola dei famosi. E noi amiamo Pretty Woman per questo, perchè in una settimana sostituisce gli stivaloni a mezza coscia con jeans e blazer blu, rimanendo credibile, se stessa da prostituta a principessa. Ci piacciono le favole più dei talent, come a Dior.

@boria_a
Alessia Marcuzzi in Versace nell'ultima puntata dell'Isola dei famosi

domenica 29 marzo 2015

LA MOSTRA
 

Cento gioielli del Novecento al Magazzino delle Idee




Cento Novecento. Un secolo d’arte raccontato dal punto di vista della Cassa di Risparmio di Trieste attraverso cento opere della sua grande raccolta, che ne comprende oltre quattrocento. Una selezione mirata a testimoniare le personalità di pittori e scultori legati al territorio, ma insieme a rappresentare il gusto, lo stile, gli orientamenti del collezionismo locale e quelli specifici dell’istituzione che, attraverso anni e stagioni, le opere individuava e acquisiva. Nessuna bizzarria, nè incursioni nel futurismo o nell’astrattismo puro, piuttosto la preferenza accordata alla “bella pittura” di autoctoni di fama, ai temi paesaggistici, alle marine e agli scorci cittadini, nonostante a Trieste in quegli anni non mancassero vetrine e mostre su artisti nazionali e tendenze più avanzate.

 
Al Magazzino delle Idee si apre domani, alle 17.30 (inaugurazione solo a invito, per il pubblico da mercoledì), la mostra promossa dalla Provincia con il supporto della Fondazione CRTrieste e curata da Patrizia Fasolato, che fino al 2 giugno offrirà ai visitatori l’opportunità di compiere un itinerario artistico e apprezzare dipinti e sculture non altrimenti fruibili. Tredici sezioni ripercorrono la genesi della collezione - oggi della Fondazione CRTrieste - i suoi sviluppi e le strategie di acquisto, da quella “Marina” di Ugo Flumiani, acquistata nel 1924 in omaggio al gusto borghese dell’epoca e alla riconosciuta fama dell’autore, fino all’acquisizione del 2008 delle dodici tele della Stock, straordinaria sintesi di arte e pubblicità con il prodotto più noto dell’azienda, il Brandy Stock84, e del grande bassorilievo Pan di Marcello Mascherini per la facciata dello storico stabilimento di liquori triestino. Ma in mostra si vedranno anche due opere di Afro e Fontana, una donazione del 2014, a testimoniare non solo la vitalità di una raccolta che cresce e si evolve, ma anche la scelta della Fondazione come soggetto privilegiato per conservare e promuovere i “gioielli” di privati collezionisti. 




"Bragozzi al largo" di Ugo Flumiani

Flumiani, pittore tutt’oggi molto amato a Trieste, tiene dunque a battesimo, il 20 marzo 1924, la pinacoteca della Cassa di Risparmio, seguito, due mesi dopo, da Edgardo Sambo. I registri che seguono passo passo le vicende della collezione riportano “Festa sul Piave”, perchè l’estensore, al di là del titolo, annota quanto crede di vedere lui stesso sulla tela: così lo sbuffo d’acqua del colpo di artiglieria nell’alveo del fiume, trasforma la “Battaglia sul Piave” pensata dall’autore, in una “Festa”.
 
Gli acquisti riprendono nel ’28 e sono destinati sia alla collezione dell’Istituto che a donazioni al Revoltella o alla Civica Galleria Triestina, come accade a opere di de Finetti e Irolli. La Cassa di Risparmio acquista dalle gallerie o nelle mostre del Sindacato fascista Belle Arti al Giardino pubblico. In equilibrio tra “gusto e dovere”, in questa sezione della mostra è rappresentata la pittura fresca e respirante del ’900, gli scorci ariosi del “Grano” di Brumatti, del “Podere” di Eligio Finazzer Flori, della “Veduta di Trieste” del solido Flumiani, accanto alla pensosa “Fiaba” di Dyalma Stultus. Intensa e interessante la galleria al femminile, dove spiccano il ritratto di Argio Orell e la giovane signora in abito nero firmata da Croatto.




"Rive di Trieste", 1938, Augusto Cernigoj


Sono anni in cui la Cassa di Risparmio apre le agenzie sul territorio, a Trieste e nei centri vicini, nobilitando anch’esse con opere d’arte, come i pannelli “L’Industria e il Commercio” di Barison, comprati nel 1937 e destinati subito alla filiale di Sesana. Come vogliono i tempi e l’opportunità politica, nella raccolta entrano le effigi del Duce e del Re. Santo Lucas, Ramiro Meng, Marcello Titz, Tranquillo Marangoni, Livio Rosignano, Tullio Silvestri, Nicola Sponza sono gli artisti al centro delle attenzioni della Cassa, che ne acquista le opere spesso per regalarle a personalità in vista o per fare premi di concorsi.

 
Il 1942 è l’anno del centenario della banca, celebrato commissionando a Marcello Mascherini l’«Abbondanza», una scultura destinata alla sede centrale, quell’edificio progettato da Enrico Nordio e completato tra il 1891 e il 1894. Il committente suggerisce sicuramente i temi della “terra nutrice” e del “risparmio fecondatore”, che Mascherini fa suoi e sviluppa in forme rotonde e opulente, con un’opera che non ha niente della retorica di quelle “imposte”, ma si colloca a livello della sua produzione più alta.
Un altro snodo importante nella storia della collezione è il dopoguerra, quando la banca cambia strategia “artistica” e comincia a guardare all’800, ai ritratti borghesi, all’estetica neoclassica, quasi a voler ricostruire la storia figurativa di Trieste e del suo territorio. Qui il visitatore troverà i “Calzolai” di Tullio Silvestri, già di proprietà di Italo Svevo, e “La malata” di Cesare Sofianopulo, un tempo appartenuta alla famiglia Garigioli. L’inventario, i famosi registri dell’istituto - Evidenza opere d’arte e Opere d’arte II - accoglieranno d’ora in poi maestri veneti, lombardi, friulani, marchigiani, allargando definitivamente la geografia artistica al di là del territorio giuliano e dei suoi interpreti.

 
Anche l’influenza dell’impressionismo, nelle sue declinazioni tedesche, venete e francesi, trova spazio in mostra con i ritratti di Fittke e Veruda, mentre la presenza costante del paesaggio nella collezione Cassa di Risparmio è rappresentata dall’olio “Le rive di Trieste” di Augusto Cernigoj, dipinto nel ’38 e acquistato nel ’46, quando la Galleria San Giusto gli dedica un’importante personale. L’Istituto ritorna a comprare arte nelle gallerie, come testimonia anche “Caffè all’aperto (Giardino pubblico”) del 1954 di Levier, scomparso un anno prima e celebrato dalla Galleria d’arte Trieste con una mostra postuma. Un capolavoro verso l’astratto è considerata la grande tela “Notte e luna” di Nino Perizi, presentata alla Biennale di Venezia nel 1952, dove la raffigurazione emerge da una sintesi del paesaggio data da linee, curve, campiture di colore in perfetto equilibrio. 


Caffè all'aperto", 1954, Adolfo Levier

Completa il percorso ancora un omaggio alla donna nei nudi di Corinth, Zangrando, Veruda, Fonda e Sambo, nei ritratti firmati da Leonor Fini e Vito Timmel, nella festa di colori che è l’olio “Donna e barca” di Vittorio Bergagna, fino alle sculture di Dequel, Asco e a “L’erotica” di Mascherini, acquisita nel 2011, ottant’anni dopo la sua realizzazione. Come anche per gli “Gli amici” di Miela Reina, acquistato nell’87 ben sedici anni dopo la morte della pittrice, queste scelte “all’indietro” mirano a ricostruire il percorso dell’arte triestina attraverso il secolo. 

" L'Erotica" di Marcello Mascherini, 1931

Il cerchio si chiude da dove siamo partiti, dalla collezione dedicata allo Stock84, che la Fondazione ha rilevato in blocco per difenderla da smembramenti. Le interpretazioni pittoriche del celebre brandy sono in linea con la storia di tutta la raccolta: un dialogo con Trieste, il suo territorio, la sua cultura.
@boria_a

giovedì 26 marzo 2015

THE FASHION AWARD

ITS 2015, The Future è qui 


Una delle creazioni di Maiko Takeda, vincitrice del Vogue Talents Award 2014, scelta come immagine per il lancio di Its 2015

È il futuro il tema che caratterizzerà ITS 2015. Edizione numero quattordici per il concorso triestino di moda e accessori, che nel tempo si è arricchito di una sezione gioielli e, l’anno scorso, di quella “artworks”, trasversale alle altre, che premia progetti ad alto contenuto di creatività, inaugurata dalla vittoria della goriziana Virginia Burlina. Da pochi giorni è scaduto il termine di partecipazione, ma gli ultimi portfolio dei giovani designer stanno ancora arrivando in piazza Venezia, sede dell’agenzia Eve di Barbara Franchin, che organizza la kermesse. È probabile che per i ritardatari ci sia un po’ di tolleranza, tenendo conto che molti plichi vengono spediti da paesi all’altro capo del mondo, e non solo secondo la geografia della moda. Quando anche l’ultimo sarà stato scartato e catalogato, come ogni anno si supererà abbondantemente quota mille.
The future, dunque. Che non è il tema su cui si eserciteranno i concorrenti, bensì quello che farà da filo conduttore alla comunicazione e alla scenografia di ITS 2015. E di una boccata di ottimismo c’è davvero bisogno, perchè la stagione di crisi ha inevitabilmente costretto anche il concorso triestino a “sorvegliare” il bilancio della prossima edizione. La serata conclusiva all’ex Pescheria è fissata per sabato 11 luglio, quando sfileranno i dieci finalisti della sezione moda e si apriranno le mostre di gioielli, accessori, pezzi e installazioni d’arte, ma la settimana della moda comincerà già giovedì con l’arrivo di concorrenti e giurati. Confermati anche i quattro sponsor che sostengono il concorso, Otb (Only the brave, la holding di Renzo Rosso), Ykk, Swarovski e Swatch, quest’ultimo patrón della sezione artistica, tenuta a battesimo l’anno scorso dal cantante Mika e dalla sorella Yasmine, entrambi collaboratori del brand.
Cambiano i premi, ora chiamati “ITS Award” e aggiudicati in collaborazione con il relativo sponsor, quest’anno tutti della stessa consistenza. Nel settore fashion, per esempio, ci sarà un “Its Award” offerto insieme a Otb, di 10mila euro, che assicurerà al vincitore anche l’opportunità di tornare il prossimo anno a Trieste con un suo progetto, e un “Otb Award” di 5mila euro con stage all’interno dell’ufficio stile di uno dei brand della holding: Diesel, Maison Margiela, Marni, Victor&Rolf. Questi riconoscimenti prendono il posto del Diesel Award di 25mila euro e del “Fashion collection of the year” di 15mila, vinti nel 2014 rispettivamente da Zoe Waters e Katherine Roberts-Wood, entrambe inglesi). L’agenzia Eve, inoltre, metterà a disposizione dei finalisti di quest’edizione 5mila euro per realizzare i progetti da presentare in Pescheria.
Stesso bottino in palio per l’area accessori, giunta al traguardo dei dieci anni e sostenuta da Ykk: 10 mila euro l’Award congiunto di organizzatori e sponsor, con un biglietto di ritorno a Trieste nel 2016, 5mila per il Ykk Fastening Award, il cui vincitore si ritroverà a settembre anche sulle pagine del magazine inglese Dazed&Confused, e 5mila euro offerti da Eve ai finalisti per completare il lavoro.
E così saranno 10mila, rispettivamente, gli euro per chi spunterà l’ITS Jewelry Award assegnato con Swarovski e l’ITS Artwork Award con Swatch (oltre al ritorno a Trieste nel 2016), 5mila quelli dello Swarovski Award e dello Swatch Award, cui si aggiungono i mille con cui entrambi gli sponsor gratificano ogni finalista per mettere a punto la sua idea. Al proprio riconoscimento, inoltre, Swatch affianca una internship remunerata di sei mesi nel suo laboratorio creativo di Zurigo.
Tremila euro, infine, per un designer di moda o accessori, sono messi in palio da “Eyes on Talents”, piattaforma online che stana i migliori talenti emergenti, mentre Vogue Talents, la sezione del sito di Vogue dedicata alle promesse del design, assegnerà a sua volta un premio per abiti o accessori che consiste in un servizio sulla rivista.
Le quattro giurie saranno al lavoro una prima volta a fine aprile nella sede di Its, dove trova spazio anche l’ormai consistente archivio creativo, arricchito ogni anno dai pezzi lasciati a Trieste da ciascun finalista (gli abiti hanno toccato quota 200, 100 sono gli accessori, 60 i gioielli, 700 le fotografie digitali più 13mila portfolio, a raccontare i quattordici anni della manifestazione ma soprattutto i percorsi e le direzioni della creatività giovanile di tutto il mondo).
Dal primo confronto tra i giurati usciranno i dieci concorrenti finalisti di ogni sezione, che vedremo l’11 luglio al Salone degli Incanti, ma saranno chiari anche i temi comuni, le intersezioni, le suggestioni dei giovani designer. Ogni anno, dopo la selezione dei finalisti, Its comunica infatti il “trend report” dell’edizione: una radiografia di immagini, motivi, concetti comuni che percorrono l’universo creativo dei designer da un continente all’altro.
Its 2015 vivrà intensamente le fasi di avvicinamento alla serata conclusiva anche sui social. I contenuti condivisi con l’hashtag #itscontest finiranno nella pagina aggregatrice live.itsweb.org: un diario di parole e immagini per rendere già “presente” il futuro immaginato dei talenti in gara.
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Mika e la sorella Yasmine Penniman a Trieste nel 2014 ospiti di Its (foto Lasorte)

martedì 24 marzo 2015

MODA & MODI: Mila Schön ritrovata






Lo scamiciato panna, il vestitino bluette con il fiocco bon ton sulla vita un po' alta, l'abito per la sera di seta costruito con teli diversi, nella palette di colori che si rincorrono lungo l'intera sfilata: verde acqua, bluette, blu profondo e uno schizzo di giallo. Una Mila Schön ritrovata nell'ultima collezione del direttore creativo Alessandro De Benedetti, che si è ispirato alle divise per l'Alitalia disegnate dalla stilista dalmata negli anni '70 e le ha rieditate per un'hostess al passo con i tempi, meno perfettina e più dinamica, senza rinunciare a tocchi di dolcezza.


Alla coerenza dei colori - panna e azzurro infantile che a poco a poco si irrobustiscono nell'azzurro più carico, poi nel blu notturno, nel verde muschio, nei giochi optical di bianchi e neri di giacche e tailleur - si unisce la pulizia delle linee, anche negli intarsi più complicati, che scivolano sugli abiti e nei cappotti senza appesantirli.
Che cosa farebbe indossare alla donna-simbolo Mila Schön?, chiedevo alla stilista, nell'ultima intervista che le feci per il Piccolo e che uscì il 29 aprile 2007, un anno prima della sua morte. «Un cappottino a sigaretta. Un tailleur. Un tubino. Sbizzarrendomi forse un po' di più per la sera».
Sembra che Alessandro De Benedetti - approdato a Mila Schön nel 2013 - abbia colto il senso, e soprattutto il cuore, di queste parole. Le sue hostess, che in servizio indossano giacche-mantelle double face (il tessuto simbolo di Mila) in cashmere e angora, o tailleur pantaloni e gonne ingentilite da camicette di seta con polsi e collo bianchi, scelgono per la sera cappotti tagliati in sbieco e con importanti revers, pantaloni ampi sotto casacchine fluide dal collo rotondo e con cintura in vita, le più giovani salopette di cady, o il vestitino semplice semplice, con il gioco a fasce di blu diversi sulla gonna.






Importante, ma portabile, l'abito aperto da profondi spacchi sui pantaloni con stampe safari. Quel poco "di più" di azzardo che sarebbe piaciuto a Mila Schön, senza strafare.
@boria_a

martedì 17 marzo 2015

IL CONCERTO: Bob Dylan a San Daniele, il 27 giugno "Aria" nuova


Dida: Bob Dylan nel novembre 2013 a Roma (ph. Kick Agency)

Chi era rimasto con l’amaro in bocca, quel 19 luglio 2001, quando il nubifragio abbattutosi su Udine cancellò senza appello il suo concerto, si rifarà quest’estate. Dopo quattordici anni da quella data persa e mai recuperata, Bob Dylan ritorna in regione il 27 giugno, a San Daniele del Friuli, quando salirà sul palcoscenico del Campo Base di viale Kennedy per inaugurare la nuova kermesse “Aria di Friuli Venezia Giulia”, prima data del mini-tour italiano del quasi settantaquattrenne menestrello rock. Dopo la tappa friulana - che, nelle intenzioni della Regione, approfittando delle opportunità che l’Epxo mette in campo per fare crescere il turismo nei centri minori, punta a nobilitare la già consolidata festa del prosciutto - Dylan suonerà il 29 giugno alle Terme di Caracalla, quindi il 1° luglio al Lucca Summer Festival e, il giorno dopo, al Pala Alpitour di Torino.
Hanno dovuto a attendere a lungo i fan del cantautore ribelle, paladino del pacifismo e dei diritti civili, più volte in odor di candidatura al Nobel, per rivederlo in Friuli Venezia Giulia, dove suonò per l’ultima volta l’8 luglio 1996, a Villa Manin. Due anni fa il “never ending tour” di Robert Allen Zimmerman - questo il nome all’anagrafe di Duluth, in Minnesota, dove nacque il 24 maggio 1941 - che va avanti ininterrottamente dal 7 giugno 1988, si fermò al Gran Teatro Geox di Padova, unica tappa del Triveneto. Ma quest’estate, com’è più o meno da un quarto di secolo nelle corde e nell’anima di “nonno” Dylan, che da sempre macina grandi città e piccoli centri, San Daniele entra nel ristretto numero di date italiane, grazie al “gemellaggio” siglato dalla Regione con il festival piemontese “Collisioni”, con sede a Barolo.
L’ultimo lavoro di Bob Dylan, il trentaseiesimo, è uscito appena pochi mesi fa, il 3 febbraio scorso, quel “Shadows in the night” omaggio a Frank Sinatra che è quasi una contraddizione in termini: la voce più rauca e imperfetta tra quelle che sono state la colonna sonora di intere generazioni, che canta la voce più cristallina, il cantautore “sgraziato” che fa sua la morbidezza di The Voice. «Si invecchia. La passione è un gioco da giovani. I giovani possono permettersi di essere appassionati, mentre i vecchi devono essere più saggi», ha detto nella prima intervista rilasciata dopo l’uscita dell’album, sorprendentemente al bimestrale dell’Associazione dei pensionati americani, l’Aarp Magazine. Singolare promozione di “nonno” Dylan, sberleffo ai meccanismi dello show-biz e insieme genialata commerciale, perchè la rivista è tutt’altro che un bollettino da pensionati, ma in veste patinata vanta una circolazione di 22 milioni di copie e un numero di lettori che supera i 35 milioni.
I cinque precedenti album da studio, usciti nell’arco di 15 anni, sono stati giudicati tra i migliori della sua gloriosa e interminabile carriera. “Time out of mind” del ’97, disco di platino e vincitore di numerosi Grammy, “Love and theft”, anch’esso disco di platino, “Modern times” del 2006, oltre due milioni e mezzo di copie vendute nel mondo e due Grammy, una summa di tutte le radici musicali dell’America, dal blues al rock, dal jazz al country, che, in una delle sue sopraffine contraddizioni, Dylan ha lanciato sul mercato con un’anatema verso la musica odierna, troppo satura di suoni: «Si fa bene a scaricarla gratis - ha detto a “Rolling Stones”, riproponendo la polemica contro il digitale cara anche a Neil Young - tanto non vale comunque niente...». E poi “Together through life” del 2009, il suo primo album che ha debuttato al top in America, nel Regno Unito e in altri cinque paesi e ha superato il milione di copie vendute, quindi “Tempest”, 2012, con quel brano finale, “Roll on John”, dedicato a Lennon nel momento dell’assassinio: «You burned so bright...».
Un po’ di tutto questo porterà a San Daniele l’attempato e narciso signore del rock, oggi in cappello da Zorro e giacca da americano del Sud, con la sua inconfondibile, roca energia. E, per la felicità degli organizzatori di quest’«Aria» upgraded, certamente ripeterà il miracolo che gli riesce da cinquant’anni: attraversare e unire generazioni, età, gusti, fasce di pubblico diverse. I biglietti a breve suwww.ticketone.it.
@boria_a

lunedì 16 marzo 2015

MODA & MODI: schiacciate dalla zampa(ta) dell'elefante


La copertina del catalogo della mostra Hippie Chic al Museum of Fine Arts di Boston, 2013, curata da Lauren D. Whitley

Non c'è articolo sulle riviste di moda, e non c'è fotogalleria sui siti, che non ci proponga l'elenco dei must-have degli anni '70. Già lo sappiamo che sono loro la stagione “rieditata” per questa primavera-estate, solo che adesso si chiamano hippie-chic, come titolava un'interessante – e profetica, nel bene e nel male - mostra dell'estate 2013 al Museum of Fine Arts di Boston. I Seventies sono così ricchi di spunti che, implacabilmente, ogni paio d'anni sulle passerelle ne fiorisce qualcuno. La novità di quest'anno è che ritornano in dose da cavallo, con frange, salopette di jeans, abiti a fiori, gonnellone, soprabitini di camoscio, fantasie psichedeliche e zampe di elefante, così da abbracciare tutti i nostri nostalgici desideri.
Frange da cow girl, Alberta Ferretti

Manca un solo, trascurabile elemento: se l'hippie dei '70 era l'abbigliamento della contestazione, contro i consumi di massa, e saltava – non senza la spinta di qualche sostanza - dalla strada alla passerella all'insegna della libertà, l'hippie 2.0 è l'abbigliamento che dalla passerella vuole colonizzare la strada, con tanta peace & love della pubblicità, che aiuta a chiudere gli occhi e a far sognare molti “osservatori” di moda più di quella chimica di cui parlava Timothy Leary. Basta addizionare qualsiasi sostantivo o aggettivo con “mood”, “chic”, “up-to-date”, “haute” , “posh” e pure i Settanta rispolverati fanno fare un viaggio.
Pazienza, dunque, se una signora che non ha mai messo piede in un negozio di seconda mano si infila nelle frange rilette da Bottega Veneta, o se pur odiando qualsiasi bottega del mondo si fa conquistare dal soprabito squaw di Valentino, riscoprendo in sè un'anima “etno-friendly”: in fondo, uno dei “must-have” di stagione le suggerisce che è bene entrare nel “fringe-mood” e darsi un'aria “boho-chic”. Passino i vestiti lunghi da figlie dei fiori, che ci faranno sentire “girlie”, o il denim, quel vecchio jeans slavato che, con la giacca militare, andava per la maggiore a cineforum e collettivi vari, e che adesso diventa “hot” o “haute” perchè lussuosamente declinato dagli stilisti in... eccetera eccetera.
Ma i pantaloni a zampa di elefante, quegli insidiosi scampanamenti che si nascondono dietro il disorientante anglicismo “flares”? Quei pantaloni che così perentoriamente, tragicamente marcano un'epoca? Quelli che stringono stringono e poi, zac!, e si aprono in fondo, che non stanno bene neanche a chi svetta intorno al metro e novanta, di cui la metà distribuito sulla coscia?


Denim, zampa di elefante e salopette: tre rischi in uno firmati da MiH Jeans


Ebbene sì, sono un must-have anche loro. Meno male che molti esperti, nella posologia del “come si portano”, almeno ci avvertono di “aiutarci” con stivali e zeppe.
Da nessuna parte un Warning. Una riga di critica, o quantomeno di sospetto, verso il “reperto” più contestato dei favolosi Seventies, l'autentico pezzo da disco inferno. Nessuno che dica: attenzione, i pantaloni a zampa di elefante sono difficili, datati, nessuno  che pronunci l'impronunciabile: brutti. A meno che non facciate parte di una tribute band dei Cugini di campagna.
@boria_a

I Cugini di Campagna

giovedì 12 marzo 2015



IL LIBRO

Adelle Waldman, amori e disamori, come chiacchiere




L’indizio più verosimile sul protagonista, lo dà una citazione dalla rivista “Glamour” in copertina: “Vi verrà da urlare rendendovi conto di quanto spesso siete uscite con quel tipo d’uomo». Nella prima pagina di “Amori e disamori di Nathaniel P.” di Adelle Waldman (Einaudi, pagg. 277, euro 17,00) conosciamo infatti Nate Piven, giovane scrittore newyorkese la cui carriera sta finalmente per decollare, mentre, diretto alla festa di un’ex fidanzata, incrocia per strada un’altra ex che ha accompagnato ad abortire, salvo poi cancellarla dal panorama e autoassolversi con una lunga serie di vacue e vane argomentazioni. Tra calici di vino e chiacchiere ornamentali, alla cena Nate incontrerà Hannah e il loro rapporto, anzi il “suo” modo di entrarne e uscirne, crogiolandocisi verbalmente ma senza precludersi nessuna ulteriore possibilità di esplorazione del mondo femminile, costituisce il filo esile di questo romanzo d’esordio. Una sorta di check-up delle relazioni sentimentali nel deserto metropolitano, condotto attraverso le dissertazioni di un giovane uomo intorno al suo ego (e al suo sesso), e a come soddisfare entrambi senza eccessivi rigurgiti di coscienza.
Quando Nate scopre che le caratteristiche che lo avevano condannato a furiose letture e masturbazioni al liceo, ora fanno di lui un giovane uomo di cui si accorgono le ragazze colte che leggono Svevo in metropolitana, comincia a mettere insieme il suo elastico catalogo fatto di Juliet, Elisa, Kristen, Greer, in cui Hannah, all’inizio più stimolante di altre almeno sul piano dialettico, finisce per essere l’ennesima che tenta di metterlo all’angolo delle sue responsabilità. Come chiudere la faccenda? si arrovella lui: «Forse una telefonata, tenera e breve, era meglio? Ogni volta che si decideva per una delle due strade, chiamata o caffè, non riusciva a convincersi a premere il grilletto, e rimandava la scelta a un altro giorno; avrebbe fatto il necessario - parlarle, o vederla - un altro giorno».
Se Nate ne esce da Narciso, come da copione riattizzato dalla vecchia fiamma solo quando è ormai irraggiungibile, non se la cavano meglio le sue partner, sempre un filo piagnucolose. Resta l’impressione, però, che la “commedia sentimentale” della Waldman sia come le chiacchiere che lei consiglia per un party: soprattutto divertente, senza stressare nè cervello nè cuore.
@boria_a

La scrittrice Adelle Waldman

sabato 7 marzo 2015

LA MOSTRA
 
Quando l'alta moda era "Bellissima" la facevano i triestini


Gigliola Curiel al Carillon di Paraggi, 1952 (dal catalogo Maxxi Electa, Archivio Federico Garolla)


Camilla Cederna, sull’«Europeo» del 27 novembre 1955, le dedica un’intera pagina. “Gran taglio milanese” titolano le tre colonne fitte fitte su Gigliola Curiel, la «Gigliola», come la chiamano le sue clienti, «che veste le signore più in vista, più belle, più mondane e anche le più tradizionaliste» della buona società meneghina. La ragazzina - figlia di un ingegnere navale triestino: ed è l’unico accenno nell’articolo alle origini giuliane della “sarta” - che riempiva i quaderni di figurine di donne pronte per il ballo e nel testo di greco teneva come segnalibro una silhouette di cartone vestita per il té delle cinque, ha trasformato il passatempo in un vero mestiere. Prima ha venduto i suoi figurini ai sarti milanesi, con un bel po’ di faccia tosta e simulando un accento straniero per fare scena, poi ha aperto una sartoria in via Durini che è arrivata a contare oltre settanta lavoranti e, infine, è sbarcata in America incantando i compratori di Bergdorf Goodman e conquistando le pagine del New York Times, del New Yorker, di Vogue a colpi di “Bravo, bravissimo Gigliola!».
 
“Animosa triestina” dagli occhi turchini, la definisce la Cederna. E con sincera ammirazione si sofferma a descrivere come questa “bella signora” ancora s’inginocchi accanto alla cliente per studiare l’andamento di una “pince”, mentre «strizza gli occhi per vedere cos’ha di ben fatto da mettere in risalto, se il fianco, il braccio o il décolleté, cercando invece di coprire in tutte l’attaccatura del braccio, che secondo lei difficilmente è perfetta».

 
C’è tanto di Trieste nel monumentale e magnifico catalogo che accompagna la mostra “Bellissima. L’Italia dell’alta moda 1945 1968” al Maxxi di Roma (Maxxi Electa, pagg. 451, euro 55,00), un allestimento curato da Maria Luisa Frisa, Anna Mattirolo e Stefano Tonchi visitabile fino al 3 maggio. La mostra e il catalogo sono due momenti di uno stesso progetto, indipendenti e complementari, spiega Frisa in uno dei tanti saggi della pubblicazione. Perchè se la mostra propone una selezione di abiti e designer che hanno costruito l’identità della moda italiana, il libro, con gli scritti di critici, giornalisti, storici e con foto tratte da pubblicazioni nazionali e internazionali, racconta - attraverso la lente della moda, e in un fluire di immagini che sembra riprodurre la solennità delle sfilate negli atelier di quegli anni - un momento di straordinaria creatività nelle arti, nel cinema, nella fotografia, nell’architettura, nel teatro, quando il gusto e lo stile italiani dettavano legge nel mondo.

 
Gigliola Curiel con le sue creazioni è tra le sarte preferite per le prime alla Scala, in particolare quelle di Sant’Ambrogio, in cui la presenza della Callas alza alle stelle la febbre di mondanità delle signore aristocratiche e alto-borghesi. Con lei, e la figlia Lella, che prenderà il suo posto ed è ancora oggi vigorosamente alla guida della griffe, nel catalogo sono rappresentati e raccontati tutti i grandi stilisti triestini, ciascuno con la sua individualità protagonista della stagione più entusiasmante della moda italiana.
Ecco un modello da giorno in bianco e nero, abito corto e piccola cappa, quasi una scultura, firmato nel 1968 da Renato Balestra e fotografato da Gian Paolo Barbieri per “Linea italiana”.



Un modello di Renato Balestra fotografato da Gian Paolo Barbieri per "Linea italiana", primavera-estate 1968 (catalogo Maxxi Electa)


 Balestra, che ha lasciato gli studi di ingegneria per seguire la passione della moda e ha fatto l’apprendistato da Jole Veneziani (nata a Taranto nel 1901, da mamma pugliese e padre triestino...) negli anni Sessanta veste le dive di Hollywood come Zsa Zsa Gabor, Linda Christian, Natalie Wood e Caroll Baker, ma i suoi modelli elaborati e raffinati seducono anche l’imperatrice Farah Diba e la first lady filippina Imelda Marcos, le principesse saudite e la regina Sirikit di Thailandia.
Non possono mancare i Missoni, con i loro zig-zag nati quasi per caso e destinati a colonizzare il mondo, precursori di quel prêt-á-porter italiano che si affranca subito dall’artigianato e diventa paradigma della moda moderna, legandosi all’industria tessile.
Importante lo spazio dedicato alla dalmata Mila Schön, “la Coco Chanel italiana” come la definì Diana Vreeland, direttrice di Vogue America, per quel suo stile contaminato dall’estetica e dalla poetica del modernismo.



Mila Schön con Mina nel suo atelier milanese fotografate da Ugo Mulas (dal catalogo Maxxi Electa, Eredi Ugo Mulas)

Maria Luisa Frisa, nel saggio dedicato alle “forme dell’atelier”, richiama l’attenzione sul fatto che una stessa parola definisca lo studio dell’artista e quello del sarto, e come “creazioni” vengano chiamate, ugualmente, le opere di entrambi. È un momento magico, quello del dopoguerra, in cui la moda si nutre di arte e la fotografia interagisce con i luoghi in cui la moda nasce, diventandone parte integrante. L’amicizia di Mila Schön con Ugo Mulas, uno dei più grandi fotografi italiani prestato alla moda, è esemplare di questo scambio. Ecco la celebre immagine della cantante Mina nell’atelier milanese di Mila, firmata da Mulas e uscita su “Gente” dell’8 ottobre 1969. Mina, regale come una divinità greca in uno degli abiti da sera tempestati di applicazioni, e, sullo sfondo, la sarta di Traù, in camicetta bianca e gonna nera, di cui il gioco di specchi e l’angolazione scelta dal fotografo, raddoppiano l’immagine. Attraverso Mulas, Mila Schön conosce Lucio Fontana, ne diventa amica, e gli dedica l’intera collezione primavera-estate 1969, percorsa da tagli verticali e oblò. Le sue soluzioni di alta moda pronta degli anni Sessanta - “semplice ma non facile”, scrive Stefano Tonchi, già direttore di T: The New York Times Style Magazine e oggi direttore di “W Magazine” - accompagnano il passaggio al grande prêt-á-porter milanese degli anni Settanta e Ottanta.

 
Non è il solo rapporto fecondo tra arte e moda e non è il solo che coinvolga protagonisti della cultura del Friuli Venezia Giulia. Nel 1969, nella galleria Naviglio Incontri di Milano di Carlo Cardazzo sono esposti gli abiti con corsetti di metallo e corazze della collezione “Alluminio” della stilista fiorentina Germana Marucelli, ispirati dalle sculture dell’artista udinese Getulio Alviani. La galleria, in questo caso, diventa luogo di incrocio di intellettuali, scrittori, stilisti, artisti, collezionisti, mondanità: a commentare gli abiti di Marucelli ci sono Gillo Dorfles e Giuseppe Ungaretti.
In mostra al Maxxi, e raccontati nel catalogo, accanto a quelle dei triestini o triestini d’adozione, sfilano le creazioni di Capucci, Biki, Carosa, Maria Antonelli, Fendi, Sorelle Fontana, Irene Galitzine, Fernanda Gattinoni, Valentino, Jole Veneziani, Simonetta, Fabiani, Emilio Schuberth, “complici” e in dialogo con altre creazioni, le opere di Fontana, Burri, Paolo Scheggi, Alviani, Campigli, Carla Accardi e Capogrossi, testimonianza della sperimentazione e della vitalità di un’epoca straordinaria.

 
Un’epoca che per Gigliola Curiel, Biki e Jole Veneziani si chiude bruscamente al Sant’Ambrogio del 1968, quando la violenta contestazione guidata da Mario Capanna fuori dalla Scala copre di uova marce e pomodori le pellicce e gli abiti da sera delle signore dirette alla prima del “Don Carlo” di Verdi, sul podio Abbado e la regia di Ronconi. Sono lontani i tempi in cui le clienti passavano nell’atelier di Gigliola e della figlia Lella per prenotare i “curiellini”, gli abitini neri perfetti in ogni occasione, che la Cederna ribattezzò “scemarelli”.

 
Finiva una stagione, il testimone passava al prêt-á-porter. Il marchio Mila Schön, dopo la morte della stilista nel 2008, è oggi del gruppo giapponese Itochu. Ma per l’atelier Curiel - con Lella e un’altra Gigliola, sua figlia, nipote della Gigliola che espugnò la penna affilata della Cederna - e per Renato Balestra, il sogno dell’alta moda continua ancora.
@boria_a


Abito di Valentino indossato da Jackie Kennedy 1967-'68; completo da giorno in lana double face 1967 Ognibene-Zendman; cappotto in visone con lavorazione chevron Fendi 1960-'61; abito redingote di ispirazione ecclesiale realizzato dalle Sorelle Fontana per Ava Gardner, 1955


lunedì 2 marzo 2015

MODA & MODI: that's is over, folks!

I Looney Tunes reclutati da Jeremy Scott per Moschino

Sulla passerella di Moschino alle sfilate milanesi sale l'allegra brigata dei Looney Tunes, con i suoi colori prorompenti, i gattoni, canarini, conigli e porcelli che nel nostro immaginario sono legati all'ironia della Warner Bros, contagiosa e un filino crudele. Passa il messaggio immediato di regressione a una stagione spensierata e felice, che dovrebbe riempirci di energia e positività.
Ci riesce? È una scelta di campo così diversa rispetto alle fruscianti signore di Alberta Ferretti, quasi uscite da una puntata di The White Queen, o alle ragazze androgine e sbadatamente vintage di Gucci, che fa riflettere. Non un'operazione nuova per Jeremy Scott, designer di Moschino, quella di appropriarsi di marchi, logo, personaggi che strizzano simpaticamente l'occhio al nostro fanciullino, rileggerli (ma citandoli filologicamente) e rispedirli in passerella sotto forma di prodotto moda. Nella primavera 2014, gli happy meal di McDonald's, con i contenitori trasformati in it-borsette e i colori delle divise dei dipendenti del fast food, giallo e rosso, utilizzati su tailleurini chic, per una fast fashion d'autore, poi SpongeBob e quindi l’universo tutto pink di Barbie, declinato dalla palestra alla sera.
Quest'anno i Looney Tunes sono reclutati per nobilitare lo street-style. Ecco allora sulle canotte da basket spuntare Bugs Bunny, che diventa anche una tracolla, sulle strisce delle divise da baseball Titti e Silvestro, e tutti quanti questi cartoon monopolizzare, davanti e dietro, maglioni coloratissimi, viola, blu, gialli, neri.
Non c'è aria di grande novità, da queste parti. J.C. de Castelbajac l'aveva già fatto con successo tra gli anni Ottanta e Novanta e, all'epoca, sull'onda della moda da bere, mettersi addosso Speedy Gonzales o l’Orso Yoghi sembrava una perdonabile bizzarria, un modo per essere sorvegliatamente trasgressive, adatto anche a borghesi signore negli anta. Poi i cartoni si sono appiccicati un po’ ovunque, da Nara Camicie ad Iceberg (con esiti e prezzi molto diversi), e hanno cominciato ad essere appicicaticci. Oggi siamo all’ennesima riedizione del tema che dovrebbe abbracciare un target allargato, la giovane compratrice adrenalinica, la più matura acquirente in vena di giovanilismi. Ma abbiamo davvero voglia di andarcene in giro con Porky Pig sulla pancia? O è meglio, variando il congedo della Warner Bros ai suoi beniamini, concludere semplicemente: that's over, folks!?
@boria_a




domenica 1 marzo 2015

MODA & MODI: geneticamente modificati da Xiao Li
La collezione con cui Xiao Li ha vinto il Diesel Award a Its 2013, Trieste

Xiao Li è diventata grande ma non perde la voglia di giocare. I suoi colori sono cambiati, nella nuova collezione invernale la palette si è fatta decisa: torba, bluette, zucca, nero.
Xiao Li, autunno-inverno 2015
Questa timida ragazzina cinese aveva incantato a Trieste il pubblico di Its 2013 con le sue donne di zucchero filato, senza spigoli, calate in gonne, giacche, pull, cappotti come in involucri protettivi di gommapiuma, figurine di una favola per bambini, gialle, azzurro stinto, lilla e salmone. L’abilità di Xiao Li nel combinare lana e silicone le aveva guadagnato il prestigioso Diesel Award, catapultandola poi, con una capsule sviluppata dalla collezione “triestina", nelle vetrine di 10 Corso Como.

Non più favole, ma il consumismo e il cibo geneticamente modificato sono al centro dell’autunno-inverno 2015 in passerella alla London Fashion Week. Temi forti, che richiedono tinte altrettanto forti.
Questa volta la sua bravura nel maneggiare i materiali si esercita in grandi sagome – un pomodoro, una bottiglia di profumo – sovrapposte a maglioni e cappotti per creare effetti 3D, con un vago tocco da cartoonist. Sfilano giacche, abiti lunghi e corti, con colli e inserti che creano un singolare effetto ottico, una sensazione di sdoppiamento. Il mood ricorda la fast fashion di Moschino, che qualche stagione fa ha pescato nei colori, nei contenitori e nelle divise di McDonald's per farne oggetti di lusso e di desiderio, lasciando una scia di polemiche.
Il gioco di Xiao Li è più leggero e lei sa condurlo con ironia. Si diverte a simulare un cappotto doppiopetto sopra un maglione oversize, si chiede “can science make a better perfume?” sopra la boccetta stilizzata, mischia le lettere del pomodoro ogm e inevitabilmente lo sguardo ci cade sopra e aiuta a mettere a fuoco il “concept”.
Resta un dubbio. Quand'è che la tecnica e l'inventiva dei nuovi designer si applicheranno a capi in grado di scendere dalla passerella per essere indossati, per diventare prodotti per il mercato, senza trasformare nessuno in un personaggio da corso mascherato, per quanto perfetto?


La capacità tecnica e l'inventiva di Xiao Li sono evidenti, non ha più bisogno di dimostrarle come in un concorso o in una collezione da fine master.
"Can science make a better perfume?"

La portabilità, il senso dell'equilibrio, si sono un po' persi per strada, è prevalsa la voglia di stupire con gli effetti.

Che colpiscono, ma non convincono.
"Avoid fashion", scrive Xiao Li su uno dei pezzi mettibili. Questa è la strada.
Avoid fashion, avverte Xiao Li
Ma pensare a un consumatore finale che non venga geneticamente modificato dai vestiti, per lei, come per molti emergenti, sembra il passaggio più difficile.
@boria_a


Il pomodoro ogm applicato sul maglione oversize