lunedì 27 aprile 2015

MODA & MODI: con TodoModo mi metto al polso un algoritmo



Braccialetto in PLA del progetto TodoModo (da www.todomodo.me)

Un braccialetto, una collana, un paio di orecchini originati da un algoritmo e realizzati in un materiale contraddistinto dalla sigla PLA. Questa descrizione vi sembra fredda, poco creativa, tutt’altro che romantica, un po’ da foglietto di medicinale? Vi sbagliate. Gli accessori del progetto TodoModo - che spazia dal design, all’arte, alla musica - nascono sì da una formula matematica e sono realizzati con una stampante 3d, ma dietro c’è la sintonia, artistica e affettiva, di una coppia di giovani pordenonesi, Fabio e Alice-Micol, lui architetto lei artista, da tempo trasferitisi a Trieste, che cerca di combinare antichi metodi di lavorazione con macchinari nuovi, cultura digitale con un tocco di personalizzazione”artigiana”.
Orecchini e polsiera di TodoModo
Persino la loro stampante 3d, confidenzialmente chiamata “Laprusa”, è entrata a tutti gli effetti a far parte della famiglia dopo un piccolo intervento di restayling, necessario per rispondere alle esigenze dei due creativi, che ne hanno disegnato e sostituito alcune parti (facendogliele sputar fuori direttamente, perchè - pare un po' splatter - ma è una macchina che si “autogenera”). Di recente, da Stilemisto a Trieste in via San Michele, “Laprusa” ha fatto la sua figura, assemblando, lenta e maestosa, sotto gli occhi del pubblico uno dei gioielli in bioplastica in vendita.

PLA, infatti, sta per acido polilattico, un polimero naturale e flessibile, che rende i braccialetti facilmente indossabili, aerei e non rigidi, e gli orecchini leggeri anche quando la dimensione è importante (non trascinano il lobo, insomma, sono quasi delle ragnatele da indossare...). I bianchi e neri sottolineano lo sviluppo geometrico dei pezzi: curve, onde, punte, intersezioni di linee e di figure rimandano al design algoritmico ma anche alla perfezione e alla nitidezza della forme in natura.
Un viaggio nel sito di TodoModo (www.todomodo.me) è un’esperienza curiosa (e divertente) per farsi un’idea delle potenzialità della stampa 3d. Nessuna gelosia: Fabio e Alice-Micol sono diffusori militanti della cultura digitale e forniscono spiegazioni e rimandi per farsi da sè, o almeno tentare, stampi per dolci (algoritmo di Voronoi e biscotti = “Voronotti”) e torte e per una “forma” (letteralmente geometrica) di formaggio (è il 4Majo...) speciale per techno-gourmand.



4Majo per digital-gourmand (www.todomodo.me)
Sintesi efficace del loro lavoro è la lampada skull, teschio, dove tagli al plasma e satinatura con molatrice trovano l’equilibrio perfetto tra futuro e passato. Gli algo-braccialetti e algo-orecchini si trovano invece da wwww.stilemisto.com (040-301147 a Trieste) e negli store Make Tank ed Etsy.
@boria_a


La lampada Skull: Plasma cutter di fogli di acciaio inox, ricavati da un algoritmo, poi smerigliati, satinati con molatrice e saldati

domenica 26 aprile 2015

L'INTERVISTA

Óscar Martínez: verso l'America aggrappati a una "Bestia"

La Bestia non è un essere vivente, ma è come se lo fosse. Una creatura brutale, insensibile, sempre in movimento, pronta a scrollarsi di dosso, e a maciullare, chi non si tiene stretto alle sue propaggini metalliche. La Bestia è il treno sul cui tetto viaggiano i migranti che, provenienti dai paesi miserabili e violenti del Centro America, attraversano il Messico con la speranza di passare il confine e entrare negli Stati Uniti, alla ricerca di una mejor vida. Una rotta pericolosa, che, tra il 2006 e il 2012, ha inghiottito nel buio settantamila persone, vittime di aggressioni, rapimenti, rapine, stupri, esecuzioni di massa da parte delle organizzazioni criminali che controllano il territorio messicano.


"La Bestia" (John Moore/Getty Images da www.alt.latino)
Óscar Martínez è un giornalista salvadoregno che scrive per “elfaro.net”, primo quotidiano online dell’America Latina. Per otto volte è salito sul tetto della “Bestia”, ha condiviso con i migranti dal Salvador, dal Guatemala, dall’Honduras i pericoli e gli agguati del lungo viaggio attraverso il Messico fino al muro oltre il quale c’è il Norte, il nord, e il sogno americano. Il suo reportage, diventato un bestseller, “La Bestia” (Fazi Editore, pagg. 320, euro 16,00) è il racconto feroce, in presa diretta e con le testimonianze delle vittime, dei pericoli che fronteggiano i migranti ad ogni chilometro: sequestri e violenze mortali da parte di narcotrafficanti e banditi, abusi sessuali, per le donne la “deportazione” nei bordelli in Chiapas. Infine, il rischio di addormentarsi sul tetto della Bestia e di finire massacrati sotto le rotaie.
La tela delle storie confluite in questa inchiesta ricostruisce un sistema criminale che sfrutta la disperazione di migliaia di uomini, riconvertendola in denaro liquido per i cartelli criminali, spesso con la collusione o nell’indifferenza del governo centrale messicano e della polizia. Un’inchiesta che fa luce sulla tratta degli uomini dai paesi dimenticati dell’America centrale, così simile a quella che vediamo sulle nostre coste. Treni e barconi spinti dalla stessa disperazione. Ne parliamo con Óscar Martínez, che a Trieste ha vinto la terza edizione del premio internazionale "Marisa Giorgetti", riservato a personalità e scrittori che si occupano di migrazioni, incontro tra culture, difesa dei diritti umani. Il premio lo riceverà mercoledì 29 aprile, al teatro Miela di Trieste.
Il giornalista salvadoregno Óscar Martínez che scrive per il quotidiano online elfaro.net

Da che cosa scappano i migranti che dall’America centrale attraversano il Messico?
«Principalmente scappano dalla diseguaglianza, da paesi dove molto pochi possiedono moltissimo e troppi hanno molto poco. Scappano da salari minimi che, a El Salvador - dove il dollaro circola dal 2001 - possono essere anche di 118 dollari al mese. Negli anni Ottanta scappavano dalle guerre civili e negli anni Novanta dalla violenza incontrollabile che ne seguì. Oggi scappano dalla guerra tra le bande, Mara Salvatrucha e Barrio 18, che nacquero nel sud della California e i cui membri, migliaia di loro, furono deportati dagli Stati Uniti in paesi ancora in guerra tra la fine degli anni Ottanta e il principio dei Novanta. Nel Salvador, per esempio, circa quattromila componenti di gang deportati in quegli anni sono diventati ora sessantamila. I migranti fuggono da autorità inutili, totalmente avulse dalla vita del sessanta per cento della popolazione della classe media e bassa».
Durante il viaggio, pensava di vivere l’esperienza che ha vissuto o è stata peggiore?
«Molto peggiore. Credevo che avrei incontrato le difficoltà naturali di un viaggio come questo: fame, freddo, stanchezza. Invece mi sono trovato dentro una crisi umanitaria. Viaggiatori che volevano solo attraversare in maniera anonima il Messico, passando per piccoli centri defilati, e sono incappati in organizzazioni criminali, come Los Zetas, che in molti comuni hanno sostituito completamente lo Stato. Ho visto io stesso governi assenti o complici. In molti casi, la polizia messicana municipale e statale è collusa con le bande che controllano il sequesto dei migranti. Dall’altra parte, i governi dei paesi centroamericani non hanno saputo alzare la voce contro la barbarie neppure quando, nell’agosto 2010, sono stati rinvenuti settantadue cadaveri di migranti massacrati da Los Zetas a Tamaulipas, al confine col Texas».
In regioni come La Arrocera è in atto una vera guerra. Le autorità fanno troppo poco?
«La volontà di trovare soluzioni è davvero minima. La Arrocera, nel comune di Huixtla, è un tratto di pochi chilometri. Un governo con tanto potere militare com’è quello messicano potrebbe porre fine facilmente a quello che piccole bande criminali fanno in questa zona: stupri, rapine, assassinii. E tuttavia, nonostante queste barbarità siano documentate dal 1998, continuano a verificarsi. I migranti senza documenti sono vittime comode in Messico: non denunciano, perchè considerano le autorità dei nemici; non si fermano, perchè sono in transito verso altre destinazioni; viaggiano in quella parte del Messico che è lontana dalle metropoli. Sono le vittime migliori.
Davvero i banditi de Los Zetas hanno in mano tutto il territorio?
«Questa gang, il cartello dei “cavernicoli”, dei mafiosi stupidi, in realtà è stata colpita in alcuni Stati che i migranti attraversano. Si sono comportati in maniera troppo sfrontata, hanno abbandonato i cadaveri nelle piazze principali, come a Veracruz, o si sono macchiati di massacri di massa che sono finiti nei titoli di testa dei giornali di tutto il mondo. Il governo non ha potuto far altro che attaccarli. Erano gli invitati goffi della festa, quelli che non sanno comportarsi. Tuttavia, oggi, soprattutto per il rafforzamento delle misure di sicurezza nel sud del Messico, dietro richiesta degli Stati Uniti, i migranti stanno cercando nuove rotte, molte delle quali lontano dal treno. Il Messico migrante si riassesta e con esso l’attività del crimine organizzado. Non andiamo incontro a tempi migliori».


La Bestia è l’unica via di fuga?
«È l’unica via per muoversi in maniera relativamente rapida. Un migrante centroamericano ci mette in media un mese per attraversare il Messico, e questo se utilizza il treno. Viaggiare con i bus significa rischiare di essere catturato nella rete della polizia stradale, e andare a piedi, come si è visto a La Arrocera, è lento e atroce. Il treno, questo animale terribile, è l’opzione migliore per quelli che non possono pagare un trafficante in grado di organizzare un viaggio dal Centro America e con contatti sufficienti con le autorità messicane perchè queste lascino in pace i suoi clienti».
Che reazioni ha suscitato il suo libro in Centro America e in Messico?
«Molto interesse nella classe politica centroamericana e anche tra le autorità di Washington. L’ho presentato davanti ai funzionari di almeno cinque governi. Non so se questo serva o no per cambiare le cose. È il grande dilemma giornalistico: sapere se quello che raccontiamo cambierà qualcosa o se rimarrà solo come una documentazione di quanto siamo stati barbari in un determinato momento».
Le donne sono le vittime più vulnerabili. Qual è la storia che più l’ha sconvolta?
«Quella delle donne dei postriboli del sud, che racconto nel libro, mi ha fatto riflettere a lungo. Le loro vite sciagurate, con così pochi momenti di tregua, mi hanno fatto capire che quello che per alcuni è un inferno, per altri magari è il momento migliore dell’esistenza. Uscendo da quei bordelli mi sono reso conto di quanto stupide possano essere a volte le nostre pene, le pene di chi ha Facebook e una casa con acqua calda, che va al museo, viaggia, si abbronza sulla spiaggia. È ingiusto che il divario sia tanto grande. C’è un abisso tra noi e gli altri».
In che cosa si assomiglia la condizione dei migranti dal Centro America, dall’Africa e dal Medio Oriente?
«Credo che per tutti la barbarie peggiore si verifichi nel viaggio, nel transito, quando i migranti mettono in pratica il loro verbo: migrare. Questi viaggi dimenticati, dove ci sono pochi giornalisti e quelli che arrivano lo fanno solo per un momento e dopo se ne vanno, sono il terreno ideale perchè questi uomini diventino mercanzia: Messico, Marocco, Algeria, Libia, Tunisia. La stampa, la maggior parte dei grandi mezzi di informazione, funziona in Messico come nei paesi europei e negli Stati Uniti: sono turisti dei temi delle migrazioni, sono paracadutisti. Arrivano quando c’è un massacro, quando settecento migranti affogano in mare o quando settantadue sono massacrati da Los Zetas. Dopo se ne vanno e ritorneranno solo al prossimo massacro».

@boria_a

lunedì 20 aprile 2015

L'INTERVISTA

Ana Cecilia Prenz: così ho attraversato il mare in bicicletta, dall'Argentina, alla Jugoslavia, a Trieste...



La Jugoslavia, l’Argentina, l’Italia. Tre paesi s’incrociano nella famiglia e nella vita di Ana Cecilia Prenz Kopušar. Identità, culture, lingue, trasferimenti e passaggi, in cui la sua storia personale attraversa i momenti cruciali di quella del ’900: la dittatura argentina, Tito, la dissoluzione e le guerre civili nei Balcani, le tensioni politiche degli anni ’70 in Italia.

“Cruzando el río en bicicleta”, che Ana Cecilia, figlia dello scrittore Octavio Prenz, ha pubblicato in spagnolo per l’editrice argentina Libros de la talita dorada (pagg. 98) è il diario, intriso di nostalgia, di una bambina che diventa giovane donna attraverso un’esperienza di formazione unica e straordinaria e, insieme, la cronaca di epoche e mondi che tragicamente si dissolvono sotto i suoi occhi, lasciando cicatrici nel cuore. È il racconto di un triplice strappo, di uno spaesamento e delle difficoltà di ricominciare la vita altrove, conservando dentro di sè le persone, le lingue, i suoni incontrati e assimilati, come parte della propria identità.
Il libro - che nel 2016 uscirà in italiano per i tipi della neonata editrice triestina Vita Activa - viene presentato oggi, alle 17.30, al Caffè San Marco dall’autrice, docente universitaria a Trieste, insieme al critico Enzo Santese e con intermezzi musicali e letture di Felipe José Kopušar Prenz. Ne parliamo con Ana Cecilia Prenz.

Ana Cecilia Prenz Kopušar (foto di  Francesco Bruni per Il Piccolo)
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Attraversando il fiume in bicicletta, perchè questo titolo?
«C'entra con mia nonna istriana, Maria, immigrata tra le due guerre a Ensenada, in Argentina. Lavorava in una fabbrica di salumi dall’altra parte del fiume e ogni giorno doveva attraversare un braccio del Rio de La Plata su una piccola barca. Quando ci entrava, gli uomini, dal basso, le guardavano le mutande, o almeno era quello che lei percepiva. Si sentiva infastidita da quegli sguardi e sognava di attraversare il fiume in bicicletta, galleggiando. Un sogno che raccontava spessissimo e che nel libro è l’immagine del mio andare e venire da uno spazio all’altro, anche con la testa».
Lei e la sua famiglia fuggite dall’Argentina nel 1975...
«Già nel ’73, prima della dittatura, quando Perón tornò in carica, poi morì e andò al potere sua moglie, la situazione si era fatta confusa e poi era precipitata. Aveva cominciato a funzionare la Triplice A, Alianza Anticomunista Argentina, che reprimeva chi non era d’accordo. Mio padre era nelle “liste nere”, aveva ricevuto minacce di morte. Una sera ci accorgemmo che una di quelle macchine senza targa che giravano per il paese era parcheggiata nel nostro garage, in attesa che tornasse. Mi ricordo mia madre, inginocchiata, che sbirciava dalla finestra. Già da tempo mio padre non dormiva in casa e comunque mai nello stesso posto. Molti nostri amici accademici erano già andati via. Papà ci precedette e arrivò a Belgrado».
È vero che andava in una scuola speciale in Argentina?
«In quegli anni i paesi latino-americani vivevano una stagione di grande fervore. I miei erano genitori giovani, di sinistra, amavano la sperimentazione. Mi avevano iscritto al Centro pedagogico di La Plata, una scuola senza aule nè programmi prestabiliti, dove ogni bambino, a prescindere dall’età, si univa a un gruppo secondo le tematiche che gli interessavano. Studiavamo i classici greci e l’intera scuola era in fermento, tutti facevano ricerche sulla Grecia. C’era molta libertà, tutto era “troppo”. Perchè, all’estremo opposto, avevamo una maestra che non voleva si dicessero parolacce e, se accadeva, ci lavava la bocca col sapone».
Lei scrive: i miei non mi hanno mai fatto sentire il peso dell’esilio...
«Nella mia famiglia c’è una storia politica di esilio che è drammatica, ma c’è anche una storia di fatto. I nonni paterni erano istriani, in casa si respirava una vicenda europea. Io sono nata a Belgrado, dove i miei genitori sono rimasti tre anni prima di andare in Argentina, dov’è nata mia sorella Betina. Venire a Belgrado, quindi, coincideva con questa prima loro permanenza, era un “esilio”, ma anche un “ritorno”».
Primo ostacolo: la lingua.
«Avevo undici anni, all’epoca, Betina sette. I miei erano “sportivi”, non si sono mai fatti problemi su dove ci avrebbero inserite. Pensavano che eravamo piccole e quindi avremmo comunque imparato. I primi mesi siamo rimaste mute, poi Betina è andata in prima elementare e ha cominciato subito a scrivere in cirillico. Io ero in prima media e copiavo quegli strani segni dalla lavagna. In tre, quattro mesi, abbiamo imparato la lingua. Per me rappresentava un ritorno alle origini, mi sono sempre sentita belgradese. Tornare lì era recuperare il mio passato».

Ana Cecilia con il figlio Felipe José Kopušar Prenz (foto Bruni per Il Piccolo)

Quante lingue si parlavano a casa sua?
«I miei nonni provenivano da un paese vicino Pisino, erano cresciuti con l’impero austro-ungarico. In Argentina parlavano nel loro dialetto istriano misto allo spagnolo. Mia mamma è argentina da più generazioni, ma di origini spagnole e, in qualche ramificazione, anche francesi e indigene. Quando erano fidanzati, Octavio, mio padre, voleva conoscere il paese dei genitori, ma le famiglie li avrebbero lasciati partire solo se sposati. Sono venuti in Europa, hanno viaggiato per un anno, poi Octavio ha avuto un incarico da lettore a Belgrado. Lì mia mamma ha continuato a studiare letteratura italiana, ma in serbo-croato».
Nel ’79 avete lasciato anche la Jugoslavia.
«Si capiva che qualcosa non andava nel migliore del modi... Trieste fu una scelta casuale: era vicina alla Jugoslavia e la mentalità italiana era vicina a quella argentina. Mio padre venne a informarsi sulla possibilità di insegnare alla Scuola interpreti, dove allora era preside il professor Ferencic. Ebbe l’incarico e per un anno viaggiò su e giù da Belgrado a Trieste, poi ci trasferimmo tutti».
Uno shock?
«Sì, l’impatto fu molto duro, molto difficile. Venivo da un contesto socialista e mi ci identificavo, mi trovavo bene, mi piaceva quel mondo. Trieste era molto più stratificata, con livelli sociali diversi. Venivo dalla Jugoslavia, un paese che non è mai stato accettato completamente, non parlavo italiano. Ero argentina o jugoslava?, non si capiva. Mi iscrissero al liceo Dante, il professor Ferencic aveva detto che era la scuola migliore. I miei non credevano che il fatto di essere straniera costituisse un problema, invece fu così. Già la prima settimana di scuola comunicarono loro che sarei stata bocciata».
E così tornava a Belgrado per “riossigenarsi”, come scrive.
«Il libro parla della mia vita, ma è un pretesto. È chiaro che chi non ha attraversato certe stagioni le interpreta in modo diverso, la nostra è un’epoca di stereotipi. Il libro parla di un mondo in cui si viveva e si viveva bene, nei miei ricordi di adolescente era meraviglioso. Non so se oggi sia così ricco di stimoli come quello che ho conosciuto io. L’impatto con la scuola italiana fu repressivo, intendo da un punto di vista intellettuale. Passai al liceo Petrarca: fui bocciata anche lì, ma volutamente. Intanto avevo imparato l’italiano. Mi iscrissi alla prima sezione del Linguistico e sono stati anni meravigliosi».
La sua vita è riflessa nei suoi documenti...
«Il certificato di nascita è in cirillico. In Jugoslavia valeva lo ius sanguinis, quindi c’è scritto “argentina”. In Argentina vale lo ius soli, infatti sulla mia carta d’identità in spagnolo c’è scritto “jugoslava”. A 18 anni sono diventata apolide. Durante la dittatura in Argentina avevo perso la nazionalità e sarei dovuta tornare lì per un anno per riacquistarla. Ma i nonni istriani possedevano un passaporto italiano, non avevano mai sentito la necessità di cambiare nazionalità. Grazie a loro sono diventata italiana».
Così, alla fine, anche Trieste è diventata sua.
«Certo, appartengo a questa città. Gli anni del Petrarca mi hanno insegnato a pensare a “ventaglio”, a non affrontare mai le questioni da un unico punto di vista. Eravamo un gruppo di studenti inquieto, ci ponevamo tantissime domande. E Trieste è una città apparentemente chiusa, ma di ampio spettro, offre la possibilità di vedere le cose da tante prospettive. Finita la dittatura l’Argentina invece mi sembrava piatta, dopo anni di silenzio i giovani erano inquadrati».
Nella sua tesi di laurea, Stanislavskij, così studiato in Argentina, le ha permesso di riconciliare i suoi mondi.
«In tutto quello che faccio ho sempre cercato di unire i miei tre mondi, Jugoslavia, Argentina e Italia. Li vorrei vivere contemporanemante. Di recente ho detto a mio figlio: esiste la parola “terbiqua”? Ecco, io sono così. Il mio libro parla della sofferenza dello spostamento, del dolore di lasciare una parte di sè altrove. O la porti dentro e la fai vivere o questa parte resterà sempre una mancanza».
@a_boria

mercoledì 15 aprile 2015

MODA & MODI
 
Nell'isola di neoprene

Foto  Diecisettanta

È tornato utile a Lara Furlanic l’aver lavorato come dipendente in una ditta che produce mute. Quando ha deciso di dare una svolta alla sua vita e di mettersi in proprio, avere dimestichezza con il taglio e le macchine da cucine, l’ha aiutata - letteralmente - a “dar forma” al suo sogno. Infatti conosce bene e sa manipolare la materia prima della sua nuova avventura: il neoprene.
 
È nata così “L’isola di Lara”, un laboratorio-negozio “color blocking”in via del Lazzaretto Vecchio a Trieste, dove questo residuo di gomma sintetica assume derive imprevedibili e un po’ bizzarre. Dal cappottino per il cane “togli e metti” alla giacchina nera da baby-fashionista - che a colpo d’occhio inganna davvero, sembra fatta di seta - Lara dà sfogo alla sua manualità e creatività, passando dagli accessori all’oggettistica per la casa, dallo sportswear a qualche capo di abbigliamento anche “urbano”, sempre all’insegna delle tinte spinte.
 

Ci sono ancora le mute, il giaccone da navigazione, i completi per 
mini-velisti e una divertente salopette da pescatore mimetica, calzari e copricalzari per attività sportive, ma l’artigiana confessa di volersi in futuro dedicare solo a oggettistica e accessori, soprattutto borse, la sua vera passione.
 
 Il segreto? Il neoprene è leggero ma resistente e si presta a diventare anche una maxi-shopper con fondo rinforzato, a prova di carico femminile. Tra la sacca e il portacellulare, tutta una gamma di forme e dimensioni, dalla bustina per i trucchi (o per il costume bagnato), all’astuccio, alla pochette, alla tracolla, alla borsa più strutturata, con unico o doppio manico, per sconfinare nel borsone da attività sportiva, nei portaracchetta, portascarponi o portasci, che per i bambini sono dotati di una piccola tasca esterna dove infilare guanti e berretto e personalizzati (per invogliarli a caricarsi da soli la propria attrezzatura, il che non è una cattiva idea...).

Lara non ha paura dei colori e “buca” la sua vetrina con arancioni e viola carichi, rosso e nero, verde militare, per sfumare poi nel rosa e nel grigio, divertendosi a mescolare la palette. Lavora “a vista”: dalla strada la si vede tagliare, incollare, cucire i suoi pezzi, tutti unici (o a richiesta). Quando avrà "tagliato" qualche fiore di troppo, potrà anche alzare (anagraficamente) il target della clientela e affrancarsi del tutto dall'idea del souvenir. 
 
L’isola di neoprene comunque incuriosisce e l’idea fa proseliti, al 
punto da dover scoraggiare gli imitatori con un cartello: niente foto o riprese video. Info: www.lisoladilara.com  info@lisoladilara.com, tel. 348-5652894.
twitter@boria_a



giovedì 9 aprile 2015

IL LIBRO

Francesca Scotti: il maestro e l'allieva, cuori inesperti



Francesca Scotti, scrittrice e violoncellista

L’andamento de “Il cuore inesperto” di Francesca Scotti (Elliot, pagg.180, euro 17,50) è lento e pastoso, uguale ad alcune delle pagine di musica che Anita studia sulla viola, preparandosi al diploma di Conservatorio. Subito, però, nel fluire delle prime battute di questo romanzo, avvertiamo una nota inquieta, nervosa, come se l’arco dello strumento avesse toccato la corda con l’inclinazione sbagliata, lasciando uscire uno strido.
Perchè lei, Anita, giovane promessa della musica, è poco più che una bambina, e lui, il maestro, Gabriele, l’artista che ormai ha abbandonato le speranze di carriera e i concerti, è un uomo maturo e deluso, con alle spalle una convivenza interrotta in fretta, forse troppo.

 
Non è amore quello che nasce tra Anita e Gabriele, e non solo per la differenza anagrafica, che lo confina alla voce reato. È l’impasto malato di due solitudini, nutrite entrambe dalla musica, che nella musica trovano un linguaggio comune, paritario, quello che il sesso non potrà mai essere.

 
Anita, genitori separati - una mamma traduttrice dal giapponese persa nei suoi suoni misteriosi, un padre svelto a rifarsi una vita - si presenta a casa dell’insegnante di viola. Sceglie di andarci senza malizia, intuendo un’attrazione, felice di affidarsi a un adulto che non la ignora o la delude, con cui condivide una passione. La relazione che nasce da quell’incontro non viene mai raccontata nel suo crescere, anzi, nel suo dipanarsi che sembra restare sempre temporalmente orizzontale. E' solo "cristallizzata" dalla scrittrice in alcuni momenti di intimità, in bilico tra seduzione e sopraffazione, tra tenerezza e dipendenza. Tra gioco e ambiguità.

 
Ma chi è davvero indifeso tra Anita e Gabriele, chi è tra i due il più debole, esposto? La ragazzina che a poco a poco diventa donna, conservando la sua parte di sogno e difendendo il territorio dell’innocenza da ogni intrusione? O l’uomo smarrito nelle sue tentazioni, la cui vita vuota si trascina sotto lo sguardo occhiuto della sorella, che nel cesto della biancheria, tra gli abiti sporchi, intuisce e tace?

 
Basta una gonna indossata alla rovescia e una vicina di casa più attenta e curiosa di una madre, perchè tutto precipiti. E Anita racconti di quell’unico incontro in un albergo, quando la relazione è scivolata nella malattia. Quando Anita capisce che, oltre a un "maestro Neri", c'è anche un "signor Neri", come lo definisce il portiere di quel "due stelle", facendola salire in camera da letto. Ma Francesca Scotti, come in una partitura che sul finale s’impenna, ci concede un ultimo incontro tra i protagonisti, quasi una fuggevole prova di dominio, dove ogni traccia si sentimento è svanita. E lascia a noi decidere chi è la vittima e chi il carnefice, quale cuore è inesperto.

@boria_a

"Il cuore inesperto" (Elliot)


mercoledì 8 aprile 2015

IL LIBRO

Suad Amiry (e sua suocera) a Trieste in videoconferenza 


Suad Amiry riceva il premio Nonino Risit d'Aur a Ronchi di Percoto il 25 gennaio 2014 (foto Petrussi)

Quando vinse il “Nonino Risit d’Aur”, nel gennaio di un anno fa, la scrittrice e architetto palestinese Suad Amiry, confessò ridendo dal palco delle distillerie di Ronchi di Percoto, di aver ballato e saltato alla notizia del premio, perchè conosceva bene «quanto si diventa allegri con una Nonino». Il "Risit d'Aur", dedicato agli agricoltori che custodiscono gli antichi vitigni, le aveva fatto particolarmente piacere, perchè - raccontò agli ospiti - vi aveva trovato un legame forte con Riwaq, il centro da lei fondato per la protezione e la documentazione degli edifici storici palestinesi, scrigno dell'identità, delle tradizioni, dell'amalgama di un popolo. Suad Amiry contagiò tutti con la sua vitalità e veemenza, soprattutto con la trascinante ironia con cui ripercorse la convivenza con la suocera durante l’assedio israeliano al quartiere generale di Arafat a Ramallah, nel 2001 e 2002, da cui nacque l’esilarante “Sharon e mia suocera”, pubblicato da Feltrinelli e poi tradotto in undici lingue. In origine erano email scritte ad amici, una sorta di diario virtuale per sfogare la pesantezza della forzata coabitazione. 


«Non avevo ambizioni letterarie, ho scritto come terapia per sostenere le due occupazioni sotto cui mi ritrovavo: quella di mia suocera e quella degli israeliani. E non so quale fosse peggio».
Alla cerimonia del “Nonino”, solo gli ospiti dei distillatori friulani ebbero l’opportunità di conoscere Suad Amiry, docente di architettura all’Università Birzeit di Ramallah e fondatrice del Riwaq Centre for Architectural Conservation, ma anche componente delle delegazioni palestinesi per la pace in Medio Oriente fra il ’91 e il ’93. Sabato 11 aprile, invece, alla libreria Lovat, alle 17.30, l’autrice sarà presente in videoconferenza per raccontare i suoi libri e il suo impegno, “invitata” a raccontarsi al pubblico dal gruppo di lettura Ibriq, che si raccoglie periodicamente intorno ad autori palestinesi e che ha sperimentato con successo questa formula di incontro a distanza, nel gennaio scorso, con Susan Abulhawa e il suo bestseller “Ogni mattina a Jenin”.
A intervistare Amiry sarà un’altra scrittrice palestinese, Widad Tamimi, di origine triestina per parte di madre, mentre le letture saranno di Tatiana Malalan e le musiche di Mahmud Khatib. Amiry ha pubblicato con Feltrinelli anche “Se questa è vita” (2005), “Niente sesso in città” (2007), “Murad Murad” (2009) e “Golda ha dormito qui” (2013), oltre a numerosi studi sull’architettura storica palestinese.


Il Nonino 2014, che la scrittrice palestinese vinse insieme allo psichiatra Peppe Dell'Acqua, fu dedicato all'abbattimento dei muri, alla cancellazione di qualsiasi forma di contenzione, di violazione dei diritti. Così Amiry ringraziò a Percoto: «Questo premio è un riconoscimento per la Palestina. Ci dice: noi vi vediamo nonostante l'oscurità, noi sentiamo le vostre sofferenze nonostante il muro di cemento di otto metri costruito intorno a voi».
@boria_a




venerdì 3 aprile 2015

IL LIBRO

Tiramisù e cotolette: è guerra in tavola




Su un punto tutti sono d’accordo, storici, storici della tavola, gourmand e semplici appassionati: il destino del “tiramisù” è scritto nel nome. Poco importa che si trattasse di fare recuperare le forze a una giovane puerpera, quella Alba Campeol che, nell’inverno 1969-70, appena diventata mamma di Carlo, era la datrice di lavoro dell’inventore del fortunato dessert, Roberto “Loly” Linguanotto, all’epoca ventiseienne e all’opera dietro i fornelli “Alle Beccherie” di Treviso.


Oppure, come invece sosteneva lo scrittore Giovanni Comisso, assiduo frequentatore del “Toulà” di Treviso, dove il “tiramisù” si serviva quotidianamente fuorchè d’estate, che quel dolce nato nella tradizione degli “sbatudìn” di uova fosse un corroborante per le ragazze delle “case chiuse”.
 
Quel che appassiona lo scrittore e giornalista Alessandro Marzo Magno è l’investigazione sulle origini dei piatti, al punto da aggiungere due capitoli importanti al suo “Il genio del gusto” (Collezione storica Garzanti, pagg. 412, euro 22,00), che torna in libreria ampliato da altrettanti thriller gastronomici: dov’è nato il “tiramisù”? E chi ha il copyright sulla “cotoletta”? Ovvero, è la dorata fetta di carne un prodotto italianissimo o è figlia dell’austriaca Wienerschnitzel?

 
La querelle sul tiramisù - lemma che, singolarmente, entra nell’Oxford English Dictionary, dov’è registrato nel 1982, un anno prima che nel Vocabolario della lingua italiana Zanichelli - incrocia anche il Friuli Venezia Giulia, come se non bastassero a contendersene la paternità le “Beccherie” e un altro trevigiano, l’albergo “Al Fogher”, distante circa due chilometri e orgoglioso ideatore della quasi identica “coppa imperiale”. In tempi recenti sono stati gli eredi del celebre “Roma” di Tolmezzo a rivolgersi a un avvocato per rivendicare l’invenzione del dolce italiano più famoso al mondo, subito rintuzzati da un’analoga pretesa arrivata da Mario Cosolo del “Vetturino” di Pieris, nel goriziano, e poi dal romano bar Pompi, che dice di aver creato il dolce nel 1960, quando era una semplice latteria, prima di cavalcare il business e fondare una piccola holding delle variazioni del tiramisù. A complicare la faccenda ci si è messo addirittura il New York Times con un articolo del 6 marzo 1958 dal titolo illuminante “What’s Tiramisu? Well, it depends...”, dove vengono registrate oltre duecento varianti, mentre sulla provenienza l’autorevole quotidiano spazia con ipotesi ad ampio raggio, dal Piemonte alla Campania, passando per Veneto, Lombardia, Toscana. E riporta anche il parere di Anna Mosca, manager del meneghinissimo Sant Ambroeus di Madison Avenue a Manhattan, che epura dalla ricetta il più lombardo dei formaggi: “nel tiramisù dell’Italia settentrionale non c’è mascarpone...”.

 
Sono però proprio i corregionali i più accaniti oppositori dei veneti nella battaglia del tiramisù. E in qualche modo c’entra anche Trieste, perchè Cosolo, a sentire la figlia Flavia, desunse il nome della sua coppa semifredda dal commento di un avventore triestino che, a dolce finito, se ne uscì con un soddisfatto “Ah, mi ha proprio tirato su”. Ennio Furlan, però, che al “Vetturino” fu cuoco per anni, sostiene che il dolce nativo di Pieris era a base di panna montata, panna al caffè e panna normale, mentre il mascarpone sarebbe arrivato negli anni Ottanta. Inoltre, a suo dire, Cosolo e Beppino Del Fabbro, titolare del “Roma”, erano amici (masterchef e precursori di Bastianich già all’epoca, entrambi dotati di auto, vera rarità del povero Friuli anni Sessanta...) e quando il goriziano saliva a mangiare in Carnia e gustava la versione locale del tiramisù, questa con mascarpone, scherzava col collega: «Ma come! L’ho inventato io e tu gli dai lo stesso nome?». La lontananza e la diversità di clientela, però, come saggiamente conveniva Beppino, permettevano una più che pacifica convivenza dei tiramisù friulani.

 
Gli eredi dei titolari del “Roma” la pensano diversamente. Questione di ingredienti, quanto basta per scatenare la battaglia legale. L’invenzione del dolce autentico - dichiarano, vantando documenti per ora “secretati” - è della moglie di Beppino, Norma Pielli, che negli anni ’50, lo confezionò modificando il dolce morbido di Pellegrino Artusi, con la sostituzione del mascarpone al burro. E il marito, fatalmente, avrebbe esclamato: «Questo è un dolce che tira su. Chiamiamolo tiramisù».

 
L’ultima parola sui natali la diranno i giudici, ma nell’offensiva mediatica dei giornali friulani, si è intanto infilata pure la politica. Quando il presidente del Veneto, Luca Zaia, decide di avviare la procedura per riconoscere al tiramisù il blasone di Specialità regionale garantita, rispuntano i ricordi di una novantatreenne Norma Pielli e la querelle tra friulani e veneti rimbalza addirittura su “Guardian” e “Daily Telegraph”.

 
Purtroppo, però, il dolce di Loly Linguanotto non è bastato a risollevare economicamente Carlo Campeol come aveva fatto con il fisico di sua mamma Alba. Dopo 75 anni, alla terza generazione di ristoratori, “Alle Beccherie” ha chiuso, proprio come il tolmezzino “Roma”. Nonostante il tiramisù, la serranda è stata tirata giù.



Alessandro Marzo Magno


Vicenda ancora più intricata e complessa quella della primogenitura della cotoletta tra Italia e Austria, dove entra in campo un esercito di variabili, tra osso, non osso, impanatura, infarinatura, frittura, larghezza e altezza. All’origine del presunto primato lombardo, ci dice Marzo Magno, c’è una bufala: in un documento del conte Attems, aiutante di campo di Francesco Giuseppe, si cita un rapporto del maresciallo Radetzky in cui, tra cosucce di maggior peso, viene esaltata la sublime ricetta dei milanesi della costoletta intinta nell’uovo, impanata e fritta nel burro... Nella lunghissima storia, a far da ponte tra Austria e Italia, entra anche il ricettario di Ottilia Visconti Aparnik, maestra di cucina al civico liceo femminile di Trieste.

Purtroppo, però, in nessuna biografia della monarchia asburgica c’è traccia del fantomatico conte Attems, nè tantomeno pare che Radetzky abbia messo il naso tra le padelle. Ma le bugie, si sa, sono più affascinanti della realtà, e le guide austriache continuano a ripetere che Vienna, capitale di un grande impero, importò i pezzi forti delle gastronomie suddite: le palacinke dai Balcani, il gulash dall’Ungheria e la dorata cotoletta da Milano...
@boria_a