giovedì 28 maggio 2015

L'INTERVISTA

Bob Ravalico, da Trieste ai vertici dell'Onu
Esce la biografia del "mulo" yankee



Ravalico con il vicepresidente Al Gore. Sullo sfondo il figlio Andrea, oggi direttore esecutivo di banca Ubs a New York

Sua madre li chiamava “i tubi di stufa”, perchè, una volta lavati, stavano in piedi da soli. Ma lui, Bob Ravalico, i suoi jeans li amava moltissimo e li indossò anche per andare a scuola, all’istituto per geometri Da Vinci, salvo poi essere rimandato a casa a vestirsi “in modo decente”. L’America, Bob, quindicenne ai tempi del Governo militare alleato, ce l’aveva nel sangue. Giocava a basket (nel ’53 vinse i campionati italiani juniores con la squadra della Ginnastica, dove giocava Gianfranco Pieri) marinava le sue lezioni per infilarsi tra i coetanei della High school americana, parlava inglese già così bene da essere ammesso nel “Teen age club” dei figli degli ufficiali yankee di stanza a Trieste. La sua famiglia veniva da Pirano e il nonno paterno, con due figli, era emigrato proprio in quel paese che lui sognava leggendo i libri della biblioteca dell’Usis, l’Us information service, su cui aveva imparato a muoversi lungo le strade di New York pur non avendola mai vista. E mai avrebbe immaginato che in quella città era destinato a fare una carriera straordinaria, fino a diventare Capo dei servizi di sicurezza dell’Onu, primo e unico italiano a ricoprire quella carica.

Ravalico con il principe Aga Khan Sadruddin che, dal 1966 al 1978, fu alto commissario dell'Agenzia per i rifugiati dell'Onu
S’intitola “Di vita e di conflitti. Trieste-New York: scalata al vertice della sicurezza Onu” (Photo Ma.Ma Edition, Minusio, pagg. 400, euro 20,00), l’autobiografia che Bob Ravalico ha scritto per i suoi sette nipoti (quattro dei quali vivono a Trieste, tre a New York), ripercorrendo una vita professionale scandita da incontri ed esperienze con presidenti e capi di stato, interventi nelle zone calde del mondo, avventure e paure.
Tutto cominciò proprio a Trieste, dove Bob, lasciata la scuola, nel ’54 si arruolò nella Venezia Giulia Police Force, un corpo formato da inglesi, americani e italiani. Finita quell’esperienza - che lo portò anche a Roma, per un’operazione speciale finanziata dalla Cia - rientrò a Trieste e fu assunto dalla CrT per organizzare la sicurezza della banca: «Di fatto finii a fare il custode - confessa - e fu un periodo infelice. Seppi di un concorso dell’Onu per Security Officers da impiegare all’estero. Mi dimisi, superai tutti i test alla grande e mi ritrovai con un passaporto dell’Onu pronto a partire per il Medio Oriente. Amici e parenti mi consideravano un pazzo: lasciavo una banca per un’avventura piena di incognite». La scelta di Bob si rivelò vincente. Ecco come la racconta da Locarno, dove vive con la seconda moglie Ruth, sposata più di trent’anni fa.
È vero che già nella polizia della Venezia Giulia si è occupato di personaggi molto speciali?
«Beh, forse subito no, come tutti ho fatto la gavetta e solo in seguito fui trasferito nella squadra investigativa dell’allora ufficio politico, l’odierna Digos, credo. Ricordo Re Faruk: un ciccione che mangiava e beveva ed era solleticato dalla sua bionda e voluttuosa fidanzata, Capece Minutolo. Con Jovanka, la moglie di Tito, mi trovai in un paradosso: proprio io, esule, dovevo proteggere l’emblema dei titini... Ma lo feci comunque, professionalmente. Il caso volle che molti anni dopo incontrassi in Somalia sua sorella, sposata con l’ambasciatore jugoslavo a Mogadiscio».

Primo incarico Onu, la Guerra dei Sei Giorni. Un impatto forte...
«Ero agli inizi ma con la mia esperienza passata riuscii comunque a mettermi in luce e a essere assegnato alla Special Unit dove si combattevano lo spionaggio e il contrabbando di alcuni ufficiali che sovrintendevano alla tregua tra arabi e israeliani. Rimasi operativo in Medio Oriente per 12 anni. Sono stato anche fatto prigioniero per un breve periodo. Fu duro dover dormire nel deserto: dopo giornate caldissime la temperatura scendeva di colpo e con altri colleghi ci si ammucchiava sulla sabbia fredda per riscaldarci».
È vero che non le piaceva Kurt Waldheim?
«È uno dei Segretari generali dell’Onu che ho conosciuto, ma del quale non ho un buon ricordo. Un egocentrico interessato solo alla sua levatura più che al servizio a cui era chiamato. Una volta mi trovai ad accompagnarlo nelle capitali del Medio Oriente. Ad Amman l’incontro con Re Hussein fu rimandato perchè sua moglie era deceduta in un incidente con l’elicottero proprio quello stesso giorno. Vedo ancora Waldheim camminare su e giù per la stanza inveendo contro il Re che aveva avuto l’ardire di rimandare il colloquio con lui. Mi disgustò».



Ravalico con il segretario generale dell'Onu Boutros Boutros-Ghali (1992-1996)

In Iraq l’incontro con Kofi Annan, allora funzionario Onu...
«Era il 1988 quando le truppe di Saddam Hussein in Iraq “gassarono” un villaggio curdo nel Nord del paese. La commissione Onu per il Medio Oriente, a Baghdad, era ad alto rischio. Dalla Costa d’Avorio, dove avevo un ufficio, mi fu richiesto di organizzare un dettagliato piano di evacuazione. La direttrice dell’ufficio di Baghdad, signora Dodson, venne a darmi il benvenuto all’aeroporto, ma non mi conosceva e cercava un italiano da stereotipo: basso, capelli ricci, baffi. La vedo ancora svolazzare per l’atrio nel panico, con l’autista vicino. Nel frattempo era arrivato Kofi Annan da New York e insieme ci avviammo al controllo passaporti, dove finalmente la Dodson si fiondò su di noi scusandosi profusamente. Noi ci facemmo una bella risata. La nostra amicizia si consolidò in quest’occasione. La guerra tra Iran e Iraq era finita, ma i due paesi si scambiavano ogni giorno un missile Scud. Quello su Baghdad esplodeva con gran frastuono alla sera. Kofi e io ci facevamo regolarmente un wiskey fino all’impatto, dopodichè andavamo a dormire, a volte un po’ allegri. Abbiamo lavorato sempre in sintonia».


Con Kofi Annan, Segretario generale Onu (1997-2006) e Premio Nobel per la Pace

Com’è stato il suo ingresso nel Palazzo di vetro?
«Naturalmente l’avevo visitato varie volte, ma entrare camminando sul tappeto rosso è stata un’esperienza e una soddisfazione unica. Decisioni, intrighi, alleanze, pressioni politiche, interessi internazionali, nepotismo alimentato da Missioni o Delegazioni, egocentrismo... Insomma, una moderna Torre di Babele, con un proprio linguaggio fatto di acronimi incomprensibili ai nuovi arrivati. Ero consapevole che questo elaboratore umano in definitiva controlla il mondo intero e tutto l’insieme era molto stimolante, soprattutto una sfida».
Africa, America centrale, Iraq: cos’è stato peggio?
«In ognuno di questi posti ho avuto una buona dose di paura e in più occasioni ho rischiato il peggio. La paura è una brutta bestia, tutti la provano. Io riesco a controllarla e questo mi ha permesso di operare per tanti anni sotto pressione. Mi ha aiutato anche una forma di orgoglio italico. Era come se volessi dimostrare che l’italiano non è da meno di colleghi di altre nazionalità che passano per temerari».


Un matrimonio curdo nel Kurdistan del Nord, Iraq 1991

Nel 1993 il primo attentato alle Torri Gemelle.
«Ero in auto con l’ambasciatore giapponese diretto al World Trade Center per un pranzetto al ristorante “Windows on the world”, all’ultimo piano del grattacielo, quando il mio Centro di controllo m’informò via radio che qualcosa era successo in quella direzione e mi consigliò di tornare in ufficio. Il pomeriggio stesso, con i colleghi di Fbi, Diplomatic Security e NYPD, la polizia di New York,


Ciccio, il piccolo maltese di Bob e Ruth, mascotte delle guardie dell'Onu in Iraq
visitammo il sito. Una caverna enome come due-tre campi di basket, con centinaia di auto distrutte. Da quel giorno tutti i Servizi di sicurezza di New York iniziarono a riunirsi più frequentemente. Ricordo che l’amico Jim Heavy, capo dei Servizi segreti, annunciò che aveva perso ben 34 automobili. Mi alzai e di fronte a tutti affermai che ciò non sarebbe potuto succedere a me. Lui, incazzato, replicò: “Credi di avere un Servizio migliore del mio?”. Al che io risposi: “No, semplicemente non ho tante automobili”. Scoppiarono tutti a ridere e per molto tempo la storiella fece il giro di New York».
Avevate previsto la possibilità di altri attentati?
«Pensammo alla possibilità di un attacco aereo contro un edificio, in particolare la sede dell’Onu, che ha una grande facciata esposta a Est. Assieme ad alcuni ingegneri discutemmo il possibile attacco con un aereo da turismo pieno di esplosivo tipo C-4. Secondo gli esperti, tale impatto avrebbe distrutto al massimo tre piani, senza intaccare la sicurezza del grattacielo. Nessuno ipotizzava quello che sarebbe successo nove anni dopo».
L’incontro con il Papa...
«Avevo già avuto contatti con il Vaticano, che, peraltro, ha il miglior Servizio di intelligence al mondo, onesto e senza doppi giochi. Ma la visita a Giovanni Paolo II fu un evento che mi impressionò. Mi parlava come se fossimo amici, con semplicità, dopo avermi chiesto in quale lingua preferivo esprimermi. Dei tanti che ho incontrato, i tre personaggi che mi hanno colpito di più per carisma sono stati Giovanni Paolo II, Nelson Mandela e Madre Teresa».
Bob Ravalico con Giovanni Paolo II
Lei non ha mai dimenticato Trieste...
«È sempre stata nel mio cuore, ne ho parlato con tutti i colleghi e, modestamente, ne ho sempre portato alto il nome. Dopo il divorzio, i miei figli tornarono a Trieste con la mamma, mentre io ho continuato a girare il mondo. Le mie due figlie, Betty e Sandra, ancora ci vivono con le loro famiglie mentre mio figlio Andrea, direttore di banca Ubs, è a New York».
E la vela?
«Partecipo alla Barcolana dal ’91. Venivo da New York per la regata e ripartivo subito dopo. Dopo la pensione, ho vissuto due anni e mezzo su una barca a vela navigando da New York al Venezuela attraverso tutte le isole dei Caraibi. Ho attraversato l’Atlantico e navigato in solitario da Trieste a Tel Aviv con una barchetta di otto metri. Oggi navigo con la mia quindicesima barca e religiosamente ogni anno partecipo alla Barcolana. Prima facevo equipaggio con Tano Romanò, uno skipper molto competitivo. Ora sto su una barca più grande e comoda dell’amico Ivo, senza velleità di vittoria ma solo con la grande gioia di esserci».


Grande passione per la vela, Bob non si perde una Barcolana a Trieste
Come le piacerebbe che la ricordassero i nipoti e, un domani, i pronipoti?
«Ho pensato che il modo migliore per farmi conoscere fosse raccontare loro la mia vita. Sarei appagato se mi vedessero come una persona onesta che, pur dovendo stare lontano dalla famiglia, ha svolto un ruolo vitale nell’assicurare l’incolumità altrui..
Quali qualità e quali difetti deve avere il capo della Sicurezza Onu?
«Fare esperienza, avere attitudine al comando, essere in grado di gestire i subordinati. Non chiedere mai a loro di fare qualcosa che non puoi fare tu stesso. Proteggere esseri umani è un privilegio, non l’ho mai considerato un lavoro o un sacrificio. E non ho mai accettato il triestino “no se pol”, ero conosciuto per rendere possibile l’impossibile. Come italiano non è stato facile, anzi. Difetti? Beh, dopo tutto sono un essere umano...».
twitter@boria_a



Bob Ravalico con la seconda moglie, Ruth, con cui è sposato da trent'anni

lunedì 25 maggio 2015

MODA & MODI

Lodovica Fusco, è "moodwood" a Trieste


Legno, carta vetrata, impregnante, punzonatrice, lucidatrice, trapano da falegname. Nessuno ci crederebbe che quest’attrezzatura non è servita a rifare il parquet di casa, ma a creare accessori dai materiali robusti e l’anima aerea. Lodovica Fusco, la giovane designer triestina che firma la linea COLLANEvrosi, ha trovato il suo “woodmood”.

Legno di betulla, ottone e rame per il collare "Woodmood" (foto di Nika Furlani)

Si chiama così la piccola collezione, per ora di prototipi, nata intorno ai concetti di sostenibilità, bioenergia, rinnovabilità, antisismicità, con al centro del progetto la materia che racchiude tutte queste caratteristiche, antica e contemporanea insieme: il legno.


Anche Swarovski nel braccialetto della collezione "Woodmood" di Lodovica Fusco (f. Nika Furlani)
Difficile immaginare una collana, un bracciale, un anello, un “tirapugni” di legno che non siano pesanti e ingombranti, che possano essere indossati con un pizzico di ironia e non soltanto guardati con la curiosità che si riserva ai pezzi di puro design.
Eppure, questi bio-gioielli sono leggeri e malleabili, si adattano a polsi e dita allo stesso modo in cui una bio-casa assorbe scosse e urti.
Perchè Lodovica ha utilizzato il legno proprio come un materiale da costruzione per il corpo. Ha scelto l’avio di betulla e l’ha lavorato con la tecnica dei liutai. L’ha tagliato, pulito, limato con la carta vetrata, ha modellato i pezzi con acqua e calore, trattandolo infine con impregnante e vernice semi-lucida da barche per dargli una sfumatura miele. Collane, collari, anelli e braccialetti prendono forma da un altro assemblaggio che richiama le tecniche dell’architettura: i dischi di betulla, piegati in due, si alternano infatti a inserti di ottone e rame, tutti mobili, e sono fissati con chiusure a vite.
La sfumatura miele del  legno è ottenuta con  vernice semi-lucida per barche
Su alcuni pezzi, una spruzzata di Swarovski colorati “simula” le gocce di resina, incastonate nel legno con un piccolo trapano da falegnameria e fissate con la colla, a prova di colpi: danno luce e richiamano l’idea di una materia viva, che trasuda.

Tutti i pezzi sono scenografici, importanti (insomma, ci vuole un po' di disinvoltura...), ma la sensazione è di calore e indossabilità. (Combiné, piazza Barbacan 4 Trieste; www.collanevrosi.it)

@boria_a

giovedì 21 maggio 2015

IL LIBRO

Monica Sabolo, ovvero dell'obnubilamento amoroso di donna intelligente





Manuale d’amore per donne intelligenti. Un ossimoro? Perchè quando si tratta d’amore, anzi dell’obnubilamento amoroso, la deriva patologica dell’innamorarsi, anche l’intelligenza più brillante viene piegata alle logiche bieche dell’auto-tortura.

In“Tutta questa storia non ha niente a che vedere con me” (Mondadori, pagg. 135, euro 16,00 con un ricco corredo iconografico dell’ossessione di cui si parla), Monica Sabolo, nata a Milano ma trasferitasi in Francia, un lavoro da redattrice a Elle e Grazia lasciato per la scrittura, ce lo spiega con l’ironia di una Bridget d’oltralpe, più sofisticata e affilata, e la minuzia scientifica di un entomologo che colleziona indizi comportamentali del soggetto concupito.
Quali i segni premonitori della catastrofe amorosa, quelli che ci vengono incontro a caratteri cubitali, come le frasi blasfeme sullo scafo del Titanic, presagio, secondo un operaio, di un affondamento già scritto nel destino?


L'autrice Monica Sabolo
Il primo contatto tra MS e XX - piedino in contesto professionale, di per sè ostile a un accoppiamento felice - è un indizio inequivocabile, soprattutto se il maschio in questione tiene la scrivania come un adolescente problematico, porta occhiali da sole in ambienti interni e ha il colorito livido di chi dorme poco e assume sostanze illegali. Il diario che ne segue è una documentata, allegramente disperata, deriva verso la malattia: le cicche di lui recuperate dal portacenere, la conta degli sms, le serie tv viste insieme senza contatti fisici, la contabilità sentimentale in rosso: ufficio 150 ore, tempo insieme fuori 35, momenti di felicità 2, lacrime 4, sesso un’ora e mezza.
MS=XX? Equazione impossibile. E allora la “donna intelligente” si aggrappa ai geni, all’ereditarietà della malattia. Possibile che la storia lampo che l’ha generata, la passione dei genitori bruciata nel tempo di una gravidanza, le abbiano scolpito nel dna l’incapacità di fiutare le fregature amorose?
L’obnubilamento in fase terminale porta con sè uno pneumotorace (nei polmoni risiede la tristezza), gli psicofarmaci, un piede rotto alla notizia del fidanzamento di XX con un’altra, le pagine di foto scattate alla sua “possibile” vespa rossa. E una certezza: in queste reliquie - come nella rosa sintetica strappata dall’ultima moglie del patrigno di MS alla bara del coniuge - c’è l’unica consolazione, le vestigia di una storia che riposa, anche lei, in fondo a una cassa.
@boria_a




giovedì 14 maggio 2015

MODA & MODI

Petra Oblak a Trieste, il mondo di Klimt da indossare





Una delle collane della linea Anime Dipetra: massa acrilica dipinta a mano, corallo nero e argento

Un momento particolare della vita, una mostra come “illuminazione” e fonte di ispirazione, la capacità di lavorare i materiali, di trasformarli e dipingerli fino a creare pezzi unici da indossare.
Petra Oblak è la giovane artista che disegna la linea nata nella sua casa-laboratorio di Sesana. Collane, bracciali, anelli, spille, orecchini e poi pochette di seta dipinta a mano, pelle e feltro, queste ultime confezionate in tandem, con la collaborazione della madre e le “incursioni” pittoriche della stessa Petra.
Da venerdì 15 maggio alle 18, e fino a sabato 23 maggio, la collezione Anime Dipetra di accessori semipreziosi è ospitata dall’orafo Renato Chicco, in via Punta del Forno 5 a Trieste.
Un incontro artistico particolare quello tra la designer slovena e il “maestro artigiano” Chicco che, per questa occasione, ha “rivoluzionato” il suo negozio e l’ha trasformato in spazio espositivo con la collaborazione di Conestabo Artgallery.

Un modo particolare per festeggiare i quarant’anni di attività dell’oreficeria, aprendola all’ospitalità di giovani “colleghi”, e di sottolinearne il ruolo di bottega di formazione, dove si trasmettono tecniche artigianali e si assorbono e mettono in circolo nuove idee ed energie.
Collana in massa acrilica dipinta e argento di "Anime Dipetra"

Le “Anime Dipetra” hanno un profumo e colori inconfondibili, quelli dello “Jugendstil”. Lo racconta lei stessa: «Sono rimasta molto colpita dalla mostra su Gustav Klimt a Venezia nel 2012. Nella sezione dedicata ai gioielli ho visto una spilla che mi ha catturato e mi ha dato l’idea per la mia linea». Le tinte, gli accostamenti, l’oro e il nero, le linee di Klimt si ritrovano in ogni pezzo di Petra, ma la citazione è rarefatta, mai pesante o filologica. Le figure femminili del pittore sono prese a prestito per anelli, spille, orecchini, per le parti decorate delle collane, ma sono sempre “reinterpretate” e proporzionate alle dimensioni dell’oggetto, si riconoscono senza diventare kitsch.



Bracciale di "Anime Dipetra"

Tutto parte da una massa acrilica, che la designer fa asciugare nel forno a microonde, poi leviga e disegna con matite asciutte e colori acrilici. Per gli orecchini ci vogliono circa otto ore, per i collier anche un paio di giorni di lavoro. Gli accessori più importanti hanno inserti d’argento lavorato e di corallo nero, ma ogni dettaglio, dal castone alle chiusure ad anelli o cerniera, è realizzato con grande precisione e mantiene intatta la magia dell’ispirazione pittorica e dei suoi simbolismi. www.animedipetra.com


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lunedì 11 maggio 2015

MODA & MODI I costumi da bagno 2015 volano "high"


High neck dalla Miami fashion week (da www.stylosophy.it)

L'anno scorso il costume aspirava a diventare da sera, con pailettes e pietre dure, trasparenze e catenelle, da mettere sotto la giacca per un aperitivo a bordo mare. Quest'anno rivendica un ruolo "da giorno", ruba il posto a magliette e calzoncini, pende a prestito i capi dell'abbigliamento sportivo. La moda mare, si sa, non ha grandi margini, nè spazio di manovra. E così ogni stagione copre-scopre, allunga, accorcia, tagliuzza, sforbicia, incide, sgonnella esattamente al contrario di quanto fatto l'anno precedente, lanciandoci il solito messaggio subliminale: "Ce l'hai già? Mi dispiace, ti avevamo detto che era superbo, ora invece è datato. Ecco che cosa ti serve sulla spiaggia 2015".
L'ultima frontiera è il beachwear coprente. Si va al mare, ma per vestirsi. E anche il linguaggio degli addetti ai lavori (uno dei più esilaranti di questa fase di passaggio, quando le novità modaiole sono poche e non resta che lavorare di fantasia) si adegua e si rinfresca.
Il cosiddetto costume "intero" è reperto geologico, oggi si mettono "monokini" e "tankini", il pezzo unico che ha fatto "cutting out": ha aperto oblò e fenditure qua e là, ha tagliato una bretella, si è ridotto a striscioline sulla schiena.
Bikini? Macchè. Ci sono trikini e quadranga, ovvero i vecchi cari due pezzi con calzoncini semiadesivi o una moltiplicazione di lacci e bande a segnare i fianchi.
Quest'estate i top sono "high neck", partono dal reggiseno e arrivano fino al collo, oscurando tutto il décolleté, a volte anche con piccole maniche per un surplus di protezione. Oppure sono top "bralette", definizione che ha un che di gastronomico e invece sta per bustino da spiaggia, incavato ma lungo fino all'ombelico. Anche i vecchi "bandeau", i tradizionali reggiseni a fascia che abbiamo più in orecchio, cambiano proporzioni e quasi toccano gli slip, come top urbani. Le sportive hanno familiarità con l'intimo da palestra, bello contenitivo e con la zip davanti, ora trasferito di peso sulla spiaggia, e con le magliette da surfiste con maniche anti-abrasione, anch'esse, ingentilite con fantasie floreali o un po' retrò, reclutate alla causa.



Ma gli slip non sono da meno. Chiamatele panciere, per quanto chic: si allungano oltre l'ombelico, diventano gonnelline e short "reloaded", accessoriati e pieghettati.

High neck e pants con oblò (da www.margherita.net)
Li vedremo al mare? Più probabile nei saldi di fine stagione. Avete mai registrato intorno a voi un monokini a maniche lunghe o un bikini con maglietta? (a meno che non si tratti di soggetto di quattro anni, con efelidi e genitori apprensivi). 

Diamo cinque minuti di sofferenza anche alla beach-aholic più osservante, prima che sgattaioli in una cabina a liberarsi di tutti i pezzi "high". Viva il bikini banale, anzi, normcore: lacci e spalline da far scendere o sciogliere per il bagno di sole e riallacciare per quello in acqua.
@boria_a
(www.cafeweb.it): Slip alti, "panciere" d'autore

sabato 9 maggio 2015

MODA & MODI
 
ITS 2015, quaranta potenti inventori della moda che non c'è...


Adi Lev Dori, anello da naso (Israele)

Il debutto della Finlandia e della Svizzera, che piazzano due giovani designer tra i finalisti fashion. L’orgoglio degli Emirati Arabi, arrivati a un soffio dai migliori con una collezione sporty-chic che non ce l’ha fatta a superare l’ultimo round delle pre-selezioni. Il riscatto del Vecchio Continente, quest’anno rappresentato a Trieste in tutte le latitudini, dalla Lituania all’Ungheria, dal Belgio alla Francia, dall’Irlanda alla Germania, dalla Polonia alla Serbia, dalla Georgia alla Turchia, all’immancabile Gran Bretagna.

Bojana Nikodijevic (Serbia)
 Il riequilibrio, in generale, della rappresentatività, con tigri e dragoni asiatici - Giappone, Cina, Corea del Sud - tenuti a bada dalla rimonta di americani, canadesi, europei, questi ultimi finalmente un po’ in pace con il peso della tradizione e dei grandi nomi del passato, e da una pattuglia di agguerriti israeliani, ispirati nella creazione dei gioielli.

L’Italia sarà presente solo con una sua scuola, la Domus Academy di Milano, dove si è formata la designer serba selezionata nella categoria “accessori”. La giuria lavora come in alcuni talent vocali: “blind view” al posto di blind audition, ovvero esame dei progetti senza nomi di scuole o nazionalità. Originalità, tecnica, doti artistiche di ciascun concorrente fanno la graduatoria.


"Cracked couture" dell'inglese Richard Quinn
Come ogni anno, ITS traccia la sua, personalissima, geografia del talento e disegna una mappa della creatività internazionale, in uno scacchiere del design che a ogni edizione cambia e ridistribuisce i “pesi”, rivoluziona i confini e le traiettorie. Perchè sì, anche la moda ha i suoi pesi, non solo politici ed economici ma in termini di scuole, formazione, giovani risorse che si mettono in luce sulla loro prima passerella e vengono subito intercettate per portare energie, idee, potenzialità nuove, spesso a migliaia di chilometri di distanza.

L’edizione 2015 del concorso triestino di moda, accessori, gioielli e “artworks” ha toccato quest’anno 950 domande di partecipazione da 256 scuole e accademie di fashion design nel mondo.
 I cappelli dell'inglese Leo Carlton

Nei giorni scorsi, le quattro giurie al lavoro nella sede di Eve, l’agenzia che lo organizza da quattordici anni, hanno selezionato i magnifici quaranta giovani finalisti, dieci per ogni categoria, portando così a cinquecento quella che Barbara Franchin, anima della kermesse, chiama la “ITS family”, la famiglia (e soprattutto la rete) di ex finalisti oggi al lavoro negli uffici stile di grandi brand o protagonisti nelle settimane della moda con la loro firma.
 
Uno per tutti: il georgiano Demna Gvasalia, vincitore di “ITS Three” nel 2004, allora ospitata in un magazzino del Portovecchio. Dopo l’apprendistato da Margiela negli anni d’oro, nel 2015 è stato selezionato tra gli otto finalisti del Lvmh Prize, il più ricco premio della moda dedicato a brand emergenti, e ha conquistato la stampa con la sua griffe Vetements, sfilando in un vecchio gay club di Parigi.


Demna tornerà quest’anno a Trieste, nella giuria fashion, accanto a Nicola Formichetti, direttore creativo di Diesel, a Oriole Cullen, curatrice della sezione Contemporary Textile and Fashion del Victoria & Albert Museum di Londra, a Giovanni Pungetti, ceo di Margiela, al designer Diego Dolcini, alla blogger Susie Bubble, e a molti altri tra giornalisti, cacciatori di teste creative, esperti d’arte che andranno a formare le giurie definitive.
 

La geografia dei concorrenti, dunque. «Dall’Argentina allo Zimbabwe, 79 nazioni in gara, di cui, tra i finalisti, ne sono rappresentate 21», sintetizza Barbara Franchin, fresca vincitrice, proprio per la sua creatura ITS, del Premio Barcola 2015, che le verrà consegnato sabato, alle 11, nella sede della Regione in piazza Unità.

«L’Europa quest’anno è molto protagonista - racconta - con il maggior numero di iscrizioni da Germania e Inghilterra.

La donna di Paula Knorr, giovane designer tedesca
Svizzera e Finlandia sono esordienti ma propongono due progetti fortissimi, entrambi da tenere d’occhio. Ci sono sempre i creativi puri della scuola Coconogacco di Tokyo (fondata da due ex ITS) e tre finalisti dalla Central Saint Martins di Londra, in passato un po’ sottotono.
Diciamo che, in genere, dal nostro punto di osservazione, il mondo della moda giovane si è “riequilibrato”.

Qualcosa si sta muovendo anche dall’Africa, fascia Nord e Sudafrica, ma i concorrenti non sono ancora all’altezza di ITS». Piccolo rimpianto: la designer triestina di CollaneVrosi, Lodovica Fusco, ha mancato per un soffio la rosa dei finalisti con una collezione di prototipi in legno, anelli, bracciali e collari, molto apprezzata dai giurati.

Il tema scelto quest’anno a far da filo conduttore e da “contenitore” al concorso è “The future”. Lo vedremo sviluppato l’11 luglio, all’ex Pescheria, nella serata conclusiva di ITS, quando sfileranno le collezioni dei dieci finalisti e della vincitrice 2014, l’inglese Katherine Roberts-Wood. In mostra si potranno vedere gli accessori, i gioielli e gli artworks, quest’ultima categoria aggiuntasi l’anno scorso e sostenuta da Swatch, che richiede ai concorrenti un progetto speciale a forte tasso creativo. Centomila euro il monte premi in palio, offerto dai consueti sponsor Otb (la holding di Renzo Rosso), Ykk, Swarovski, Samsung Galaxy, cui si affiancano le istituzioni territoriali Regione, Comune, Acegas-Aps, Fondazione CrT.
 
Temi e trend di Its 2015? Franchin parla di «una generazione di potenti inventori», che pensa e disegna abiti e complementi d’abbigliamento ancora non entrati nel nostro guardaroba, eppure sa anche ritornare all’arte delle lavorazioni manuali, abbandona la tridimensionalità per sferruzzare, cucire, ricamare, dipingere a mano. Vestiti, scarpe e borse nascono da uno strano connubio tra materiali vecchi e nuovi, legno antico e pvc, vetro, silicone e spugna, trattati insieme come a creare un ponte fra passato e futuro.


 È un vestiario immaginario, fatto di accessori che hanno forme studiate per il luogo dove devono essere collocati (come le borse geometriche da incastrare al tavolo, a spessore variabile, dell’austriaca Isabel Helf), o sperimentano incroci temerari di materiali (ancora borse, in pelle e vetro, assemblate dalla turca Nadide Begüm Yildirim), un armadio fantastico di copricapi semoventi (Leo Carlton, che arriva dall’Inghilterra dei cappellai matti per eccellenza), anelli che si illuminano con elementi elettronici (della bulgara Iskren Lozanov), occhiali-maschera con lenti sollevate da ingranaggi (di Viktorija Agne, lituana).
 
I gioielli si allungano in territori inesplorati del corpo, diventano anelli da naso (Adi Lev Dori, Israele), da bocca, ornamenti da spalla, collane artistiche che perimetrano il corpo, lo definiscono e gli assicurano uno spazio vitale, di decompressione dagli altri (la cinese In Wai Kwok).


Perchè lo spazio e la nostra relazione con quanto e chi ci circonda, è il filo conduttore di tutti i progetti. Prendiamo gli abiti, canovacci su cui scrivere storie di forte individualità. Sono teatrali (l’alta moda dell’inglese Richard Quinn, poetica e decadente), colorati, spesso frutto di lavorazioni e materie sperimentali, inventate. È come se questi vestiti parlassero: maschere e corazze che distinguono e proteggono chi c’è dentro, lo rendono inconfondibile e, per questo, unico ma anche solo.
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La giapponese Yuko Koike si ispira a colori e tecniche del kimono

lunedì 4 maggio 2015

L'INTERVISTA
 
Pierre Stonborough: "Mia nonna Margaret, la sposa di Klimt"



Margaret Stonborough Wittgenstein da giovane, prima del 1914

Due dei suoi abiti, confezionati a Parigi nell’atelier delle sorelle Callot intorno al 1925, sono esposti al Museo della moda di Gorizia. Margaret Stonborough Wittgenstein, sorella minore del filosofo Ludwig, uno dei più grandi pensatori del XX secolo, e del pianista Paul, fu una delle regine della mondanità europea e americana della prima metà del Novecento. Nata nel 1882 in una delle più ricche famiglie dell’impero austroungarico, settima dei nove figli di Karl, industriale dell’acciaio, Margaret, bella e intelligente, cercò di emanciparsi dalla fortissima personalità paterna attraverso il matrimonio con l’americano Jérome Stonborough.
 
Il padre, mecenate di artisti, commissionò il suo ritratto nuziale a Gustav Klimt, che la dipinse come una bellezza bruna e altera, avvolta nell’abito bianco scollato. Margaret peregrinò a fianco del marito tra Parigi e New York, dedicandosi a un’effervescente vita di società, ma anche al mecenatismo in favore di artisti, architetti, intellettuali. Dopo la fine del matrimonio con Jérome, che si suicidò nella loro villa di Gmunden, Margaret si fece costruire un’altra residenza, che fu progettata dal fratello filosofo Ludwig e da Paul Engelmann, allievo di Adolf Loos. Fu amica e paziente di Freud, che aiutò a scappare a Londra, dopo l’instaurazione del regime nazista a Vienna. Dovette lasciare lei stessa l’Austria, non prima di aver aiutato molti ebrei.

 
A raccontarci questa figura di “musa, intellettuale e mecenate nella Vienna della prima metà del Novecento”, e un po’ della esuberante vita mondana che testimoniano gli abiti nella collezione del museo goriziano, sarà un nipote di Margaret, Pierre Stonborough, ospite, il 5 maggio alle 18, insieme alla moglie Françoise, nella sala dei Musei provinciali di Borgo Castello, dove converserà con la sovrintendente Raffaella Sgubin. Ecco qualche anticipazione del suo racconto.



Margaret Wittgenstein ritratta da Gustav Klimt in abito da sposa nel 1905
Sua nonna era brillante, talentuosa, affascinante: lei come se la ricorda?
«Beh, non sono esattamente gli aggettivi che userebbe un adolescente per descrivere sua nonna. Lei sapeva così tanto, e io così poco. Parlava perfettamente tedesco, francese, inglese, e probabilmente anche un po’ d’italiano, anche se non l’ho mai sentita. La forza della sua personalità e della sua erudizione erano davvero in grado di sopraffarti e se non fosse stato per il grande amore e affezione che mi dimostrava, mi avrebbe fatto paura, come a molti dei miei cugini che la conoscevano meno. Naturalmente era elegante, severa ma gentile, e sicuramente, durante la seconda guerra mondiale, io sono stato per lei una sorta di “surrogato” dei suoi due figli, mio padre e mio zio, che sono stati al fronte più o meno per cinque anni».
È vero che l’ha accompagnata nelle maison di moda parigine?
Una volta sola... da Paquin, una casa di moda prestigiosa prima e subito dopo la guerra. Penso che fosse il 1947. Avevo quattordici anni ed ero terribilmente imbarazzato e timido in mezzo a tutte quelle belle donne. Che spreco! Quando ho raggiunto l’età per apprezzare, Paquin era scomparso e mia nonna non andava più a Parigi».

 
Ha qualche aneddoto da raccontarci su di lei?
«Nel 1920 fu invitata da Herbert Hoover, più tardi il presidente Hoover, a fare un giro negli Stati Uniti per patrocinare la causa dei bambini austriaci, perchè all’epoca c’era una tremenda scarsità di cibo. Lei accettò e parlò in molte città, in comuni, nelle piazze, nelle chiese. Quando arrivò a Boston, una diocesi molto cattolica, andò a incontrare il cardinale, credo si chiamasse Cushing. Mi ha raccontato che quando gli chiese se poteva parlare dal pulpito della cattedrale, lui si limitò a sorridere e disse: “Signora Stonborough, la sua innocenza la salva”. Nessuna donna aveva mai parlato dal pulpito e il cardinale non intendeva rompere la tradizione.

 
Una certa faccia tosta.
«E anche un grande senso dell’umorismo. Mi chiedeva sempre nuove barzellette quando, in anni successivi, andai via di casa per studiare. Naturalmente, come tutti i viennesi della sua generazione, conosceva e raccontava molte barzellette sugli ebrei, anche se lei era una cattolica romana. Era una fan sfegatata delle strisce del New Yorker e quando non le capiva, perchè facevano riferimento a qualcosa di locale o erano pure spiritosaggini americane, mi chiedeva di spiegargliele».

 
Klimt ha ritratto sua nonna in abito da sposa regalandole una sorta di immortalità. Che cosa si diceva nella sua famiglia di questo capolavoro?
«Quando mia nonna era viva Klimt non godeva della venerazione di cui è circondato oggi. Nei primi anni dopo la guerra, teneva il suo ritratto a Gmunden, dietro il sofà, un po’ fuori posto. Girava anche una storia, falsa, che non le piaceva la sua bocca e che l’aveva cambiata. Io lo vidi solo una volta prima che, anni dopo, fosse esposto nella prima grande mostra su Vienna al Centre Pompidou a Parigi. All’epoca, mio padre aveva già venduto il ritratto alla Neue Pinakothek a Monaco.

 
C’è un altro legame tra sua nonna e Gorizia: chiamò l’architetto di origine goriziana Rudolf Penco a restaurare la sua villa a Gmunden...
«Proprio così e Ursula Prokop, la biografa di mia nonna, aveva già scritto una biografia di Penco prima di scrivere quella su di lei. Penso che Penco fosse ancora molto giovane quando mia nonna lo assunse per lavorare a Villa Toscana a Gmunden. Sospetto che l’impianto fosse suo e che lui lo abbia semplicemente eseguito. Anni dopo lui fece una serie di disegni del duomo di Santo Stefano a Vienna che dedicò ai miei nonni. Li abbiamo ancora».

 
Lei è nipote di due immense personalità del XIX secolo. Ha qualche ricordo speciale di Ludwig e di Paul?



 Ludwig Wittgenstein
«Non ho ricordi del mio prozio Ludwig, anche se è probabile che io l’abbia guardato dalla mia culla. Si dice che fosse molto affezionato a mia madre, una donna americana. Invece ho conosciuto abbastanza bene il mio prozio Paul. Fu molto gentile con mia madre e con me a New York. Dopo l’università, ho persino avuto un ufficio nello stesso edificio a Manhattan dove lui riceveva i suoi studenti e dava lezioni. Credo che per lui sia stato più difficile adattarsi all’America di quanto non lo fosse per mia nonna. Era molto rigido con i suoi figli e forse anche con se stesso. Ma perdere il braccio destro in battaglia e continuare in seguito a fare il pianista significa avere un carattere molto speciale». 
 Pierre Stonborough (Wittgenstein Initiative)
Nascere in una famiglia come la sua è un grande privilegio. Lei ha sentito la responsabilità, diciamo anche il “peso” di questi legami?
«Se nasci col nome ma senza il talento, è meglio che tu ringrazi per la fortuna che hai avuto e vai per la tua strada. Tuttavia, quando, per motivi di lavoro, mi sono trasferito a Vienna circa vent’anni fa, ho avuto la sensazione che una parte di me fosse tornata a casa. Da allora ho fatto quanto era in mio potere per onorare le generazioni che hanno giocato un ruolo così importante nella storia intellettuale, industriale e culturale dell’Austria e non solo».


 Conserva ancora qualche pezzo del guardaroba di sua nonna?
«Mia moglie e i miei figli hanno ereditato alcune delle sue cose, ma l’unico pezzo di vestiario che io conservo ancora è una vestaglia di seta ricamata. Non so che provenienza abbia ma l’ho portata con me per farla esaminare agli esperti del Museo di Gorizia. Potrebbe essere turca, o forse cinese... un mistero molto orientale». 
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Il pianista Paul Wittgenstein perse un braccio durante la I guerra mondiale