mercoledì 30 settembre 2015

IL LIBRO

Inseparabili tra Trieste e Lipsia, un'amicizia in lettere lunga 43 anni oltre la Cortina di ferro



Una storia già pronta per diventare sceneggiatura. E un’amicizia che ha attraversato la Storia, dalla Germania a Trieste. Hanno Speich e Manfred Haller sono due ragazzi nel dicembre del 1943, quando una bomba cade tra le loro case, a Lipsia, apre un cratere di sei metri e devasta le loro vite. Tre anni dopo, la famiglia Speich, papà tedesco, mamma Hedy, triestina di genitori viennesi, tre figli di cui il quattordicenne Hanno è il più grande, lascia rocambolescamente la città tedesca e arriva a Trieste.

 
Si scriveranno per quarantatrè anni, Hanno e Manfred, prima che la caduta del Muro consenta loro di telefonarsi e infine riabbracciarsi. Un carteggio lunghissimo che oggi è diventato un libro, “Inseparabili. Storia di un’amicizia oltre il muro” (Nuovadimensione, pagg. 336, euro 18,00).




La bomba caduta fra le case di Hanno e Manfred il 4 dicembrre 1943 lascia un cratere profondo sei metri. Sul fondo la casa di Manfred. La persona fotografata è Karl Heinz, fratello maggiore di Manfred

Trieste, all’epoca sotto il governo militare alleato, è la città della nuova vita della famiglia Speich. Trieste dove Hanno comincia faticosamente a studiare al liceo Oberdan, con poche parole d’italiano e nessuna in latino, dove suo padre sarà ricoverato a San Giovanni e subirà un trattamento terribile, dove, allo Yacht club Adriaco, imparerà a conoscere il mare e la vela. Trieste la città della laurea in Ingegneria e del grande amore, Fiora (con lui in una foto dell’estate 1956). Una storia che, lettera dopo lettera, racconta all’amico Manfred, rimasto a Lipsia a difendere dal regime comunista la fabbrica di famiglia, fondata nel 1897. 
Abbiamo chiesto ad Hanno Speich, dirigente in pensione di una multinazionale tedesca con sede a Milano, di ripercorrerla insieme a noi.
Tutto comincia... «Il 4 dicembre 1943 Lipsia fu bombardata a tappeto dagli inglesi. Venti minuti tremendi, mille morti, centocinquantamila persone senza più un tetto. Una bomba cadde tra le nostre case, la mia e quella di Manfred, avremmo potuto morire tutti. Quando la guerra finì, mio padre tornò subito a casa. Proveniva da un campo di prigionia americano in Cecoslovacchia, che chiuse due mesi dopo. Riprese il suo lavoro di prima, il commercialista, non era una persona che poteva destare sospetti: in Normandia, dopo lo sbarco alleato, guidava un’ambulanza della Croce rossa che portava i feriti negli ospedali da campo...».

 
Eppure qualcosa successe...«Fra i suoi clienti c’era un cementificio a partecipazione olandese. Mio padre fece il bilancio e lo mandò a tutti gli azionisti, ma questa spedizione fuori dalla Germania lo mise in difficoltà. I servizi segreti sovietici lo sospettarono di spionaggio economico. Sparì per settimane, mia madre non riusciva a sapere niente della sua sorte nè dalla polizia tedesca nè dal comandante russo della città di Lipsia, perchè i servizi operavano in completa autonomia. Quando riapparve era una persona diversa. L’avevano trattenuto nel carcere di Grimma e interrogato con metodi pesanti. Aveva il terrore di tutto e decise che saremmo fuggiti dalla Germania. Era il maggio 1948».



Uno degli ultimi incontri nella casa di Manfred con gli amici nel maggio 1948. Il primo a sinistra è Manfred e l'ultimo a destra è Hanno, solo pochi giorni dopo profugo e esule.
Ricorda quella fuga? «In ogni minimo dettaglio. Compimmo diversi tragitti in treno ma attraversavamo sempre i confini tra gli Stati a piedi, per i boschi. In Austria ci ricongiungemmo finalmente ai nonni materni. Erano viennesi ma risiedevano a Trieste fin dal 1920, prima come austriaci, poi anche con la cittadinanza italiana. Nonno Josci aveva una fiorente attività di import-export tra l’Austria e il porto di Trieste. Andavano ogni anno in vacanza a Bad Gastein, che era una località rinomata, ma a noi ci sistemarono in una pensioncina sul lago di Ossia, dove non facevano domande sui documenti».
E finalmente avete mangiato... «Dopo i brodi di patate della Germania, in Austria il corpo chiedeva incessantemente “volume” di cibo. Mangiavamo e mangiavamo, ma ci alzavamo da tavola ancora con fame. Dopo lo spostamento in un’altra pensione, in Carinzia, il nonno, nel frattempo rientrato a Trieste, trovò un amico per farci attraversare il confine vicino a Tarvisio. Quest’uomo era nervosissimo, finì che ci perdemmo e mia mamma si mise a gridare nei boschi col rischio di farci scoprire. Alla fine riuscimmo a prendere la corriera che da Tarvisio ci portò a Monfalcone. Questa era la parte più difficile del viaggio, perchè non avevamo i documenti per il Territorio libero di Trieste».

 
Come siete entrati in città? «Il passaggio via terra era escluso. Il nonno però era socio del club Adriaco, dove aveva una barca e andava a giocare a bridge ogni pomeriggio. Era molto stimato in quell’ambiente. Così due soci, Giorgio e Laura Hauser, proprietari di una fabbrica di sapone, accettarono di portarci clandestinamente a Trieste sulla loro barca da regata di 12 metri, il “Liebling”, costruita a Pola. Appena saliti ci “travestirono” da marinai e ci nascosero sottocoperta. Fuori dal canale di Monfalcone fummo anche inseguiti da una motovedetta della Guardia di finanza italiana, che ci intimò l’alt ma poi fortunatamente restò in panne per una sciroccata. Arrivammo nel porticciolo di Sistiana e ci fermammo a mangiare al ristorante Castelreggio. Spaghetti che si scioglievano sulla lingua, ma dovevo concentrarmi su come girare la forchetta».



Hanno con nonno Josci, nel 1939, attraversano il golfo davanti al Porto vecchio di Trieste
Che ricordo ha del primo contatto con Trieste? «Era uscita la bora e Hauser mi ha dato il timone. Ho cominciato a sentire il gioco tra le raffiche e la barca che avanzava, come un cavaliere sente il cavallo attraverso le redini. C’era il sole che illuminava questa splendida città, mi sono emozionato. I nonni ci aspettavano all’Adriaco, abbiamo fatto festa. A Trieste prima ci siamo sistemati in una pensione vicino alla chiesa di Sant’Antonio Nuovo, poi in un appartamentino in via dei Capuano, con vista sulla scala degli Armeni. Era malconcio, mi ricordo che quando abbiamo cominciato a riscaldare sono uscite dappertutto le cimici. Il nonno ci aveva aiutato, ma ora i commerci internazionali cominciavano a normalizzarsi e certi suoi affari perdevano consistenza. Dovevamo fare economia su tutto».
 
E la scuola? «Mamma e io andammo a parlare col preside del liceo scientifico Oberdan, Lazzarini. Lesse con attenzione la mia pagella del Karl Marx Gymanasium e poi commentò: “Ma senza latino come si fa?”. Mi disse che ci voleva un anno di lezioni di italiano e latino, per poi sostenere l’esame in tutte le materie e iscrivermi a scuola nel settembre 1949, al secondo anno. Fu Lazzarini a indicarmi il professore che mi avrebbe seguito, si chiamava Tagliapietra, un suo amico già in pensione. Tutti i giorni, sabati e domeniche compresi, andavo a casa sua in via Tor San Lorenzo. Avevo una paura tremenda dell’esame. Però già quando eravamo in Austria mia mamma ci aveva comprato una grammatica, lei aveva una grande sensibilità per l’italiano e ci trasferì il suo entusiamo. Scoprii che questa lingua con tante vocali a poco a poco mi entrava. Passai l’esame e mi iscrissi al liceo».

 
Com’è riuscito a farsi degli amici? «Il nonno mi iscrisse al corso allievi all’Adriaco. Lì era ben conosciuto e io non ero certo un “profugo”. Presi il suo cognome, Péntek, che in ungherese vuol dire venerdì, e Hanno si trasformò in Giovanni, com’è riportato sul mio diploma di maturità. All’Adriaco diventai amico di Sciarelli, una personalità straordinaria, che poi è venuto anche al mio matrimonio. Quando capirono che mi ero appassionato mi affidarono una jole olimpica, si chiamava “Axum”».

 
La sua futura moglie invece... «Un compagno di classe mi aveva parlato di Fiora, ma lei aveva altri pretendenti. Fu secca: “Non telefonarmi più”, poi se ne andò due anni negli Stati Uniti. Dieci anni dopo il nostro incontro, quando lavoravo a Milano, le telefonai e lei accettò di uscire. Mi presentai in via Tiepolo a Trieste con un’Alfa coupè bianca col clacson bitonale. Quando suonai si aprirono tutte le finestre, devono aver pensato che ero un bel maleducato. Ci siamo sposati dopo pochi mesi e siamo insieme da 53 anni».



 Hanno Speich e Fiora Cuppo nell'estate 1956 sulla barca sociale "Carlo Strena" dell'Adriaco
 
Suo padre a Trieste ebbe un’esperienza terribile... «Non riuscì mai a superare lo scoglio della lingua. Eravamo in città da anni e ancora utilizzava la grammatica che avevamo comprato in Austria. Un mio professore di inglese, Bocciai, che aveva capito che ce la passavamo male, gli trovò un posto alla “Rinaldi Vini”, un’azienda vinicola vicino all’Adriaco. Partì con entusiasmo, ma non andò bene, in Germania i grossisti di vino avevano già i loro fornitori abituali. Mio padre cadde in una depressione gravissima, fu ricoverato a San Giovanni e curato con l’elettroshock. Dopo il primo trattamento andai a trovarlo, lui mi afferrò il braccio e mi disse: «Hanno, portami via di qui». L’esperienza lo segnò per sempre, diceva che gli avevano bruciato il cervello, che gli si era ristretto il vocabolario. Tornò alla “Rinaldi Vini”, ma ormai era considerato “matto”, una persona da evitare. È morto suicida, a Pforzheim, vicino alla Foresta Nera, dove anni dopo era rientrata tutta la famiglia fuorchè io, che stavo per laurearmi a Trieste. Per me fu terribile, mia madre, invece, fu fortissima. Alle soglie dei 50 anni, rispolverando il diploma al Tartini, trovò lavoro in un negozio di musica classica».
Hanno e Fiora  con le figlie Sabrina e Marina davanti al Castello di Miramare nell'aprile 1970

Com’è stato rivedere il suo amico Manfred? «Noi tedeschi siamo romantici. Ci siamo scritti per 43 anni, ma io ci ho messo tanto tempo prima di decidermi ad andare a trovarlo. Prima ci siamo telefonati, perchè appena riunificata la Germania, la Deutsche Telecom ha esteso la rete dei cellulari a Est. Poi, la prima volta, mi sono fermato a Berlino. “Chissà se avremo qualcosa da dirci”, mi chiedevo. E invece è stato come se ci fossimo lasciati il giorno prima». 
@boria_a



Hanno e Fiora oggi fotografati allo Yacht club Adriaco da Massimo Silvano per Il Piccolo

lunedì 28 settembre 2015

MODA & MODI

Per gli uomini la misura non conta 

 

Pinocchietti: rispettano il dress code delle istituzioni?



Gli addetti alla portineria del consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia, magari involontariamente, hanno stabilito un assioma: i pinocchietti non costituiscono un pantalone “decoroso”. I fatti sono noti, risalgono a qualche giorno fa e riguardano il corretto dress code nelle sedi istituzionali.

Si presenta in piazza Oberdan a Trieste l’ennesimo visitatore in bermuda e viene messo cordialmente alla porta. In suo soccorso, però, si precipita Bruno Marini, consigliere regionale di atavico corso, che attende l’ospite, e, risolta la faccenda con gli uscieri, lo introduce personalmente nelle sale. Quale la motivazione del politico che ha fatto capitolare i portinai? I pantaloni in questione sarebbero stati più che “decenti” e adeguati all’ammissione nel pensatoio regionale perchè erano sì bermuda, ma “coprivano il ginocchio”.

Il nostro paladino del guardaroba politically correct - che, a memoria d’uomo, per sè medesimo non si è mai avventurato oltre monastiche braghe lunghe blu e grigie, nascoste d’inverno sotto un loden, d’estate abbinate a imperdonabili camicie con le maniche corte - si è armato metaforicamente di un metro e ha stabilito: se la rotula maschile non si vede, le porte del palazzo si aprono.

 
È comprensibile: i custodi delle chiavi si sono rimessi alla volontà dell’amministratore che, sotto sua personale responsabilità e con spregio del ridicolo, ha interpretato su due piedi il cerimoniale vestimentario del consiglio. Ma è un gran peccato che abbiano rinunciato a difendere la loro epidermica e felicissima intuizione: il decoro nei calzoni maschili non è affatto questione di centimetri. Anzi, è l’esatto contrario. Non funziona come in chiesa per le signore, che, ragioni di rispetto e pudicizia invitano a celare le ginocchia agli sguardi.

Se il bermuda si allunga è diventato un pinocchietto, ovvero quel pantalone incompiuto, irrisolto, lievemente scampanato o stretto da elastici come tiranti, che si ferma scientificamente a metà polpaccio, lasciando scoperta una porzione di gamba irsuta (o depilata alla ciclista) prima del carroarmato da ginnastica con fantasmino, nei più temerari del sandalo. Un bragone informe da cui escono zampette da gallina o polpaccioni da mediano di spinta, quasi mai caviglie flautate.
 

È pensabile mettere alla porta del consiglio regionale un ospite in giacca e bermuda sopra il ginocchio - secondo l’interpretazione del completo maschile sulle passerelle nelle ultime tre stagioni - e ammetterne un altro insalsicciato nel respingente pinocchietto? Viva gli uscieri: la misura (ma non sono sempre gli uomini a dirlo???) in questo caso  proprio non conta.
twitter@boria_a


giovedì 24 settembre 2015



 IL LIBRO

Claudia Serrano, Mai più così vicina


 
Giunti pubblica l'esordio letterario della barese Claudia Serrano


Lui, Vittorio, l'editore brillante e colto, bello e playboy di default, la chiama la "cosa". Non una storia, non un rapporto, nemmeno un sostantivo ondivago e incolore come relazione. Quella con Antonia è la "cosa".  E se le parole definiscono le "cose", assegnano loro un contorno, un'identità, un posto nel mondo, quella "cosa" ,che gli esce dalla bocca sempre preceduta dai puntini di sospensione, da un'esitazione, una riluttanza anche solo verbale, e'  una cosa inevitabilmente monca, sbilanciata, singhiozzante.

Si intitola Mai più così vicina l'esordio letterario di Claudia Serrano, giovane barese laureata in Filologia romanza e di professione libraia, di cui Giunti ha appena pubblicato la prima opera (pagg. 224, euro 12,00). La trama e' leggera, una storia d'amore a senso unico tra l'uomo fascinoso e socialite e la giovane che dal meridione sbarca a Milano per scrivere il suo romanzo e finisce per sentirsi un'estranea nella città che ti toglie la sedia da dietro se hai la tentazione di accasciarti, dove, tra happening e apericena, si impara a sorridere più di quanto si è contenti. Antonia è quella che mette i tacchi anche per fare la spesa, che resta ai bordi delle conversazioni salottiere, che ai convegni porta i vestiti più eleganti, ma mai dell'eleganza giusta, casualmente ricercata e ricercatamente casuale,  per essere una di "loro", degli "altri".

L'epilogo lo conosciamo fin dalle prime righe, che raccontano di un'Antonia sveglia nel letto a contare e ricontare i trentanove nei sulla schiena di Vittorio, senza toccarlo, senza nemmeno sfiorargli la pelle, perchè quel contatto trascinerebbe con sè domande, richieste, la perimetrazione della "cosa". E le sue parole risuonano nelle orecchie: "Comincia a renderti felice da sola. Credere alla felicità che possono darti gli altri è una follia".

 
Claudia Serrano, barese (ph. courtesy Giunti)


Quel che colpisce non è l'intreccio, ma la desolazione, la lucida disperazione di cui è impastata ogni riga, il dolore lancinante, come un morso contro un dente sensibile, con cui l'autrice registra lo srotolarsi inesorabile dei fatti verso la loro fine naturale. "Non fargli sentire il peso delle tue aspettative. Non disturbare, ma ricordagli che ci sei. Ricordagli che ci sei, ma senza disturbare. Sii leggera e sii sostanziale. Muoviti come un ospite nella sua vita, nelle vite degli altri si entra in punta di piedi. Bussa al suo cuore, ma fallo lievemente e a lunghi intervalli". Più lei accetta di stravolgere vita e progetti per far posto al sentimento, più lui ne è spaventato, spiazzato, infastidito, e si ritrae nella roccaforte delle abitudini.

Anche Silvia, la ragazzina down protagonista del romanzo che Antonia sta scrivendo, "Il mandorlo perfetto", scopre quanto farsi invadere dall'amore renda fiduciosi di sè e ostinati davanti a qualsiasi sfida, fino a quella più disperata: farsi carico delle assenze, delle mancanze, delle insufficienze, pensare che sia possibile amare per entrambi, supplire l'altro. Ma Vittorio segna i confini, senza remissione: "Quello non è amore, Antonia, è una continua aspettativa sulla testa di chi è oggetto di quel sentimento. Donarsi totalmente può essere romantico, commovente, senz'altro. Ma impoverisce sia chi prova quel sentimento sia chi ne è oggetto...Io so cosa penso io: per me non è auspicabile essere amati così. Ed è disonesto amare così ".

Il viaggio dentro la "cosa" chiamata amore dura dieci giorni, gli stessi che servono per fare il dolce di Padre Pio, una specie di catena gastronomica che Antonia riceve in dono perchè si prenda cura di qualcosa e intanto impari a "ricomporre" il dolore in rassegnazione. Che si tratti di autobiografia è quasi una certezza, ce lo suggeriscono i versi del poeta friulano Pierluigi Cappello, scelti come introduzione: "scrivere come sai dimenticare, scrivere e dimenticare".
Finale consolatorio, ed è l'unica pecca. Davanti all'impasto informe che cresce in forno, le due protagoniste, Antonia e Silvia, guardano la normalità che continua, quasi fosse una magia.


twitter@boria_a

mercoledì 23 settembre 2015

IL LIBRO

All'inferno non c'è glamour. Parola di Lucy Sykes e Jo Piazza

Il libro di Lucy Sykes e Jo Piazza edito da Piemme


Da una parte la caporedattrice fascinosa e di bella scrittura, sacerdotessa della carta patinata e stampata, col problema di essere un tirannosauro del web. Dall’altra la sua giovane assistente, carrierista e super-social, che twitta, whatsappa, posta ventiquattro ore al giorno ed è capace di aggiornare lo stato sui social anche prima di pronunciare il fatidico “sì”.
La prima, Imogen Tate, direttrice del magazine di moda “Glossy”, al suo ritorno dopo un anno di assenza dalla rivista (lei lo chiama “sabbatico”, in realtà ha dovuto affrontare un cancro al seno) scopre che la seconda, l’adrenalinica Eve, non solo ha piantato la suola rossa delle false Louboutin sulla sua scrivania ma intende mandare al macero la carta per trasformare il magazine in un sito in aggiornamento frenetico e incessante, dove si mostra e si vende di tutto. Uno store virtuale che rigetta ogni scritto “lungo” più di centoquaranta caratteri, il cui unico obiettivo è sfondare il muro di “condivisioni” social. Banditi i contenuti, i servizi scritti o fotografici che richiedano una pausa di riflessione, la parola d’ordine è “glitter, glam, glossy”! e al suo ritmo marcia un esercito di redattrici taglia 38, che dorme in redazione e pilucca tofu e quinoa, prima di schiantarsi ed essere sostituito da altre cavallette stakanoviste, pronte a immolarsi su Instagram e Facebook.
Chi lavora nei giornali di questi tempi sa bene che la storia di “All’inferno non c’è glamour” (Piemme, euro 18,50, pagg. 400) non è per niente lontana dalla realtà. Digital e print l’un contro l’altra armate, non importa se tra fashioniste si va alla guerra con gli stiletto. A raccontarcelo sono due esperte della materia, Lucy Sykes, ex fashion director di Marie Claire e Jo Piazza, managing editor di Yahoo Travel e collaboratrice di Wall Street Journal, New York Magazine, Glamour e Slate.
Non sveliamo la trama per non rovinare il divertimento a chi ama le diavolesse che si mettono fuori gioco a borsettate Chanel ed Hermès.

L’interrogativo che questo lieve divertissement pone, però, è tutt’altro che futile. Può il web sostituire la carta stampata? Può la generazione digitale rottamare le non native? Ci seppellirà un emoticon? Le autrici, celebrando la “sorellanza” generazionale (con una lieve propensione - ci è sembrato di intuire - per le redattrici della vecchia guardia...), puntano sull’integrazione di ambiti e abilità: sito in movimento, rivista per fermarsi a pensare. «Per le nostre lettrici niente può sostituire l’esperienza della carta stampata. È sbagliato cercare di duplicarla su Internet. Produrremo due versioni, entrambe ugualmente importanti e autonome», dice la giovane Aerin Chung, amministratrice delegata di Shoppit, la piattaforma di e-commerce che ingloberà il sito di Glossy. Ma a capo di tutto ci sarà Imogen, la dinosaura (nel frattempo alfabetizzata digitale...), capace di garantire classe sia ai "contributi" che bucheranno lo schermo sia a quelli che "balzeranno" dalle pagine del magazine.
Perchè in fondo, a noi dinosaure nella rete, piace pensare che dentro ogni app-girl si nasconda una bambina che ha scoperto di amare i vestiti prima sfogliando una rivista, poi cliccando una photogallery.

lunedì 14 settembre 2015

 MODA & MODI

Il gusto di farsi prendere per il collo

 
David Bowie è Ziggy Stardust

 Prese al laccio. Sottile, lunghissimo, a metà tra la cravatta e la sciarpa, è l’accessorio più facile e adattabile ripescato dagli anni Settanta. Segna inequivocabilmente il decennio che per la moda è un’inesauribile miniera di ripescaggi, ma lo fa con discrezione e un certo spirito sbarazzino. Insomma, la stringa da annodare e avvolgere intorno al collo, non è insidiosa come la zampa di elefante e ci riconcilia col citazionismo flower power delle ultime passerelle. Fa venire in mente una giovane Marianne Faithfull, fresca e radiosa, con la sciarpina e il cappello a falda larga, accanto a un altrettanto acerbo Mick Jagger, o David Bowie che si trasforma in Ziggy Stardust.
 
Marianne Faithfull e Mick Jagger


Non c’è niente di nuovo, da anni ormai i designer sperimentano collane e collari “a cravatta” (anche in materiali non convenzionali, in gomma o legno, come CollaNevrosi della triestina Lodovica Fusco) ma basta che Prada o Saint Laurent, Chloe o Marc Jacobs, li consacrino in passerella, e un paio di influencer se li mettano prontamente al collo su Instagram, che il lazo di stoffa diventa virale. C’è voluto un po’ di tempo perché la tendenza venisse metabolizzata e dalla passerella arrivasse alla strada, ma quando le sciarpe cominciano a comparire nei magazzini delle grandi catene, da Zara a H&M, il gioco è fatto, il nuovo accessorio è pronto per il guardaroba di tutte.
Il segreto sta nel nodo. Romantica? Il foulard si allaccia da una parte, con un piccolo fiocco, lasciando dondolare i due lati sul petto e sulla schiena, lunghi fin oltre le ginocchia, con un effetto “boho” come quello delle camicie in auge quest’anno per lei e per lui, senza colletto e chiuse dal fiocco. Più aggressiva? Un giro intorno al collo e poi si imita nodo della cravatta all’altezza del seno, meglio se con un gilet o pantaloni lunghi e un po’ scampanati, perfetto mood Seventies. Gran sera? Il foulard avvolge il collo e poi scivola sulla schiena, per non nascondere la scollatura o le decorazioni di un vestito importante. Dandy chic? La sciarpa diventa una cravatta plastron, fermata dalla spilla e da portare con una giacca corta e avvitata su pantaloni ampi.


Sciarpina-cravatta secondo Chloè (Getty Images)

Per essere una striscia di stoffa, nera o colorata che sia, le trasformazioni sono molte. L’unica controindicazione sta nelle proporzioni: la sciarpina è stretta ma lunghissima. E nella vita di tutti i giorni farsi prendere per il collo può essere fastidioso.
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sabato 5 settembre 2015

L'INTERVISTA


Azza Filali: "Alla mia Tunisia hanno rubato i sogni"


Esce "Ouatann ombre sul mare" (Fazi) primo libro del medico-scrittrice tradotto in italiano



"Ouatann. Ombre sul mare" è il primo libro di Azza Filali tradotto in italiano da Maurizio Ferrara (Fazi editore)

Le storie di cinque personaggi ci restituiscono la Tunisia dei giorni nostri, un paese dove un’intera generazione vive senza sogni e la corruzione e il malaffare sono diventati metastasi in ogni ambiente. La villa sul mare in un villaggio poverissimo vicino a Biserta, è il crocevia di questi destini: l’avvocatessa divorziata Michkat, inquieta e tagliente, il piccolo funzionario Rached, pronto a barattere un incarico e una famiglia incolori per soldi, l’ingegnere Naceur, che porta sulla coscienza i morti legati ai suoi traffici e anela a una rigenerazione morale, il violento Monsour e Faiza, giovane appassionata e sfuggente come un’apparizione. Tutti cercano un futuro, una prospettiva, forse un amore, in una terra dove le differenze sociali, la mancanza di lavoro, le connivenze sinistre tra politica, istituzioni, autorità, hanno cancellato l’idea di comunità nazionale.

Che senso ha, allora, il sacrificio di chi è morto per la libertà? Con un registro lieve, poetico, a tratti ironico, Azza Filali racconta la Tunisia di oggi in un noir che avviluppa il lettore e gli mostra le trasformazioni, le piaghe, il disorientamento di un paese sgranati nell’animo dei personaggi.
Ouatann. Ombre sul mare (Fazi, pagg. 320, euro 17,50) è il primo libro di Azza Filali tradotto in italiano e sarà presentato, in anteprima nazionale, il 18 settembre a Pordenonelegge (Vendramini, ore 15) in un colloquio tra l’autrice e la giornalista Camilla Baresani. Tunisina, medico di professione e scrittrice per vocazione, un master in Filosofia all’Università Paris-1, Filali è una delle voci più intense del Maghreb, donna di lettere e di scienza, già pluripremiata autrice di saggi, racconti e sei romanzi. Ecco che cosa ci ha anticipato.
Azza Filali, medico e scrittrice (courtesy Fazi editore)
Che cosa vuol dire “Ouatann”?
«Questa parola comprende in sè molti significati. Il più comune è “patria”, ma si estende anche a “casa” e, per me, anche all’interiorità delle persone, quello spazio profondo che c’è tra qualcuno e se stesso, una parte del suo animo. È un termine davvero complesso, molto ricco di significati, essenzialmente irrazionali».
Corruzione, diffidenza verso le istituzioni pubbliche, differenze sociali, povertà: sono queste le “ombre” sul mare?
«Proprio così. Le difficoltà sociali nel mio paese sono comuni fin dalla fine del periodo del presidente Bourguiba. Con il presidente Ben Ali è proseguita la disparità tra la regione a est, lungo il mar Mediterraneo, che aveva una relativa prosperità, e la regione a ovest, vicino al confine con l’Algeria, dove il livello di povertà era critico. È accaduto così che la reale situazione delle regioni più interne sia stata “scoperta” dai tunisini dopo la rivoluzione. In realtà le ombre sul mare esistono da decenni. Ma erano nascoste e i turisti che arrivavano in Tunisia venivano accolti con “slogan” del tipo: “sorridete, siete in Tunisia, la Svizzera del Nord Africa”».
Nel libro lei descrive la perdita del senso di appartenenza a una comunità nazionale come una delle patologie della società tunisina.
«Dopo la rivoluzione del 2011, i tunisini hanno scoperto di appartenere a una nazione autonoma. Questo sentimento è andato gradualmente scemando quando le richieste sociali non sono state soddisfatte dai governi successivi. Oggi, la società tunisina è un patchwork di identità. Negli strati sociali più svantaggiati, il senso di appartenenza alla nazione tunisina è molto debole, perchè la gente ha priorità elementari: un lavoro, una casa dove vivere, o semplicemente trovare il modo di sfamare la famiglia. Questo spiega in parte la massiccia immigrazione illegale verso l’Italia di giovani più preoccupati del loro futuro che del futuro della nazione. Ma il fenomeno non riguarda solo i tunisini. Sono convinta che il senso di appartenenza alla comunità nazionale sia diminuito da noi come altrove nel mondo. La crescita dell’individualismo, l’importanza attribuita ai problemi personali, sono tutti fattori che hanno contribuito a questo smarrimento».
La corruzione è il problema principale in Tunisia?
«Come in altri paesi. La differenza è che, dalla rivoluzione in poi, le sacche di corruzione sono state rese pubbliche, mentre le autorità precedenti le occultavano».


Aza Filali
Michkat, la protagonista di “Ouatann”, alla fine decide di rimanere. Perchè?
«Questo personaggio è una metafora del paese. E il messaggio essenziale che trasmette è la sua appartenenza alla Tunisia, anche se non ha una vita semplice per la sua condizione di donna libera e autonoma».
Per tutte le donne del suo libro il sesso non è mai gratificante, a volte brutale. Lei è un medico, oltre che una scrittrice: qual è la sua esperienza?
«Quello della sessualità femminile in Tunisia è un problema complicato. I progressi di cui oggi godono le donne, libertà nella scelta del marito, libertà di decisione, libertà di decidere se avere un figlio o no, hanno modificato l’atteggiamento nei confronti del proprio corpo. Tuttavia anche questa generazione di donne soffre di scarsa informazione sui temi sessuali, perchè le madri appartengono invece a quella precedente e per loro questi argomenti non erano oggetto di discussione fra madri e figlie».
Nel libro lei cita Lampedusa e il Canada, dove si è trasferito il fratello di Michkat. Ma si ha la sensazione che emigrare non sia nemmeno un sogno, semplicemente un ripiego...
«Non è così. Quello dell’emigrazione è un fenomeno che tocca i giovani, che non trovano condizioni sociali di vita accettabili in Tunisia. È considerata l’unica soluzione, malgrado tutti i pericoli cui si espongono. Ma è anche un sogno: andare in un altro posto, conoscere altri modi di vivere, cambiare atmosfera. Per tanti giovani uomini tunisini, che non hanno mai lasciato la loro piccola città, è l’unico modo per tagliare i ponti con un modo di vivere che considerano una prigione».
Eppure nel suo libro proprio uno di questi giovani uomini, Abderrazak, dice “Non voglio che mio figlio diventi italiano”...
«Sono convinta che se molti giovani tunisini trovassero condizioni sociali e professionali per avere una vita dignitosa in Tunisia, non si sentirebbero così attratti dall’idea di scappare. Il personaggio di Abderrazak incarna questo atteggiamento e queste aspettative: rifiuta che suo figlio cresca in Italia e va a riprenderselo».


Azza Filali ospite di Pordenonelegge 2015 (courtesy Fazi editore)
Pensa che dietro gli attacchi terroristici al museo del Bardo e sulla spiaggia di Susa ci sia solo fanatismo religioso?
«Gli attacchi portano la firma di gente che appartiene a gruppi islamici estremisti, ma sono convinta che le motivazioni siano complesse. La più evidente, e semplice, è “odio per gli stranieri che non sono musulmani”. Ma ce n’è un’altra importante: distruggere la stagione turistica in Tunisia e contribuire al disastro economico che ora affonda il paese. Penso che i terroristi fossero il braccio armato di altri gruppi mossi da intrinseche ragioni economiche».
Secondo lei perchè ragazzi e ragazze, magari con una vita apparentemente normale in paesi stranieri, accettano di immolarsi per la causa del Califfato?
«Questi giovani vivono una condizione psicologica particolare: come tutti i loro coetanei, sono entusiasti, hanno bisogno di dare un significato alla loro vita e di essere parte di un movimento. Spesso, però, non trovano un substrato: le loro condizioni di vita sono povere e vuote di grandi significati. Sono suggestionabili ed è facile convincerli a entrare in un gruppo islamico estremista. L’assassino di Susa, per esempio, era uno studente che amava la break dance. Quando suo fratello morì e, proprio nello stesso periodo, il responsabile della regione decise di chiudere il posto dove lui insegnava break dance, si è trovato in una situazione di vuoto e depressione che certo ha contribuito a spingerlo a seguire lezione islamiche e a aderire a un gruppo estremista».


Seifeddine Rezgui, l'attentatore di Susa (www.ilpost.it)
Cosa deve fare l’Europa sulla tragedia dei migranti?
«Non è una questione facile. La prima difficoltà sta nel fatto che non tutti i paesi europei hanno lo stesso atteggiamento politico sulla questione. Secondo: la posizione geografica è diversa. In Italia il problema dell’immigrazione illegale è urgente per la sua frequenza e le sue dimensioni. Ma non ha le stesse caratteristiche in paesi come la Germania o perfino la Francia. Le posizioni non omogenee sono l’ostacolo maggiore».
Il personaggio più affascinante del suo libro è Naceur, l’ingegnere corrotto. Anche a lei sembra piacere molto...
«La vita non è un’autostrada dritta e il valore del destino individuale spesso sta nei cambiamenti che influiscono sugli eventi e sulla psicologia. Quello che dà significato alla storia di un individuo sono “les chemins de traverse”, come le chiamiamo in Francia, le strade impervie, che portano una persona lontano da dove era abituata a stare e le permettono di diventare molto diversa da quella che era prima. Accade a Naceur: la sua strada è frammentata, ecco perchè è così importante nella costruzione della storia».
Lei racconta i problemi gravi del suo paese e della sua gente con un registro poetico, talora ironico...
«L’ironia mi viene spontanea. Tendo sempre ad attenuare il dramma di ogni singola vita. Dietro ogni “serio” evento della vita c’è sempre un dettaglio che distrugge l’eccesso di gravità e apre la strada al sorriso».
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martedì 1 settembre 2015

LA STAGIONE

La Contrada a Trieste spariglia le carte: apre Cancun e Miramar finisce in coda

  Il nuovo cartellone della Contrada comincia rovesciando una certezza: il primo spettacolo della stagione non sarà in triestino. “Ritorno a Miramar”, di e con l’irriverente comico Alessandro Fullin affiancato dalla beniamina di casa, Ariella Reggio, sarà lo spettacolo di congedo, in aprile 2016. Una novità, che però cade in un anniversario speciale e gli regala una sfumatura affettiva: proprio in aprile, infatti, quarant’anni fa, la Contrada nasceva.
Il dialetto in coda alla programmazione è solo uno dei tanti cambiamenti di quest’anno, come hanno raccontato nella presentazione di ieri la presidente Livia Amabilino, affiancata dal direttore organizzativo Diego Matuchina e da Matteo Oleotto. Quest’ultimo, il papà del cinematografico Zoran, firma con la Contrada la sua prima stagione da direttore artistico e pure la sua prima regia teatrale, “Vipere”, dal testo del friulano Carlo Tolazzi.
Si rinsalda, inoltre, una collaborazione storica, quella col Dramma italiano di Fiume che, insieme alla Contrada e con una compagnia di attori mista, darà vita a “Zoran e il cane di porcellana”, versione teatrale del film pluripremiato di Oleotto. Non sarà lui, però, a curare la regia («Zoran me lo sono sognato per un sacco di tempo - ha ammesso - alla fine non facevo altro. Sarò un felicissimo spettatore...»), ma Andrea Collavino, ieri ospite al teatro Bobbio insieme a un’emozionata Leonora Surian, da un anno direttrice del Dramma italiano di Fiume, che, tra le prime iniziative, ha voluto appunto riallacciare i rapporti con i colleghi triestini e coinvolgerli nel progetto del “nipote scemo” in versione prosa, una sorta di prequel della pellicola.
Quanto a scambi e intrecci, insomma, la nuova stagione non si fa mancare niente. Ma la reciprocità più “piccante” ha per protagonista la stessa Reggio che, prima di tornare a calcare il “suo” palcoscenico di via del Ghirlandaio, sarà in scena, («un po’ vestita e un po’ no», ha ridacchiato) al teatro Rossetti, nel cast di Calendar girl con Angela Finocchiaro e Laura Curino, storia di signore agée («vecie, insomma») che si producono in uno spogliarello domestico per beneficenza.


Ariella Reggio protagonista di "Ritorno a Miramar" di Alessandro Fullin (courtesy La Contrada)

Per par condicio, la Contrada ospita per la prima volta gli Oblivion, di solito di casa al Politeama, con il nuovo spettacolo “The human jukebox” (dal 19 febbraio), poi in partenza per il Sistina di Roma. «Chiediamo al pubblico di inserire in un’urna il nome del cantante preferito - hanno spiegato ieri il triestino Davide Calabrese e Fabio Vagnarelli degli Oblivion, in un fulminante corto circuito di battute - noi lo prendiamo e lo distruggiamo. Ogni sera lo show sarà diverso e ugualmente inutile. Proprio inutile, ve lo diciamo subito, noi non vendiamo fumo, ancora...».


Gli Oblivion porteranno al teatro Bobbio "The human jukebox" (ph. courtesy La Contrada)

Dodici spettacoli in cartellone, quattro produzioni firmate dalla Contrada, la conferma dei circuiti “Danza” e “Comici”, entrambi con tre titoli, cui si aggiunge il nuovo “Family Show” per grandi e piccini, con il musical del Principe Ranocchio, il live show “Masha e Orso” e, in marzo, la poesia del corpo interpretata dagli svizzeri Mummenshanz. «Una stagione di cui siamo orgogliosi: ricca, valida, piena di novità», ha detto Amabilino, ringraziando il pubblico per la solidarietà e l’attaccamento al teatro, e le istituzioni pubbliche, Regione in testa, per aver integrato il buco lasciato dal taglio del Fus, che ha minacciato la stessa esistenza in vita della Contrada. «L’anno scorso abbiamo aumentato gli abbonati del 7 per cento. Speriamo di fare ancora meglio...».
Su il sipario il 23 ottobre, con la prima produzione, “Cancun” del catalano Jordi Galceràn, che vedrà Mariangela D’Abbraccio e Blas Roca Rey in una storia, dai tratti comici e surreali, sulle relazioni e i desideri inconfessabili dell’amore coniugale. Dal 6 novembre “Zoran e il cane di porcellana”, scritto da Aram Kian e diretto da Collavino, seguito, dal 4 dicembre, da “Vipere”, nell’interpretazione di Gualtiero Giorgini, Roberta Colacino e Massimiliano Borghesi.
Ambientato nelle Alpi Carniche e basato su lettere autentiche dei soldati, il testo - commissionato dalla Contrada - racconta, strappando anche qualche risata, l’ottusità e l’assurdità della guerra in una chiave originale e universale. Un soldato punto da una vipera ha davanti a sè una demenziale alternativa: morirà prima per il veleno o per una condanna militare?
«Amo molto camminare in montagna - ha esordito l’autore, Tolazzi - la scorsa domenica l’ho fatto per cinque ore in mezzo all’erba, alle pietre e sotto il sole, proprio l’ambiente adatto alle vipere. Camminavo con le mani in tasca, ma chi va in montagna non cammina con le mani in tasca... La verità è che facevo il più antico gesto apotropaico del mondo. Sono molto in ansia per questo spettacolo», ha scherzato ancora. «Mi ero ripromesso di non toccare il tema della guerra, di cui si è già parlato molto, ma ho trovato lo spunto delle lettere irresistibile. È la mia prima regia, potete immaginare l’emozione», gli ha fatto eco Oleotto che, per uno dei singolari intrecci di cui sopra, ha affidato le scene ad Anton Špacapan, già nella squadra del film Zoran e da cui ha “mutuato” sia il cognome che il modo di parlare del ragazzo.
Nomi di richiamo, attori e registi, per gli spettacoli ospiti, che aprono il 20 novembre con un grande classico, “Sarto per signora” di Feydeau, regia di Valerio Binasco e protagonista Emilio Solfrizzi. Dall’8 gennaio sarà la volta dei “Tradimenti” di Harold Pinter nell’interpretazione di Ambra Angiolini e Francesco Scianna diretti da Michele Placido. Ancora un attore televisivo molto amato, Francesco Pannofino, reciterà accanto ad Emanuela Rossi, dal 29 gennaio, ne “I suoceri albanesi” per la regia di Gianni Clementi, cui seguirà, dal 4 marzo, “L’amico del cuore”, scritto e diretto da Vincenzo Salemme, nell’interpretazione di Biagio Izzo.



Emilio Solfrizzi in "Sarto per signora" di Feydeau (ph. courtesy  La Contrada)




Emanuela Rossi e Francesco Pannofino ne "I suoceri albanesi" (ph. courtesy La Contrada)

 Dal 18 marzo sarà in scena uno spettacolo su cui Amabilino e Matuchina hanno richiamato l’attenzione, “Il mondo non mi deve nulla” di Massimo Carlotto, con Pamela Villoresi e Claudio Casadio, che vede tra i co-produttori il Css-Teatro stabile d’innovazione di Udine, «altra eccellenza regionale». Per concludere, dall’1 aprile, la compagnia Attori & Tecnici, specialista in Agatha Christie, torna in scena con “Assassinio sul Nilo” e, dall’8 aprile, spazio alla commedia “Ieri è un altro giorno!” con Gianluca Ramazzotti, Antonio Cornacchione e Milena Miconi, prima della chiusura triestinissima del “Ritorno a Miramar”, cui Fullin minaccia di aggiungere altre trovate.
Parterre de rois alla presentazione, aperta dai saluti del sindaco Cosolini e dall’assessore regionale Torrenti, chiamati sulla scena a ricevere i ringraziamenti per il sostegno alla Contrada nel delicato momento della riforma. «Spero che la stagione vada bene per tutti i teatri triestini, perchè ce lo meritiamo», ha sintetizzato Ariella Reggio. «È un anno in cui succedono strane cose...».
twitter@boria_a