lunedì 26 ottobre 2015

 MODA & MODI

Quest'ombrello è una borsa, non ci piove 


La materia prima del brand Laploe: ombrelli rotti e abbandonati (ph. da www.laploe.it)


 Il marchio trae in inganno. “Laploe”: vien da chiedersi quale oscura parola straniera nascondano i caratteri grafici stilizzati, con la “o” che sembra un ombrellino da gelato al quale è stato portato via un pezzo. Ecco l’indizio, l’ombrello acciaccato. E anche “Laploe”, basta spostare l’accento, non è la solita solfa esterofila, ma nient’altro che la ploe, pioggia in friulano. A dispetto degli inveterati sospetti di campanile, l’idea di Elisa Barile, designer udinese, e Mike Donadelli, ricercatore universitario veneziano, ex compagni di studio, pare fatta apposta per Trieste. Dopo una giornata di bora e pioggia, lo spettacolo urbano è noto a tutti: scheletri e brandelli di ombrelli infilzati tra le immondizie, relitti della sfida persa contro l’alleanza di vento e acqua. Chi vive da queste parti mette in preventivo di distruggerne una consistente quantità o di andare in giro sotto strane, futuribili incastellature coi ferri storti e scuciti.
Proprio questi relitti sono la materia prima di Elisa e Mike: lui, che viaggia per lavoro dal nord al sud d’Europa, si occupa dell’approvvigionamento della materia prima, lei dello smontaggio e del riassemblaggio. È nata così “Laploe”, una linea di borse, zaini, custodie per iPad realizzata con la tela degli ombrelli rotti. “From a ditched umbrella to a bag”, da un ombrello gettato via a una borsa, e qui sì che l’inglese è utile perchè “Laploe” possa varcare i confini nazionali e andare alla conquista del mercato estero, prima tappa l’Inghilterra.



Operazione numero uno: levare le parti metalliche dell'ombrello rotto (ph. www.laploe.it)

E pensare che nelle loro biografie virtuali i due dicono di amare tanto il mare. Invece, complice un sms scambiato dopo molto tempo, Mike, reduce da un intero mese di pioggia tra la Germania e Venezia, si è ritrovato a sognare l’ombrello indistruttibile, mentre Elisa a pensare cosa fare di quelli distrutti. Ecco allora l’idea, caduta dal cielo. Gli ombrelli rotti vengono smontati, lavati, igienizzati e assemblati con pellami di qualità, anch’essi di recupero: Elisa disegna, cuciono sarte tra il Friuli e il Veneto. Persino l’etichetta è “eco-friendly”, si chiama Laguna e utilizza le alghe veneziane: qui c’è scritto dove e quando l’ombrello è stato sottratto alla strada o riscattato dalle immondizie. “Laploe” ha poi un servizio personalizzato. Basta inviare via mail una foto dell’ombrello che si vuole riconvertire, seguire le istruzioni per smontare la tela dai supporti e aspettare a casa il nuovo accessorio, magari personalizzato con il proprio nome o quello del destinatario del regalo.
L’unico problema per il giovane brand potrebbe essere la siccità e quindi la mancanza di materia prima. Ma nei piani c’è già una app per allargare il business, anche a dispetto del meteo. www.laploe.it

 info@laploe.it

Lo zaino firmato Laploe (ph. wwwlaploe.it)

giovedì 22 ottobre 2015

 IL LIBRO

Nancy Mitford, "Non dirlo ad Alfred"



 
"Non dirlo ad Alfred" di Nancy Mitford (Adelphi)



 Fanny de “L’amore in un clima freddo” non smette di osservare i suoi pari con grazia e umorismo, con penna sorvegliata ma, qua e là, inaspettata e temibile come la lingua di un rettile. Così, chi ha amato le macchinazioni leggiadre, i pettegolezzi e i colpi bassi che animavano i salotti della grande aristocrazia inglese dagli inizi a metà del ’900 - raccontati da Nancy Mitford, la maggiore delle sei figlie di Lord Redesdale, che in quel mondo dorato era nata e cresciuta - vorrà scoprire che cosa accade a Fanny all’ambasciata inglese a Parigi, dove il giovane professore di teologia pastorale con cui ha fatto il colpo di testa di sposarsi, viene inopinatamente catapultato come ambasciatore.
Dai cattedrattici di Oxford (dove era sbrigativamente archiviata nella categoria “mogli”) ai trabocchetti della diplomazia, per la protagonista il salto non sarà facile, a cominciare dall’iniziale, forzata convivenza con l’ex inquilina dell’ambasciata, Lady Leone, che si rifiuta di lasciare il palazzo e continua a ricevere amici e postulanti in attesa di un’uscita di scena degna di una principessa. E con i grattacapi che le dà la giovane segretaria, che civetta e cincischia con tutti i politici parrucconi e gli annoiati sciupafemmine che le capitano sottomano.
In questo “Non dirlo ad Alfred” (pubblicato nel 1949 e ora tradotto da Silvia Pareschi per Adelphi: pagg. 244, euro 18,00), dove Alfred non è altro che lo spaesato neo-ambasciatore, perennemente impegnato in controversie da tavolino con i francesi per qualche isola contesa, Nancy Mitford, alla vigilia degli anni ’50 e di un giro di volta epocale nel secolo, non raggiunge la vetta del libro precedente, dovendo incrociare il territorio che conosce bene, quello dell’arrogante upper class britannica, con l’alba della contestazione giovanile, i primi miti rocchettari e la nascente new age, di cui la investono i quattro figli: Baz avventuratosi in un’improbabile agenzia turistica, David in partenza per l’Oriente con moglie e figlio cinese adottato dal suo maestro zen, e i due più piccoli, Charlie e Fabrice, che scappano da Eton a bordo di una Rolls-Royce.

La nuova era che si affaccia, dove le signorine di sangue blu hanno l’avventatezza di innamorarsi di borghesi cacciatori di dote e anche i nobili sono sfiorati dalla tentazione del lavoro, viene registrata con caustica e umoristica sorpresa da Nancy Mitford, a volte con un velo di malinconia. Il suo mondo fatto di superlativi sta per soccombere al loro peso.
twitter@boria_a

lunedì 19 ottobre 2015

 LA STAGIONE LIRICA

Don Giovanni a Trieste gioca a sedurre il pubblico con #dongiovanniproject


"Don Giovanni" di Mozart per la regia di Allex Aguilera debutta il 30 ottobre 2015 al Teatro Verdi di Trieste

  Tra eros, seduzione e gioco, il “Don Giovanni” di Mozart debutta a Trieste uscendo dagli spazi dedicati alla lirica. Ballerini, fotografi, artisti, attori saranno protagonisti di una serie di eventi itineranti che farà da “assaggio” alla prima dell’opera, il 30 ottobre al teatro Verdi, in quella che è anche la prima stagione firmata dal nuovo sovrintendente, Stefano Pace. Raccolti sotto il cappello dell’hashtag #dongiovanniproject, con cui il seduttore seriale vuol diventare virale su Facebook, Instagram e Twitter, gli appuntamenti di avvicinamento alla prémiere, pensati per un pubblico trasversale per età e interessi, vanno alla ricerca della modernità di Don Giovanni e della forza, attualità e versatilità del suo personaggio nel nostro immaginario.
Via, dunque, alla maratona il 22 ottobre, quando la tradizionale prolusione, alle 18 al Ridotto del Verdi di Trieste, si svecchia e diventa lezione-spettacolo, affidata al maestro concertatore Gianluigi Gelmetti e al regista Allex Aguilera, al suo esordio in Italia, affiancati dal direttore del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia Franco Però e dall’attrice della sua compagnia, Lara Komar. La discussione, moderata dallo stesso sovrintendente Pace, toccherà gli aspetti più controversi del personaggio e le sfide di un’interpretazione che da sempre affascina registi e direttori d’orchestra.
Dress code elegante, naturalmente rosso e nero, per la serata di venerdì 23 ottobre, quando il Verdi cambierà pelle per aprirsi a tutti i tangueri triestini che, dalle 21 alle 2 di mattina, daranno vita a una Gran Milonga organizzata in collaborazione con il Circolo del tango argentino di Trieste. Alle 23.30 il momento clou della nottata, con la ronda di sette coppie di maestri in rappresentanza delle tante scuole triestine: Ubaldo Sincovich e Silvia Galetti, Franco Giombetti e Arianna Starace, Guillermo Berzins e Chiara Angelica, Fabrizio Dodici e Irene Laurenti, Mauro Damiani ed Ester Orlando, Andrea Joschi e Alexandra Lioubova, Pablo Furioso e Federica Moretto interpreteranno, tra i rossi pompeiani degli arredi e sotto i riflettori del teatro, il gioco della seduzione che è l’anima del tango.
Sarà la notte dell’eros quella di sabato 24 ottobre, grazie alla Casa dell’arte (e al sostegno della Fondazione Foreman Casali) che mette in rete otto dei suoi spazi espositivi per ospitare la terza maratona notturna dedicata alla fotografia italiana e internazionale.
Eros e seduzione è il tema del percorso, preceduto, dalle 18.30 alle 20 nel foyer del “Verdi”, da una preview delle immagini in mostra in un intervento di videomapping di Cecilia Donaggio del Gruppo 78, che proietterà su tre elementi del teatro una selezione di “scatti”, con brindisi finale. In ciascuno spazio espositivo ai visitatori verrà consegnato un coupon: chi ne raccoglierà otto riceverà una riduzione del 10% sul biglietto del Don Giovanni (non nella prima serata), sempre che rientri tra i primi dieci visitatori che in quella galleria avranno completato il percorso.
La maratona di fotografia, dalle 20 alle 24, abbraccia la DoubleRoom di via Canova 9, dove la giovane fotografa Nika Furlani presenta il progetto “Rouge” realizzato nell’ex peep-show e oggi Museo erotico Racka di Celje, protagonista il ballerino Gogi Kusic che interpreta l'ambiguità del terzo sesso in pose tra fashion e ritratot. In mostra in questa galleria anche il sadomaso "Escape" di Roberto Peccianti
.

"Rouge" della fotografa Nika Furlani, protagonista Goci Kusic


Il percorso prosegue con l’ironia dell’instagrammer Spherecode al MetroKubo (via dei Capitelli 6563b), con l’eros del primo ’900 nella selezione di immagini dal Museo e dagli Archivi Fratelli Alinari di Firenze allo Studio Tommaseo in via del Monte (via del Monte 2/1) e i classici proposti dalla Scuola del Vedere di via Rittmeyer 18 (primo piano), che presenta il celebre “Female torso with veil” di Herb Ritts accanto a immagini di Enzo Gomba, André Kertész, Tomaž Lunder, Fabio Rinaldi, Jock Sturges.
La caccia alla foto tocca poi Bra11 (via Bramante 11), dove sono esposti gli autoritratti di Patrizia Miliani, che condivide con il pubblico l’esperienza del suo corpo dopo un incidente; EContemporary (via Crispi 28) con le figure femminili nelle stanze d’albergo di “Motel story” di Maurizio Melozzi; LeoLab (via dei Leo 6/a), dove trova spazio il piacere degli occhi e delle papille gustative nel trionfo zuccheroso di “Gnam” del giovane Davide Maria Palusa e infine da LiberArti di piazza Barbacan, con le installazioni fotografiche di Annette Godard e María Sánchez Puyade. Per condividere sui social oltre a #dongiovanniproject è attivo l’hashtag #fotonottetrieste.


 
"Motel story" di Maurizio Melozzi



 
Spherecode, Étude sur l'érotisme



Le tappe di avvicinamento si concludono il 28 ottobre, alle 18, al Cinema Ariston, dove verrà proiettato il film “Juan” (2009), mai distribuito in Italia e liberamente ispirato all’opera di Mozart. Il film, in prima visione regionale, ha un’ambientazione contemporanea e urbana ed è firmato da una figura eclettica e innovativa del teatro europeo, Kasper Holten, che è regista d’opera, scrittore, manager teatrale, e oggi direttore artistico della Royal Opera Company per la Royal Opera House di Londra.
Anche chi andrà all’Ariston o parteciperà alla notte tanguera riceverà un coupon con lo sconto del 10% sul biglietto. Così “Don Giovanni”, passato l’inespugnabile rito della “prima”, cerca di sedurre un nuovo pubblico.

giovedì 15 ottobre 2015

 LA MOSTRA

Fiore de Henriquez, ritorna a Trieste la scultrice intersessuale


Ritratto di Fiore de Henriquez firmato nel 1954 da Felix Fonteyn (Archivio F. de Henriquez Peralta, courtesy DoubleRoom arti visive Trieste)

 TRIESTE Nell’unica sua opera rifiutata, “Brother and sister”, la sola tornata indietro delle oltre quattromila che realizzò su commissione, ci sono tutte le sue ossessioni. Un maschio molto femminile e una donna molto maschile: due fratelli, il tema del doppio, dell’ambiguità di genere. Chi l’aveva ordinata non si riconobbe in quelle figure così sessualmente poco definite, quasi in transizione tra loro. Così il gesso dipinto rimase all’artista, la scultrice Fiore de Henriquez, e sarà visibile dal 16 ottobre (l’inaugurazione è alle 18.30) alla DoubleRoom arti visive di via Canova 9 a Trieste, dove fino al 29 gennaio è allestita la mostra “In love with clay”, innamorata della creta. È l’omaggio - il primo fotografico-biografico - curato da Massimo Premuda e Dinah Voisin alla sorella di Diego de Henriquez, scultrice di fama internazionale, a undici anni dalla morte avvenuta a Peralta, in provincia di Lucca, nel 2004, quando aveva 84 anni ed era malata da tempo di Alzheimer.
 
Fiore de Henriquez con il fratello Diego a Trieste negli anni '20 (Archivio Fiore de Henriquez Peralta, courtesy DoubleRoom arti visive)


Se quella di Diego, collezionista di cimeli militari al quale è dedicato il Civico museo di guerra per la pace, è una vita esplorata e ben conosciuta a Trieste, pochi giorni fa tornata sotto i riflettori grazie all’ultimo libro di Claudio Magris, quella di Fiore, la sorella di dodici anni più giovane, altrettanto eccentrica e straordinaria, in patria non ha avuto lo stesso riscontro. Strano destino, a dispetto di una fama di scultrice presto ottenuta nel jet set internazionale angloamericano e di una biografia per certi versi molto più interessante e affascinante di quella dell’amato fratello.
Il gesso “Brother and sister” ci mette sulla strada giusta: è la sintesi delle inquietudini dell’artista, del tormento di una natura doppia e insieme unica, che varca la frontiera delle identità.
Fiore era intersessuale. Nacque a Trieste nel 1921, femmina, e da bambina vestita come tale. Nell’adolescenza, però, il suo corpo cominciò a trasformarsi e sviluppò organi genitali maschili. Donna e uomo al tempo stesso, a cavallo tra i ruoli tradizionali di genere, sessi distinti in un’unica persona. Lei, pur giovanissima, non fu sconvolta dalla mutazione, anzi, abbracciò la sua ambiguità come un dono eccezionale e si dichiarò “orgogliosa di essere ermafrodita” e di contenere “due persone in un corpo solo”.


Fiore de Henriquez ritratta da Felix Fonteyn (Archivio F. de Henriquez Peralta, courtesy DoubleRoom arti visive)

 Studiò all’Accademia di Belle arti di Venezia con Arturo Martini, poi scultura in legno a Cortina e scultura in pietra a Firenze con Antonio Berti, di cui diventò assistente. L’intersessualità fu una componente importante della sua scelta artistica: in un mondo dominato dai maschi demiurghi, Fiore si impose per l’energia maschile dello scolpire unita a una sensibilità interpretativa femminile. Un unicum all’epoca scandaloso.
Una cinquantina di fotografie originali, divise in quattro sezioni, provenienti dall’Archivio Fiore de Henriquez di Peralta, di cui è responsabile l’amica inglese Dinah Voisin, e due opere, “Brother and sister”, appunto, e “The hands”, rifusione del 2001 del ritratto delle proprie mani eseguito dalla scultrice nel 1975, “restituiscono” Fiore alla sua Trieste, dove è sepolta nella tomba de Henriquez al cimitero militare.
La prima sezione è proprio dedicata agli anni triestini, con immagini che presentano la residenza della famiglia, “Casa Castagna” in via San Nicolò 2, e poi Fiore nel 1952 accanto a un’amica e a Diego su un treno, con nave da guerra come sfondo, nel campo che il fratello aveva affittato sul colle di San Vito per i suoi pezzi, e ancora, nel 1952, l’artista davanti al liceo Carducci, all’epoca Istituto magistrale governativo. In questo spazio ci sono anche le testimonianze del carteggio con l’amica pittrice Maria Lupieri (messe a disposizione dalla nipote Fulvia), con cui si tenne sempre in contatto. Nell’agenda di Maria c’è l’indirizzo londinese di Fiore e anche nel quaderno dove annotava le persone cui inviare i pieghevoli delle sue mostre, accanto ai recapiti di Leonor Fini a Parigi e di Aurelia Gruber Benco. Nel 1947 Fiore espose le sue opere per la prima volta, sia a Trieste che a Firenze, ma in città se ne parlò poco. Da lì l’oblio, da cui l’ha riscattata finora solo il giornalista e scrittore Roberto Curci nel suo libro “La bora in testa” (2005), celandola sotto lo pseudonimo di Fiore de Torres e raccontando il disvelamento della sua doppia natura sessuale davanti a una modella.


Fiore de Henriquez al lavoro (foto Felix Fonteyn, Archivio F. de Henriquez Peralta, courtesy DoubleRoom arti visive)

 La scultrice lasciò l’Italia nel 1949 per Londra, dopo aver vinto la commissione per un monumento a Salerno e aver visto la sua opera distrutta dai misogini, ma continuò a frequentare Pietrasanta per le fusioni e Carrara per il marmo. Nel 1966 si innamorò di Peralta, borghetto vicino a Camaiore, ne acquistò le poche case e le restaurò personalmente pietra su pietra, trasformandolo in una colonia per artisti di tutto il mondo, che vive tuttora.
Il busto eseguito per il pittore inglese Augustus John fu un impulso decisivo alla sua carriera. Subito ottenne un riconoscimento dalla Royal Academy, per la quale creerà nel 1951 tre figure monumentali destinate al Festival of Britain. Lo studio londinese di Cadogan Square, che Fiore tenne per quarant’anni, divenne meta di celebrità e personalità di sangue blu, prima fra tutti la Regina Madre, di cui realizzò due busti destinati a una nave e a un ospedale. Già nel 1957, a pochi anni dal suo arrivo a Londra, cento personalità dell’arte e della politica inglesi firmarono una richiesta perchè a Fiore fosse concessa la cittadinanza britannica per meriti artistici.


 
Fiore de Henriquez con la Regina Madre d'Inghilterra e il suo ritratto nello studio londinese in Cadogan Square nel 1988 (Archivio Fiore de Henriquez Peralta, courtesy DoubleRoom arti visive Trieste)




Da allora piovono le commissioni da tutto il mondo. Modella le sembianze di Igor Stravinskij, degli architetti Ieoh Ming Pei e Isamu Noguchi, del primo ministro giapponese Yoshida, del primo sindaco afroamericano di Chicago Harold Washington, del miliardario Huntington Hartford, dell’étoile Margot Fonteyn, degli attori Peter Ustinov, Laurence Olivier, Vivien Leigh, di Oprah Winfrey, Shirley Bassey, della regina americana del gossip Elsa Maxwell e degli italiani Eugenio Montale e Carlo Levi, compagno di vita di Linuccia Saba, conosciuta attraverso la Lupieri.
Nel 1963 ricevette la commissione per un ritratto a John F. Kennedy, che completerà sulla base di foto dopo l’assassinio del presidente. Nel 1992, realizzò un’opera monumentale a Ginevra: una fontana per l’Organizzazione della Proprietà intellettuale delle Nazioni Unite.
Bisessuale ma più orientata verso le donne (a parte una breve relazione col pittore Kurt Kramer nel ’40), Fiore decise a metà degli anni ’60 di sottoporsi a un intervento di “riassegnazione” sessuale, facendosi rimuovere gli organi maschili. Le opere tormentate di quegli anni testimoniano il trauma della scelta. Nel 1985, a Peralta, la scultrice lavorò sulle rovine di una torre e la ricostruì: iniziativa che fu “letta” come una sorta di riconciliazione con l’identità maschile.



Fiore de Henriquez il 28 ottobre 1955 con l'attore Peter Ustinov e il suo ritratto (foto Felix Fonteyn, Archivio Fiore de Henriquez Peralta, courtesy DoubleRoom arti visive)

La mostra “In love with clay” (dal workshop che tenne tra gli anni ’60 e ’70 in America) è corredata dal libro-intervista di Jan Marsh, cui Fiore raccontò il suo ermafroditismo, e dai testi critici di Valentina Fogher, triestina che opera al Museo dei bozzetti di Pietrasanta, e di Roberto Benedetti sull’artista nella scena cittadina. Lunedì 19 ottobre, inoltre, al Teatro dei Fabbri di Trieste e con l’introduzione di Mila Lazic, verranno proiettati i documentari dedicati alla scultrice di Charles Mapleston e John Tully, sottotitolati in italiano.
Nel Derbyshire, in Inghilterra, esiste il museo privato Fiore de Henriquez, di proprietà della facoltosa famiglia Sitwell A. Renishaw, visitato anche dal principe Carlo. A Trieste una sua opera è custodita nel museo del fratello Diego, altre, con tutta probabilità, si trovano in collezioni private. Chissà che, sull’onda di questa prima mostra, anch’esse si “disvelino”.


Fiore con il principe Carlo nel museo privato Fiore de Henriquez nel castello della famiglia Sitwell A. Renishaw nel Derbyshire (Archivio F. de Henriquez Peralta, courtesy DoubleRoom arti visive)





mercoledì 14 ottobre 2015


LA FICTION

"La verità di Anna", tutta a Trieste la nuova fiction di Carlo Lucarelli

TRIESTE Le riprese dureranno 96 giorni e sarà la produzione più lunga finora mai ospitata a Trieste. Arriverà nel gennaio 2016, con la firma di un autore di punta come Carlo Lucarelli. Le notizie sono ancora frammentarie, ma tra gli addetti ai lavori c’è già fermento per il nuovo set che sbarcherà in città appena quattro mesi dopo il colpaccio di “Gomorra La Serie” con le star Salvatore Esposito-Genny e Marco D’Amore-Ciro.



Lo scrittore Carlo Lucarelli a Pordenonelegge (foto Giulia Naitza per Pordenonelegge)

Di certo, oltre alla firma di Lucarelli, ci sono titolo e regista. Sarà “La verità di Anna” la fiction poliziesca in dodici puntate prodotto dalla romana Vela Film per la prima serata di Rai Uno che, dal gennaio prossimo, sarà completamente girata a Trieste. Dietro la macchina da presa il regista Carmine Elia, che ha alle spalle una lunga e solida esperienza di produzioni televisive, alcune di grande successo, sia per la Rai che per Mediaset: “Don Matteo” nel 2006, “Nati ieri” nel 2007 con Sebastiano Somma, “Ho sposato uno sbirro” con la coppia Fabio Insinna-Christiane Filangieri, e ancora la medical fiction “Terapia d’urgenza”, “Occhio a quei due” con Greggio e Iacchetti per Mediaset, “La strada dritta”, che nel 2014 celebrò su Rai 1 la realizzazione dell’Autostrada del Sole, fino all’ultima, “La dama velata”, serie in costume con Miriam Leone, un rotondo successo di audience di pochi mesi fa sempre su Rai Uno.
Per “La verità di Anna” Carmine Elia ha fatto un sopralluogo a Trieste di due giorni, accompagnato da Federico Poillucci presidente della Film Commission. Ma l’atmosfera e gli spazi li conosceva già perchè, nel 2004, lavorò qui come aiuto regista di Gianpaolo Tescari per la fiction “Gli occhi dell’altro” con Lucrezia Lante della Rovere.


Il regista de "La verità di Anna" sarà Carmine Elia

 A Trieste hanno fatto una puntata anche i collaboratori di Lucarelli, lo scrittore di polizieschi e sceneggiatore Giampiero Rigosi e la sceneggiatrice Sofia Assirelli. «L’ambientazione della fiction sarà dichiaratamente Trieste», precisa Poillucci. «Ecco il motivo di questa visita: riadattare la sceneggiatura alla città, dopo averne visitato i luoghi».
«La storia sarà poliziesca, ma non classica, più vicina alle serie americane, alla True Detective. E con qualche incursione nel materiale occulto», anticipa ancora Poillucci. Tra le location già selezionate c’è il Portovecchio dove, presumibilmente, verrà ambientata qualche sequenza di sparatorie. Da individuare anche l’edificio che fungerà da questura, magari - dicono alla Film Commission - con il coinvolgimento del Comune, che potrebbe mettere a disposizione qualche suo palazzo dismesso.
Per ora non ci sono altre notizie, anche perchè i protagonisti non sono stati ancora scelti e si conosceranno circa a metà dicembre, quando l’avanguardia della troupe sbarcherà a Trieste per i preparativi delle riprese. Molte comparse e ruoli minori, però, verranno scelti con casting locali. «Con una permanenza così lunga, calcoliamo che l’indotto per il territorio sarà nell’ordine di un milione e mezzo di euro, tenendosi bassi», dice Poillucci. «D’altro canto questa produzione ha ricevuto 200mila euro dal Film Fund regionale, la tranche massima, che viene proprio elargita in rapporto al rientro occupazionale ed economico del territorio».
“La verità di Anna”, infine, dovrebbe passare il testimone (o addirittura in parte sovrapporsi) a un’altra produzione già annunciata, il sequel del film “Il ragazzo invisibile”, che il regista Gabriele Salvatores girerà integralmente a Trieste e che è al momento in fase di scrittura da parte degli sceneggiatori del primo capitolo, Ludovica Rampoldi, Stefano Sardo e Alessandro Fabbri.

twitter@boria_a

Gabriele Salvatores in Portovecchio a Trieste durante le riprese de "Il ragazzo invisibile" (foto per Il Piccolo)

 L'INTERVISTA

Matteo Collura:  lo scandalo della vecchiaia erotica



Scandalosa vecchiaia, che non si rassegna alla pace dei sensi. Che conosce ancora il desiderio, lo nutre di fantasie, vorrebbe soddisfarlo non fosse altro che per interposta persona. L’anziano Italo Gorini, ex docente di lettere, vissuto nella Libia pre-Gheddafi e tornato in Italia per sposare una signora benestante e ammanicata, che lo adora e gli ha propiziato una cattedra, è il protagonista dell’ultimo libro di Matteo Collura, “La badante” (Longanesi, pagg. 206, euro 17,60), che l’autore presenterà sabato 17 ottobre, alle 18, al Caffè San Marco di Trieste, introdotto da Alessandro Rocco.


Matteo Collura, scrittore e giornalista

Vedovo da cinque anni, costretto su una sedia a rotelle, il vecchio professore passa le sue giornate confinato in una stanza, tiranneggiato dalla carne e dai suoi bisogni, che studi e letture passate non possono placare. Intorno a lui un figlio disoccupato, una sorella zitella e occhiuta, e la giovane badante Paula, l’oggetto del desiderio, l’obiettivo delle pulsioni e dei rimescolamenti della carne.

"La badante" (Longanesi)

Chiuso tra quattro pareti, l’anziano leone esiliato dal mondo e dalle sue attenzioni, si avvia alla fine senza che il presidio della cultura basti a metterlo al riparo dall’indecenza dei pensieri. La luna lo affascina come un novello Ciàula, ma non riesce a tenere a freno le mani verso la ragazza e la promessa di una vita ancora piena. È la quotidianità in tante case: anziani medicalizzati, assistenti familiari, domesticità allargata, nuovi contatti e solitudini. Ne parliamo con Matteo Collura che al suo protagonista, pur sprofondato nella malattia, concede una fine serena, in un nucleo di affetti trasformato in sintonia con i tempi.
Cinema, pubblicità, sfilate: i vecchi sono tornati di moda?
«Tornati no. Piuttosto, finalmente se ne parla. Fino a tempi recenti erano un tabù, vedere due anziani che si baciavano faceva scandalo. Il cinema ha affrontato il tema prima, pensiamo a “Quartet” di Dustin Hoffman, a “Ritorno al Marigold Hotel”. La letteratura italiana non ne ha mai parlato. In “Senilità” il protagonista non ha ancora quarant’anni».
Ora invece una scrittrice con Joan Didion fa la pubblicità di Céline...
«Gli anziani sono un gruppo di consumatori consistente, una forza potenzialmente in grado di spendere...».

 
La scrittrice Joan Didion testimonial di Céline



E sono anziani capaci di provare passioni e pulsioni.
«Certo, non soltanto di prendere medicine. La realtà è molto diversa da quella che si rappresentano quelli che vivono intorno all’anziano. Oggi ha sollecitazioni tipicamente giovanili che prima non esistevano. Se il cervello è vivo, le pulsioni non sono soltanto di natura sentimentale, ma anche sessuale. È la natura. Non si può combatterla».
Così è per il protagonista del suo libro, Italo. Che però la famiglia considera quasi già morto.
«Italo Gorini ha 83 anni e molta vita dietro le spalle. Non è stato un uomo sfortunato o emarginato, ma sempre coccolato e in una posizione di privilegio: in Libia era il bianco colonizzatore, a casa la moglie lo vedeva come un semidio. Per lui è dunque più difficile accettare di uscire di scena, a dispetto degli altri. Attraverso una serie di esperienze brutte, alla fine ritroverà se stesso e capirà che il cuore deve guidare le scelte, non solo la ragione. E che si ha il dovere, non solo il diritto, di essere felici, a volte anche a scapito di chi ti sta intorno. Accetterà di morire sazio di vita. Non è un credente, questo gli basta».
Il sesso per lui è un tarlo fisso. Non le pare troppo?
«Ho avuto tanti amici, dagli 85 ai 93 anni, con questo desiderio. Me ne parlavano apertamente. Noi non sappiamo nemmeno fino a che punto arrivino le pulsioni sessuali nelle persone anziane, ma bisogna tenerne conto. Il mio personaggio non le vuole mettere a tacere. Tenerle celate può stravolgere la vita».
Il suo libro nasce...
«Dall’esperienza indiretta. Ho settant’anni, mi avvicino alla vecchiaia e volevo saperne di più. Sono considerato vecchio, ho una pensione di vecchiaia, e di questa condizione non so nulla. Comincio a chiedermi: che succede ora? Alberto Savinio quando ha scritto la Nuova Enciclopedia ha detto: ero talmente scontento delle enciclopedie in circolazione, che ne ho scritta una per me. Siccome nella letteratura c’è un vuoto, il libro me lo sono scritto io. Per poi regalare agli altri questa esperienza».


 
Paul Giamatti ne "La versione di Barney" dal libro di Mordecai Richler


Alla fine il protagonista deve cedere all’Alzheimer.
«Altro tema che la letteratura non conosce. Il cinema sì. “La versione di Barney” di Richler è diventato un bel film con Paul Giamatti. “Still Alice” con Julianne Moore ha affrontato il problema, anche se la protagonista è nella mezza età. Mi sono serviti, come “La montagna incantata” di Thomas Mann. Perchè non c’è educazione alla vecchiaia».


 
Julianne Moore in "Still Alice"



La badante del titolo, Paula, protagonista o comprimaria?
«Le badanti sono sempre trattate da stampelle, da protesi. Non diventano personaggi, non ci si chiede mai che storia di sradicamento si portino dietro. Invece quando una badante entra in casa, comunque vada a finire qualcosa succede. È come una bomba innescata. Si altera l’equilibrio familiare, si determina una trasformazione che non è detto sia in peggio».
Eppure Italo la tratta come un oggetto, secondo i peggiori stereotipi.
«Perchè è un maschio egoista ed egotista e si comporta da tale. Urla il suo dovere alla felicità. Umano troppo umano, direbbe Nietzsche. Tratta la donna come farebbe la maggior parte degli uomini».
E il figlio di Italo, Desiderio?
«Un trentacinquenne laureato e disoccupato, che vive attaccato allo smartphone, convinto di avere per le mani una fatina. Suo padre ha una memoria, il figlio che cosa può ricordare? Affidare la propria vita a un telefonino e illudersi di essere in contatto con gli altri, è una realtà pazzesca, agghiacciante, che condanna a essere tremendamente soli».
Lei ha paura della vecchiaia?
«Non sono credente, ma non ho paura. Mi ci sto avvicinando e prefiguro la mia fine. Anch’io vorrei morire sazio di vita. Ho visto i miei amici che alla fine dicevano “basta”, ma senza rabbia, nè dolore o spavento. La natura ci aiuta, ci può educare alla vecchiaia»
.
twitter@boria_a

lunedì 12 ottobre 2015

 MODA & MODI

Fashion lost in translation 



Miranda Kerr: high-waisted and down-to-the-knee skirt, crop top (ph. Glamour)



Volete essere it, hot, cool per i prossimi mesi? Munitevi di una bibbia della moda, Vogue, tanto per fare un nome a caso, e di un vocabolario, prima di pensare a rinnovare il guardaroba. Perchè questa è l’unica certezza, in un mare di parole sinistre: ha bisogno di essere reloaded. E i vostri outfit upgraded. Non vorrete mica aggirarvi con uno stile normcore, quando tutto intorno a voi il mondo sta cambiando?
Cominciamo dai colori. Quei cappottini, o cappottoni rosa non vi convincono proprio? Sbagliate approccio. Anzi, attitude. Che non è rosa, il coloruccio insipido che vi fa una Barbara Cartland (reloaded, naturalmente) se siete da qualche parte negli “anta”, e una Barbie (wannabe, of course) se ancora tenete gli “enti” ed “enta”. Dovete ragionare pink, perchè pink (come l’orange) è “the new black”. Se poi avete delle indecisioni sugli abbinamenti, vi vengono in aiuto quelli già provati dalle star. Miranda Kerr, per esempio: che il suo pink coat con maxi rever, minimal style, l’ha accostato a un crop top, a una long skirt e a un paio di court shoes.

Stentate a raccapezzarvi? Traducete letteralmente, metodo versione nelle lingue morte: il cappotto rosa Miranda se lo mette con una maglietta corta che mostra l’ombelico, con una gonna a metà polpaccio e con un paio di scarpe che lasciano scoperto il collo del piede, quelle che, fino a poco tempo fa, erano le noiose décolleté della mamma. Vuoi mettere court shoes, questo binomio così misterioso e autorevole, che ti fa subito sentire inadeguata? Unica avvertenza sul crop top, consigliato alle molto skinny per non scoprire, oltre all’ombelico, i rotoletti michelin (e qui, davvero, bisognerebbe ricorrere a un termine straniero, l'evocativo spagnolo che le manigliette le chiama michelines...)
Ma non divaghiamo, stick to English. Per chi vuole osare: ankle boot open toe. Posologia: sono i tronchetti con buco in punta, da cui si affacciano un paio di dita del piede. Se poi sul cappotto-coat, mettete un collo peloso anche un po’ malridotto, eccovi calate nel mood della stagione. Brivido furry, che vale anche per quei quattro peli disseminati a peso d’oro sulle birkenstock (reloaded, again) e sui loafer, altresì detti mocassini.
Tocco finale? Le esperte vi consiglieranno una handbag, intraducibile in italiano con altrettanto glam. Borsetta fa zitella, una bag rende l’outfit più special.
A una cosa resistente, anche sotto tortura: i pantaloni flared. Va bene essere boho-chic ma non fino al punto da farsi schiacciare da una zampa di elefante. Anzi, da un elephant’s foot.

twitter@boria_a

mercoledì 7 ottobre 2015


L'INTERVISTA

Demna Gvasalia: dalla passerella di Trieste a Balenciaga
"Fully dressed with smile"




 
Demna Gvasalia nel luglio 2004 a Trieste, quando vinse la terza edizione di ITS


Undici anni dopo la sua vittoria a ITS Three, fashion contest di Trieste - all’epoca talento ventitreenne nato in Georgia e allievo dall’Accademia di Anversa - Demna Gvasalia è diventato il nuovo direttore artistico di Balenciaga, al posto del designer americano Alexander Wang, che già da mesi i rumors modaioli davano in partenza dalla storica maison francese. Nel 2004, sulla passerella del Salone degli Incanti a Trieste, Demna aveva fatto sfilare una collezione maschile di viaggiatori globali, ricercati nei dettagli ma non leziosi, intitolata "Fully dressed without a smile", che aveva conquistato la giuria, composta, tra gli altri, da Antonio Marras, Raf Simons, Ennio Capasa, Richard Buckley, Wilbert Das, all'epoca direttore creativo di Diesel.
Uomini, quelli di Demna, calati in giubbotti di pelle e lana, in trench e giacche lunghe su pantaloni o tute morbidi ai fianchi e affusolati ai polpaccio. Uno stile, il suo, fin dal debutto caratterizzato dallo stravolgimento delle proporzioni e dalla scomposizione di capi dell’abbigliamento classico per ricavarne pezzi nuovi, non tracciabili, destinati a un mercato giovane, internazionale, underground. Sono proprio queste le ragioni che hanno fatto cadere su di lui la scelta di Balenciaga, dopo averlo visto alla prova del mercato con il suo brand, “Vetements”, con base a Parigi, premiato dal mercato, soprattutto americano e coreano, dopo appena due anni di vita, osannato dalla stampa ed entrato nei gusti di celeb come Kanye West e Jared Leto.
«Volevamo proprio qualcuno con una visione, capace di sparigliare le carte» ha dichiarato alla rivista WWD l’amministratore delegato e presidente di Balenciaga, Isabelle Guichot, che ha paragonato l’approccio del designer georgiano a quello dello stesso Balenciaga, il grande spagnolo che approdò a Parigi nel 1937 imponendo il suo stile visionario e originale. «Gvasalia - ha proseguito Guichot - ha la stessa propensione a sfidare le convenzioni, mettendo in discussione i metodi standard dell’industria e scegliendo un approccio sociologico per analizzare che cosa innesca il desiderio del consumatore».
L’aveva anticipato lo stesso Demna, in un’intervista del luglio scorso al quotidiano di Trieste Il Piccolo, in occasione del suo ritorno a Trieste come giurato nella scorsa edizione di ITS e sull’onda del successo della collezione autunno-inverno 2015 di “Vetements”, sfilata nel sexy club gay Le Depot a Parigi: «Per me - aveva sottolineato il designer - la creatività è avere idee che eccitano e motivano lo sviluppo e il desiderio. È molto facile combinare creatività e business, quando le idee si combinano con il desiderio. La nostra squadra si basa sulla discussione e il confronto. Parliamo molto, lavoriamo con statistiche e facciamo ricerche teoriche su cosa piace indossare alla gente che ci piace e che prendiamo come punto di riferimento. Analizziamo come si veste e come possiamo intervenire su questi elementi per creare un prodotto nuovo».
Trentaquattro anni, una laurea in economia all’Università di Tbilisi, Demna Gvasalia, dopo il successo triestino e la laurea in fashion design ad Anversa nel 2006, ha collaborato con Walter van Beirendonck per la sua collezione maschile, quindi è passato alla maison Margiela con la responsabilità della collezione donna e, nel 2013, a Louis Vuitton, con l’incarico di senior designer per il prêt-à-porter donna, prima a fianco di Marc Jacobs poi di Nicolas Ghesquière. Ora prende le redini di un marchio del lusso che fa parte del gruppo Kering, con cui debutterà a marzo alla Parigi Fashion Week. Sotto la sua direzione, Balenciaga dovrà preparare due importanti anniversari nel 2017: i cent’anni di fondazione del marchio e gli ottanta dall’apertura del primo negozio sull’Avenue George V, vicino agli Champs-Èlysées.
«Sono estremamente onorato ed eccitato dell’opportunità di portare la mia visione creativa da Balenciaga - ha commentato Demna a WWD - una maison con una storia eccezionale, capace di superare i confini della modernità nella moda. Non vedo l’ora di espandere il dna di Balenciaga e scrivere insieme alla squadra un nuovo capitolo della sua storia».
Nel luglio scorso, al Piccolo, il designer aveva raccontato che il suo brand, Vetements (che continuerà a disegnare), era nato dall’esigenza di esprimere se stesso «senza condizionamenti e da un senso di liberazione». E, a proposito dei ritmi del fashion system, che marcia con nuove collezioni ogni quattro mesi: «Non mi piace il modo in cui impone le sue regole. Tutti le devono seguire. Semplicemente non ero d’accordo».

Ora, con Balenciaga, Demna si rimette in gioco.
twitter@boria_a