lunedì 21 dicembre 2015

 LA MOSTRA

 Viaggio nella mente di un serial killer


Uno di loro è tornato a far parlare di sè in questi giorni, per aver confessato l'omicidio di una giovane donna che potrebbe essere Ylenia Carrisi, la figlia di Albano scomparsa a New Orleans nel '93, di cui non si è saputo più nulla. Così, Keith Hunter Jesperson, il camionista serial killer, che tra il '90 e il '95 ammazzò almeno otto donne negli Stati Uniti, condannato a tre ergastoli, ha il non edificante primato di essere, in contemporanea, protagonista di una mostra “documentaria” e dell'attualità della cronaca. E proprio con lui, Happy Face, così soprannominato per gli smile che disegnava nelle sue lettere ai giornali, potremo ora avere un incontro molto più ravvicinato che dagli articoli di un quotidiano. Nella mostra "Dalla vittima al carnefice", che si apre il 26 dicembre in pieno centro a Jesolo, al Pala Arrex in via Aquileia, sono esposte le testimonianze della sua scrittura: lettere, cartoline alla famiglia, disegni, perfino una macabra, piccola televisione, che teneva nel camion su cui irretiva e adescava le vittime, dove potrebbe essere salita anche Ylenia, raccolta in una stazione di servizio della Florida (www.mostraserialkiller.it).



Keith Hunter Jesperson, il killer Happy Face



L'allestimento, già testato con successo a Londra e qui arricchito dalla sezione dei criminali autoctoni, si propone come un viaggio nei meandri della mente degli assassini degli ultimi trecento anni, una sessantina stranieri, per lo più americani, una dozzina italiani. Accanto a Jesperson, i ritratti di altri celebri serial killer, da Jack lo Squartatore, che nel 1888 lasciò una scia di sangue nel degradato quartiere di Whitechapel a Londra, a Leonarda Cianciulli, la saponificatrice di Correggio, le cui vittime, tra il 1949 e il ’50, finirono in un pentolone con la soda caustica. Da Issey Sagawa, il giovane giapponese studente della Sorbona, che nel 1981 uccise e mangiò almeno sette chili di carne di una compagna di studi, a Jeffrey Lionel Dahmer, l mostro di Milwaukee, necrofilo e cannibale gay, autore di diciassette omicidi tra gli anni ’70 e ’90, nel cui frigo erano stipati i resti delle vittime.
La mostra, ancor prima di aprire i battenti, ha suscitato l'indignazione di alcuni residenti, radunatisi in una pagina Facebook, che hanno trascinato la polemica sulla stampa. È possibile, si chiedono in molti, nel giorno di Santo Stefano, quando le famiglie sciamano placidamente al cinepanettone, mettere sotto i riflettori una pattuglia di trucidi criminali, invitare gli spettatori a farsi un selfie su una sedia elettrica, copia di quella, esposta in mostra, su cui fu giustiziato in Florida il seducente Theodore Robert Bundy, il killer delle studentesse, che negli anni '70 ne uccise e decapitò oltre trenta, stuprandole quando erano ormai in decomposizione?
Gli organizzatori rilanciano. E di argomenti ne hanno, visto che i criminologi sono ogni giorno di casa in tutti i canali tivù, protagonisti dei programmi di cronaca nera, trasformati - complice o il fascino e il look noir - in opinionisti onnipresenti, dispensatori di profili psicologici e sentenze prêt-à-porter. «Nessuna ricostruzione cinematografica nè Gardaland del delitto - ribattono i promotori del Tropicarium Park di Jesolo - l'intento è scientifico, tra criminalistica e criminologia. Il periodo non è opportuno? Ma cos'è ormai che si fa nel momento in cui si può fare?».
Oltre mille metri al piano terra della mostra sono dedicati alle ricostruzioni da CSI, alle scene del crimine vecchie e nuove, con oggetti di tortura appartenuti ai killer, immagini, atti processuali e documenti originali, profili psichiatrici, identikit e, per il pubblico, la possibilità di sperimentare le tecniche della polizia scientifica.
Il primo serial killer italiano è Antonio Boggia (1799-1862), il mostro di Milano, di cui si vedrà la mannaia originale, ma non manca il vampiro della Bergamasca, tale Vincenzo Verzeni, attivo nel 1870, e i casi più recenti che periodicamente la tv rispolvera: il mostro di Firenze Pacciani, il veneto Gianfranco Stevanin, il cui podere, nei primi anni ’90, restituì i corpi di tre donne, mentre altri tre omicidi di prostitute gli sono stati attribuiti, il genovese Maurizio Minghella, che ha sulla coscienza sevizie e omicidio di dieci donne tra il 1996 e il 2001, Donato Bilancia, altro mostro ligure, condannato a tredici ergastoli per aver fatto fuori, negli stessi anni, almeno diciassette persone tra prostitute e bersagli casuali.


 
La mannaia del primo serial killer italiano, Antonio Boggia




 

Si riaprirà idealmente anche il caso di Rina Fort, la donna di Santa Lucia di Budoia (Pordenone), meglio nota come la belva di via San Gregorio, protagonista di uno dei più clamorosi ed efferati delitti dell'Italia del dopoguerra. Nel 1946, a Milano, uccise a sprangate e soffocandoli con cotone imbevuto di ammoniaca, la moglie dell'amante, incinta, e i tre figlioletti. Infine, un mistero irrisolto, un serial killer ancora senza volto, quello delle prostitute di Udine.
Al primo piano dell'area espositiva, invece, sarà allestito, il “museo di arte criminologica” dalla raccolta del collezionista Roberto Paparella. Circa trecento pezzi, tra cui, oltre ad armi di varie epoche, una teca con lo scheletro mummificato di un vampiro, la ricostruzione di una valigia con una vittima fatta a pezzi, e uno strumento di tortura dell'epoca fascista, una sorta di ghigliottina pare utilizzata anche dai titini.


La tremenda scena del delitto in via San Cristoforo a Milano, dove Rina Fort uccise una donna e tre bambini nel 1946




Rina Fort, originaria di Santa Lucia di Budoia (Pordenone)



Gli organizzatori sono gli stessi della mostra dei cadaveri plastinati “Real Bodies” che l'anno scorso, sempre a Jesolo, collezionò grandi numeri, molti svenimenti e titoli di giornale. Allora ci si interrogò non solo sui limiti del voyeurismo necrofilo, ma anche sulla provenienza dei cadaveri. Oggi, a proposito dei pezzi appartenuti ai serial killer, dal Tropicarium rispondono che sono in mano a collezionisti privati e che, all'estero, il loro commercio è perfettamente legale. Anzi, è la stessa amministrazione pubblica a metterli all’asta, perchè sesso, sangue e morte fanno raggiungere cifre impressionanti, non solo di audience.

twitter@boria_a

sabato 19 dicembre 2015

MODA & MODI

Il balcone di Giulietta in un anello

 
La collezione di Valeria Rossini ispirata a Verona



Amare tanto la propria città da trasformare in gioielli i suoi gioielli. Ponte Pietra, il balcone di Giulietta e Romeo, Piazza Bra, le Arche scaligere, il duomo e le Torricelle sono diventati anelli nella collezione di una designer ventisettenne, la sua prima ad arrivare nei negozi a Vicenza, Trento e Trieste. Valeria Rossini ha in più il pizzico di fortuna delle iniziali appropriate: VR, proprio come la sigla di Verona, il logo con cui firma le sue creazioni. Al gioiello è approdata con un piccolo colpo di sfortuna: un esame fallito al Politecnico di Milano, dove studiava design di moda, la spingono a frequentare il corso di oreficeria di base alla Scuola Orafa Ambrosiana e a scoprire una passione autentica. Il corso di studi cambia in “design del gioiello”, cui aggiunge una specializzazione in gemmologia. Da cinque anni di divide tra queste due anime, quella tecnica di esperta di pietre, quella creativa di disegnatrice di monili.
Ogni sei mesi realizza una produzione nuova, in ottone e argento, che finora ha venduto con un passaparola tra amici. La prima collezione era ispirata ai nastri, “tradotti” in fasce che prendono forme diverse intorno alle dita. Poi il tema mistico, sviluppato attraverso cerchi, triangoli, pentagoni, croci.









Quest’anno l’idea centrale è Verona, i suoi luoghi più celebri, richiamati e ridotti a forme essenziali, pulite, lineari. Un suggerimento, più che una copia. Il balcone si trasforma così in un semplicissimo e lungo rettangolo, le Arche scaligere in una linea sottile che si avvolge fino a formare una punta, Ponte Pietra diventa un unico anello per tre dita, piazza Bra un incrocio di ovali. «Non mi aspettavo di essere così apprezzata - dice Valeria - in fondo la semplicità è difficile da capire».
Gli anelli sono tutti fatti a mano, con la tecnica della “fusione a cera persa”.





Niente stampi, ogni volta il modello di cera viene rifatto da capo. Quindi nessun anello ha le stesse proporzioni e tutti hanno qualche piccolo difetto che li rende esclusivi. «Anche un pezzo molto semplice, e alla portata di tutti, può essere unico. È questo lo spirito», spiega Valeria. E i contenitori seguono la stessa filosofia: scatoline con il logo VR impresso con un timbro, pezzi numerati e il riferimento scritto a mano dalla stessa designer, che crea così un legame speciale con chi sceglie il suo anello.




Le collezioni VR si possono vedere su www.instagram.com/qualcosadicompletamentediverso/ o Facebook: VR-Handcrafted-Jewelry. Oppure, a Trieste, da Bardot in via Madonna del mare (www.bardot. blogspot.com)
twitter@boria_a

lunedì 7 dicembre 2015

 MODA & MODI

Ljubljana, sette designer in un negozio pop



Le "volpine" di Almira Sadar da sole valgono il viaggio. Sciarpe di tessuti e fantasie diverse da avvolgere intorno al collo come quelle vere di pelo, con tanto di muso, zampe e codina. Accessori auto-ironici, divertenti, animal-friendly, da qualche anno immancabili nelle collezioni della designer slovena, che riassumono il senso delle sue linee: manualità, modernità, un approccio alla moda fresco, facile, ecologico.

 
Le "volpine" firmate Almira Sadar




Sono queste anche le caratteristiche di Made in Slovenija l'iniziativa inaugurata il 7 dicembre a Lubiana, nello spazio pubblico di Mestni trg 15, che rimarrà aperta fino al 31 dicembre, dopo essersi già messa alla prova a Praga e Vienna.
Se andate per mercatini, questo pop up shop, una mostra-mercato a tempo, merita una tappa per curiosare tra le produzioni di sette designer slovene: abbigliamento, borse, cappelli, scarpe, complementi d'arredo per la casa, tovaglieria, che raccontano sette storie diverse su come recuperare le tradizioni tessili e riconvertirle in forme contemporanee. Almira Sadar, Urška e Tomaž Draž, Sanja Grcic, Nataša Peršuh, Neli Štrukelj, Arijana Gadžijev e Petja Zorec, sotto il cappello di SOTO (acronimo di Society for contemporary Slovenian fashion and textile design) hanno deciso di lanciare insieme un vero e proprio brand, garanzia della “slovenità” del disegno e dell'idea ma anche della produzione locale dei pezzi. In sostanza: moda pensata e prodotta in Slovenia, orgogliosamente e modernamente autoctona.
Punto di partenza e filo conduttore tra i sette marchi sono la ricerca di abiti, tagli e motivi decorativi del passato, che vengono smontati e ricostruiti in forme nuove e attuali, così come le antiche tecniche di lavorazione si combinano con la tecnologia. Tutto molto "sostenibile": serie limitate di oggetti e capi, che nascono da un'alleanza tra il designer e l'artigiano o il piccolo produttore.




Draž ripropone l'ultracentenaria lavorazione del pizzo per vestiti e accessori, Firma by Sanja riscrive la silhouette degli abiti tipici, aiutata dal cappellaio Pajk, Almira Sadar crea biancheria per la casa tessuta al telaio, con tagli laser e vecchi ricami riprodotti dalle macchine, Peršuh propone una collezione all'insegna del plissè, la cui tecnica tradizionale è custodita da un'unica artigiana ancora attiva in Slovenia e in questa parte d'Europa. Nelizabeta firma borse "modulari", Petja Zorec rispolvera lavorazioni a maglia a rischio scomparsa dopo la dissoluzione della Jugoslavia.
Una sfida: fare l'upgrade della moda nazionale senza diventare folcloristici. Info: sanja@netsi.si sotosociety@gmail.com

twitter@boria_

vedi anche: http://ariannaboria.blogspot.com/2015/12/il-personaggio-almira-sadar-da-lubiana.html