lunedì 28 marzo 2016

MODA & MODI

Iris Apfel, la nonna al volante che rassicura




Iris Apfel di nuovo in pista. E questa volta si mette alla guida della nuovissima DS3, ultimo modello del gruppo Peugeot Citroën. Lei, ultra novantenne scattante signora dagli inconfondibili occhiali tondi e il rossetto color ciliegia, ormai familiare anche a fashion blogger dell’ultima ora, con quella zazzeretta bianca e le braccia intubolate nei bracciali etnici, è passata dallo specchietto da trucco a quello retrovisore. Nel 2012 la scelse la catena MAC, fotografandola in primo piano, con le labbra di fuoco, collagene-free, in mezzo a una ragnatela di rughe, per dire alle consumatrici, generazionalmente sue figlie, nipoti e anche bis-nipoti: l’età è uno stato d’animo, con questi cosmetici sono attraente e vincente.

Vincente, soprattutto. Perché Iris Apfel, rara avis of fashion, come la definì il Metropolitan di New York quando dedicò una mostra al suo sterminato guardaroba, figlia di una famiglia di ebrei russi, è diventata interior designer di nove presidenti americani, giornalista, imprenditrice del lusso. E ha messo insieme, in settant'anni di ricerche e viaggi, una collezione di abiti, monili e accessori, che continua a sfoggiare in giro per il mondo, superba testimonial di se stessa, icona di stile, appunto, in una pletora di omologate e noiosamente autoreferenziali it-girl.


Iris Apfel per MAC


Oggi, dunque, Iris è al volante di un gioiellino di design, compatto e scattante, e proclama alle potenziali interessate: no rules, no trends. Niente regole, niente tendenze, odiosa parola che ci vorrebbe tutte seguire i must del momento, scelti da altri. Di più: mentre sfreccia pimpante verso un orizzonte multicolor, metafora di un futuro brillante, dichiara: “Una volta qualcuno mi ha detto che non ero carina e che non lo sarei mai stata, però avevo stile, che è molto meglio”. Eccolo il messaggio: siate voi stesse, la personalità vi aiuterà ad arrivare, non importa da dove partite e che faccia avete, metteteci grinta, fantasia, colore, fregatevene di chi vi vuol sminuire.

  
https://youtu.be/yzf_WPqsmTM 

C'è un solo pericolo. Che Iris, come la scrittrice Joan Didion per Celine, Jacquie Murdock per Lanvin, Jacky O' Shaughnessy per la lingerie di American Apparel, o la top model, sideralmente canuta, Carmen Dell’Orefice, che ha fatto un patto col diavolo delle passerelle, insomma che tutte queste testimonial vecchie e brillanti, in salute fisica ed economica, diventino una moda, di moda. Che la quarta età sia solo un'altra fascia di mercato da sfruttare fino alla noia.

Jacquie Murdock per Lanvin

 
Cermen Dell'Orefice, top model d'antan


Le cinquantenni sono stressate e sotto pressione, le millennial vedono prospettive incerte e competizione alle stelle. Una volta era il logo a vista e gigantesco, o l'oggetto scarrozzato dal personaggio famoso a rassicurarci, a farci sentire adeguate, protette da uno scudo. Oggi rischia di diventarlo la favola della nonna.
twitter@boria_a

leggi anche:http://ariannaboria.blogspot.com/2015/02/il-film-advanced-style-sette-icone.html

                  http://ariannaboria.blogspot.com/2015/01/moda-modi-se-la-testimonial-e-dantan.html

sabato 26 marzo 2016

IL LIBRO

Guido Crainz: da Berlusconi a Renzi, gli slogan delle televendite sono sempre gli stessi
 






1992, anno rivelatore. Pare di veder scorrere sul video la sigla dell’omonima fiction di Stefano Accorsi, uno dei pochi prodotti televisivi italiani competitivo sui mercati internazionali. La bufera di Tangentopoli, il verminaio della corruttela pubblica, il crollo del pentapartito, l’esplosione della Lega, l’alba del ventennio berlusconiano, la seconda Repubblica che nasce con l’ipoteca dei nodi irrisolti della prima, a cominciare dalla questione etica nella politica.
Non è il titolo di una fiction, anche se Guido Crainz maneggia prodotti televisivi e cinematografici, moda e design, articoli di stampa e pubblicità almeno con la disinvoltura con cui cita documenti d’archivio e fonti ufficiali, per dipingere settant’anni di storia italiana, dalla Liberazione a oggi. Un enorme immaginario collettivo fatto di immagini e slogan, personaggi e costumi a rapidissima deperibilità, in grado di intercettare e restituire, più delle statistiche dell’Istat e dei panieri, gli umori e lo stato di salute dell’Italia e degli italiani.



Stefano Accorsi, regista e protagonista di "1992"


1992, anno rivelatore è l’incipit dell’ultimo capitolo della nuova “Storia della Repubblica” (Donzelli Editore, www.donzelli.it pagg. 387, euro 27,00) firmata dallo storico udinese, che esce in anticipo sull’anniversario di giugno con un poderoso e fittissimo saggio. Si parte dall’Italia nel lungo dopoguerra, quel paese che l’«Inchiesta parlamentare sulla miseria», agli inizi degli anni Cinquanta, inchioda a numeri eloquenti: su circa dodici milioni di famiglie 4 milioni 400mila non acquistano mai carne e 3 milioni 200mila solo una volta la settimana. Oltre 2 milioni 800mila famiglie inoltre vivono in casa sovraffollate, e di esse quasi 900mila con più di quattro persone per stanza o in dimore “improprie” (cantine, soffitte, baracche e grotte); in molte case isolate nelle campagne l’acqua si attinge dai pozzi e l’elettricità non è ancora arrivata».
Giovanni Comisso, il 29 aprile 1950, scrive su “Il Mondo” di una “Sicilia nel Veneto” per raccontare il poverissimo Montello e Vasco Pratolini, su “Il Nuovo Corriere”, il 6 marzo 1947 si interroga: “Dobbiamo giungere a questo punto per strappare un pezzo di pane?”. Ed Ermanno Olmi, girando per la Edison documentari che vogliono magnificare l’espansione dell’industria elettrica, si muove con la macchina da presa in paesi di montagna fuori dal tempo, congelati in lavori arcaici, e in una Milano natalizia del 1954 che, pur alla vigilia del boom, appare “infiltrata” dalla povertà delle periferie.



Lo storico udinese Guido Crainz

Si parte dal dopoguerra e si arriva al “renzismo” dei giorni nostri, ai primi segnali di disaffezione nei confronti del Pd registrati già a fine 2014, al fortissimo astensionismo alle elezioni regionali emiliane dello stesso anno (la partecipazione si attesta al 37,6% e il “segnale” viene sottovalutato), fino al tramonto dell’idea del “rottamatore” di rinnovare «il paese e la politica puntando solo sull’azione di governo».
In mezzo, gli anni del boom, gli anni di piombo, la grande “mutazione degli anni Ottanta”, quelli del tramonto di Carosello e del sorgere degli spot, delle case-set con i Michele intenditori di whisky e delle trasmissioni della Carrà, dove trionfa “il partecipazionismo degli italiani che nome non hanno”, come li chiama Giorgio Bocca.


https://youtu.be/bAFjwDPSNoA


Anni della “grande mutazione”, quando crescono fenomeni che condurranno alla deflagrazione del 1992: il successo come valore unico, l’arrivismo, l’affievolirsi della solidarietà sociale e il trionfo delle pubbliche relazioni, il disastro delle grandi aziende e il fiorire delle cittadelle delle televisioni commerciali, la rivoluzione informatica e l’esercito degli yuppie, «portatori di innovazione ma lontani dal progressismo politico». Gli Ottanta, che per Crainz sono un passaggio decisivo, come lo era stato il miracolo economico, per comprendere «qualità e disvalori della nostra modernità».


 
"Pronto Raffaella?", icona televisiva degli anni Ottanta


Settant’anni di storia. Un percorso cui riandare, e attingere nei disorientamenti dell’oggi. Un presente in cui mutano orizzonti istituzionali e strutture sociali, si affacciano soggetti politici nuovi con linguaggi e forme di comunicazione dirompenti, e la necessità di conservare il passato convive con l’urgenza di affrontare sconvolgimenti internazionali senza precedenti.


Su questo si interroga Crainz. Su come si è passati dalla società piagata ma vitale del dopoguerra, capace di risollevarsi dalle macerie e dal regime fascista e di diventare protagonista di uno sviluppo straordinario, all’Italia spaesata di oggi. Immersa in una globalizzazione che non sa dominare e governare, dove il “sistema dei partiti”, cui si affidava il paese che usciva dal conflitto, capace di suscitare la “passione per la democrazia”, è oggi uno scheletro fatiscente, che perde (o moltiplica scompostamente) i pezzi, mentre montano tra la gente insofferenza e antipolitica.


1992, 7 dicembre. Titola “La Stampa”: “Nasce l’astro Berlusconi”. Due mesi dopo, nel febbraio ’93, il Cavaliere proclama dalle stesse colonne: «Dovrebbe governare chi si è già affermato in una professione e poi torni a svolgerla”. I temi evocati sono quelli dell’imprenditore che «si è fatto da sè», dell’«uomo nuovo», cresciuto nei media e nelle culture degli anni ’80. Torna alla memoria, dice Crainz, l’Alberto Sordi di “Una vita difficile”, 1961: «Vedi Elena, tu ti trovi di fronte una persona che dal nulla è diventata una delle persone più importanti del nostro paese... Lei commendatore è riuscito a surclassare tutti, a diventare il primo in ogni campo: industria, commercio, giornali, cinema, riviste, dischi, calcio... ha in mano tutto lei!».



Alberto Sordi e Lea Massari in "Una vita difficile" (1961)



Così, mentre Berlusconi prepara la discesa in campo, Giorgio Bocca riflette con amarezza sulla grande differenza rispetto all’Italia del 1945, quando eravamo sì divisi in fazioni, «ma uniti nel vivere... certi del nostro destino. Questa voglia di avere un’identità, di essere noi, nel bene come nel male, sembra esserci uscita dal corpo. Che Paese siamo?». E Claudio Magris, nel suo intervento sul Corriere della Sera, il 2 novembre 1993: «Da qualche tempo si avverte quasi fisicamente, per la prima volta, la possibilità che il Paese si dissolva e che tra breve l’Italia - nella sua attuale forma politico-statuale e dunque anche culturale - possa non esistere più».


Nelle elezioni del marzo 1994 Forza Italia diventa il primo partito italiano, perno di un’anomala coalizione, il Polo delle Libertà, che conquista la maggioranza dei seggi alla Camera (il 46%), mentre i Progressisti cui fa capo il Pds si fermano al 33%. Alle elezioni europee, di lì a poco, gli “azzurri” volano oltre il 30%, mentre nel Pds, contrattosi sotto il 20%, Massimo D’Alema sostituisce Achille Occhetto.


 
Silvio Berlusconi: nel 1994 Forza Italia è il primo partito italiano


La prima Repubblica è morta e sepolta. Ma non ne nasce una seconda, sostiene Crainz, comincia invece la stagione di Berlusconi, l’uomo che ha improntato di sè quasi un ventennio di storia italiana e col quale ancora facciamo i conti. «Sono state lanciate parole d’ordine rudimentali ma suggestive: meno tasse, meno controlli burocratici, più posti di lavoro...» scrive Claudio Rinaldi sull’Espresso dell’8 aprile ’94. «Si può discutere se una politica a base di televendite di sogni sia la migliore possibile per l’Italia. Ma è certo che tutta una parte del paese non aspettava altro. Frastornata dalla catastrofe giudiziaria della classe dirigente, fiaccata da un paio d’anni di recessione, allergica alle facce della vecchia politica, questa parte d’Italia era disposta a dare il voto per una speranza. E in molti la disponibilità è diventata entusiasmo». Il resto è storia di oggi. Ma gli slogan suonano come quelli di ieri.

twitter@boria_a

lunedì 21 marzo 2016

 L'INTERVISTA

Stefano Pace, sovrintendente del Teatro Verdi di Trieste: "Inaugureremo l'Opera di Dubai"


 
Il sovrintendente del Teatro Verdi di Trieste fotografato da Parenzan






Centottanta persone. Orchestra, coro, solisti, tecnici e staff. L'intero teatro Verdi di Trieste si prepara a trasferirsi per un paio di settimane a Dubai dove, dal 30 agosto al 5 settembre, inaugurerà la Dubai Opera, centro di eccellenza per le arti dello spettacolo di tutto il Medio Oriente, un enorme edificio polifunzionale che accoglierà duemila spettatori. Il Verdi sarà protagonista di cinque serate, in cui eseguirà “Les pecheurs de perles” di Bizet per la direzione di Donato Renzetti, “Il barbiere di Siviglia” di Gioacchino Rossini con la bacchetta di Francesco Quattrocchi e un concerto sinfonico con pagine d'opera.




 

 
"I pescatori di perle" di Bizet, una delle opere che il Verdi eseguirà a Dubai, diretta da Donato Renzetti



Al momento, il futuro teatro a Dubai è un cantiere in fermento, dove lavorano ottocento persone al giorno, ma di qui a qualche mese, nelle giornate inaugurali, attirerà su di sè gli occhi e la stampa di tutto il mondo. E per il Verdi sarà una straordinaria occasione di visibilità internazionale, di cui il sovrintendente Stefano Pace, che festeggia il primo anno alla guida del teatro, è legittimamente fiero. «La Dubai Opera si trova accanto alla Khalifa Tower che, per un certo lasso di tempo, è stata l’edificio più alto al mondo» dice Pace, architetto, arrivato a Trieste dalla direzione tecnica della Royal Opera House Covent Garden a Londra. «Quella del Verdi sarà la prima produzione ospitata. Un’occasione eccezionale per veicolare l’immagine della regione. Ho avuto contatti con la rappresentanza della Camera di commercio italiana a Dubai e con le imprese friulane che lavorano là. Abbiamo cominciamo un discorso a lungo termine». 

La nuovissima Opera di Dubai che, da settembre, accoglierà duemila spettatori


Perchè le imprese? «Per far comprendere l’utilità del teatro come veicolo d’immagine. Il “Verdi” è una realtà produttiva, un’impresa come le altre che dà lavoro a 242 persone, molto importante per definire la qualità del territorio. Questo discorso di proiezione internazionale attraverso il “Verdi” interessa tutta la regione. Imprese-cultura è un binomio chiave nel mondo, anche se in qualche caso sembra poco ortodosso. Uno degli sponsor più importanti della Tate di Londra, per esempio, è BP. Noi non vogliamo andare dagli imprenditori col cappello in mano, vogliamo invece creare un’integrazione che giovi a entrambi i partner. Il Verdi è uno dei teatri più importanti d’Italia e ha un’immagine di serietà, qualità, capacità di novità che si sta riscoprendo».

Com’è avvenuto il contatto con Dubai? Non sarete stati gli unici... «Beh, i competitors ci sono sempre. Ma siamo stati il teatro che ha risposto meglio alle loro esigenze in termini di flessibilità, efficacia e capacità di adeguarsi ai tempi. Personalmente ho esperienza di aperture di grandi teatri, ho partecipato alla progettazione e costruzione del teatro nazionale di Pechino, al restauro del San Carlo di Napoli. Do fiducia. L’equipe che ci sarà a Dubai aveva lavorato anche a Covent Garden, abbiamo già un linguaggio comune. Questa tournée non è una vacanza. Aprire un teatro è una delle avventure più faticose, si lavora in mezzo alla polvere, in un cantiere, con servizi non finiti. Noi spostiamo un prodotto finito in una scatola vuota. Ci sarà da adattarsi, ma il teatro ha risposto con entusiasmo e dedizione».


 
Il sovrintendente Stefano Pace fotografato da Massimo Silvano per Il Piccolo al Teatro Verdi di Trieste


Cosa si aspetta da questa trasferta? «Che si capisca che il Verdi non ha un’area di espressione limitata, che è un formidabile veicolo di immagine per chi si vuole associare al teatro e condividere un percorso su progetti mirati, dai quali si avrà un ritorno che ha lo stesso valore del contributo versato. È uno scambio merci, una reciproca utilità. Dubai è avida del savoir faire italiano, della nostra eleganza e del nostro gusto. Non basta l’opera. Io credo che la cultura sia un valore assoluto, ancora purtroppo poco sfruttato nel nostro paese, che deve dare un risultato economico. In passato si largheggiava e le imprese ci hanno visto come mendicanti o “sprecaccioni”. Ora non produciamo più debito, siamo molto seri con i nostri conti. Un partenariato con noi più dare benefici che molti imprenditori non sospettano».


 
Il cantiere dell'Opera di Dubai: ogni giorno ci lavorano ottocento persone


 


 Si è mai detto, in quest’anno, “ma chi me l’ha fatto fare di lasciare Covent Garden...?”. «Non ho mai optato per la comodità. Sono stato dodici anni all’Opera di Parigi, poi a Valencia, al San Carlo di Napoli, alla direzione artistica del Bellini di Catania, alcuni mesi a Genova e poi a Londra. Ci sono sempre momenti di sconforto. Qui mi arrabbio quando le cose non accadono velocemente quanto vorrei. Avrei voluto fare molto di più, conoscere tutte le potenzialità umane del teatro per valorizzarle al meglio. Ma se fossi completamente soddisfatto mi annoierei, vorrei andar via. E non credo che ne avrò il tempo. A Parigi gestivo 700 persone e un budget superiore a quello di qualsiasi fondazione lirica italiana. Ma ho sempre detto che sarei tornato in Italia se mi avessero offerto una sovrintendenza. Trieste era un’occasione più semplice e invitante di altre. Dopo un anno, siamo in crescita. Godo ancora di un certo consenso ed entusiasmo. Quando propongo qualcosa, molti mi dicono: proviamoci. Direi che il bilancio è positivo».

Di Londra che cosa rimpiange? «La cultura del mecenatismo della società britannica. Sono molto generosi. E molto ricchi, soprattutto intorno a Covent Garden. Rimpiango la leggerezza e la fluidità amministrativa e la capacità consociativa nei progetti».


Un risultato che si riconosce e uno che non ha ancora portato a casa. «Aver tolto un velo di polvere all’immagine del teatro che tanti giovani avevano. Aver destato attenzione, sorpresa. Più nella forma che nei contenuti, che ancora non hanno l’aspetto che vorrei. Ho fatto debuttare cantanti giovani in ruoli difficili, anche se non c’è ancora continuità e omogeneità. Dobbiamo ancora ristabilire la confidenza col pubblico, i nostri risultati sono migliori delle due stagioni precedenti, ma non come quelli di dieci anni fa. Nessun rimpianto, perchè niente è irrecuperabile. Sono contento di aver cambiato l’immagine del Verdi in poco tempo, ma il meglio deve ancora venire».



 



Cosa non le piace di Trieste? E che cosa le piace? «Molte cose sono vere nel ricordo. Città musicalissima? Senz’altro. E colta. Ma vive di questa eredità, che sta consumando, forse è già consumata. Finiti gli intereressi, si comincia a mangiare il capitale. Mi piace la qualità della vita, una delle più alte, mi piacciono le possibilità che ha la città. Non mi piace un certo fatalismo. Chi sta bene come sta ha difficoltà a proiettarsi nel futuro. Un esempio: quando abbiamo ridotto i tamburini sul giornale c’è stata una bella protesta, poi abbiamo ricalibrato il problema. Purtroppo le generazioni 35-55 sono completamenti assenti dal teatro. Così abbiamo adottato tutti i sistemi di comunicazione internet, sui social media. Siamo andati a cercare pubblici diversi, anche con binomi a volte desacralizzanti, come con Olio Capitale. Abbiamo cominciato con la pubblicità al cinema, credo siamo i primi in Italia, e con trailer prodotti da noi a costo zero. Il pubblico al cinema non può scappare come da una pagina di giornale o da Internet, e noi vogliamo carpirlo».
 

E del teatro che cosa le piace? «Lo spirito di dedizione e partecipazione della maggior parte della gente che ci lavora. L’edificio è affasciante, è rimasto più o meno intatto. Putroppo gli spazi di circolazione di uffici e pubblico si incrociano e mancano ambienti per sviluppare attività che aiuterebbero il teatro, come piccoli ricevimenti offerti dagli sponsor ai loro ospiti». 


Il Don Giovanni di Mozart che ha aperto la stagione 2015-2016 del Teatro Verdi di Trieste il 30 ottobre 2015 (foto Andrea Lasorte per Il Piccolo)



Ci anticipa qualcosa della prossima stagione che state per presentare? «"Zauberflote" e il balletto "Lo Schiaccianoci" con la coreografia di Amedeo Amodio, la scenografia di Emanuele Luzzati e due primi ballerini del New York City Ballet. Stiamo lavorando sulla qualità dei balletti».


 Non c'è pericolo di sovrapposizioni col Rossetti? «Ho conosciuto il direttore Però in anni non sospetti, quando era assistente di Lavia. Mio padre era lo scenografo di Lavia e io ho cominciato a lavorare con lui a quindici, sedici anni. Subito ci siamo parlati e coordinati. Noi non facciamo danza contemporanea, opera musical e musical, il Rossetti non fa operetta. Teniamo le prime in giornate diverse, promuoviamo le locandine l'uno dell'altro, mettiamo insieme progetti e risorse. Noi realizziamo scenografie per il Rossetti...».

A proposito di operetta... «Anche qui si vive di ricordi. L'idea di un festival è tramontata perché i costi sono insostenibili. In giugno avremo il Pipistrello e sarà un momento di verifica. È una nuova produzione, che ha dignità e peso pari a quello delle opere, con un cast notevole. Vediamo se la sala sarà piena per tutte le repliche e quanti sono effettivamente gli interessati. Il linguaggio dell'operetta è obsoleto, difficile da attualizzare, il repertorio è superato. Spesso si è pensato che bastavano cantanti buffi e divertenti, anche se non avevano voce. Il genere è scaduto.
“Il paese dei campanelli”, “La principessa della czarda”, “Cincillà” li trovi solo nei teatrini, non c'è pubblico per sostenerli».».

Lei ha fama di stakanovista. Si sente come il direttore della reggia di Caserta? «Lo comprendo e lo inviterei a teatro se non sapessi che non si può muovere. E anch'io prima di prendermi una vacanza devo essere certo che il teatro è a regime. Programmazione a lungo termine, risorse variabili, stare in teatro per sentire come canta il tenore fino all'ultimo... E chiedersi: sono riuscito a dare ai miei clienti cosa si aspettavano da me? Il sovrintendente ha tutte le responsabilità e ne deve rispondere al pubblico. Chi viene a teatro in parte lo spettacolo lo ha già pagato, e anche chi non viene, perché ci sono soldi di tutti. Bisogna dimostrare attenzione».


 Si sente un cervello di ritorno? «No, perché non mi sento uno che è scappato. Se così fosse, non sarei dovuto tornare. Sono un cittadino del mondo, ho doppia nazionalità, a casa, con mia moglie e i figli, a tavola parliamo quattro lingue diverse. Non sono un Ulisse. Avevo un'opportunità ed era in Italia. Spero di rimanere un certo numero di anni per vedere i frutti del lavoro fatto».

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lunedì 14 marzo 2016

MODA & MODI

Demna e Issey, la rivoluzione si fa senza parole


Demna Gvasalia e Issey Miyake. Il primo è il designer di cui la moda è stata presa da repentina infatuazione, il giovane georgiano poco più che trentenne “scoperto” da ITS a Trieste nel 2004, oggi a capo del suo brand “Vetements” e anche direttore artistico di Balenciaga. La prima collezione dal suo insediamento nella storica maison ha appena sfilato a Parigi, mandando in visibilio i commentatori.






Balenciaga: prima collezione firmata da Demna Gvasalia (f. Monica Feudi)

Dell’altro, del maestro Miyake, 78 anni, uno dei pochi designer che il New York Times ha definito “genio”, si aprirà il 15 marzo al National Art Center di Tokyo la mostra “The work of Miyake Issey”. Cognome prima del nome, una scelta voluta proprio da lui per prendere le distanze dal suo marchio e riandare invece all’essenza del percorso artistico, di intuizioni riconducibili sempre alla stessa matrice: semplicità, eleganza, pulizia.



 
Marzo 2016: autunno inverno 2016/17 Issey Miyake


Non hanno niente in comune l’enfant prodige Demna e uno degli ultimi grandi della moda, che, sopravvissuto all’atomica sganciata sulla sua città natale, Hiroshima, quando aveva sette anni, ha esorcizzato l’orrore delle memorie nella purezza delle linee, comprensibili al primo sguardo, a tutti. Niente in comune, se non il condividere spazi delle cronache fashion di questi giorni, inversamente proporzionali al loro peso.


Si grida al miracolo per Gvasalia, per l’impresa di aver contaminato il dna del visionario Balenciaga con lo streetwear della sua generazione. Tailleur rivisitati enfatizzando a dismisura i fianchi, plateau altissimi, camicione su gonne di tweed, bomber e pelliccette. Per capire quest’operazione, marchio storico più linfa nuova, bisogna passare per la creatura di Gvasalia, Vetements. Così almeno ci spiega l’autorevole commentatrice Suzy Menkes: abiti meno lussuosi, più avvicinabili, più adatti al mondo duro di oggi.


 
Balenciaga secondo Demna Gvasalia (foto Monica Feudi)


 

Nel ’91 Miyake inventò Pleats Please, tutta una linea di pezzi di poliestere plissettato a caldo, che prendono la forma del corpo, si lavano in lavatrice e si asciugano in mezz’ora, non perdono la piega nè il colore, non vanno mai fuori moda perchè non hanno moda.

 
Pleats Please nell'interpretazione del fotografo Yasuki Yoshinaga








L’evoluzione è stata A-poc, acronimo di A piece of Clothes: un tubo di stoffa cucita da tagliare e modellarsi addosso a piacimento.




Durante il maggio francese Miyake lavorava con Laroche e Givenchy: «Ho capito il quel momento che il vestito deve essere concepito come un elemento che riflette lo stile di vita della gente e fa cadere le barriere tra generazioni».
La rivoluzione, anche nella moda, non ha mai bisogno di tante parole.

twitter@boria_a

leggi anche:
http://ariannaboria.blogspot.com/2016/03/la-mostra-issey-miyake-making-things.html

http://ariannaboria.blogspot.com/2015/10/gvasalia-dalla-passerella-di-trieste.html

http://ariannaboria.blogspot.com/2015/10/demna-gvasalia-trieste-giurato-its-2015.html





martedì 8 marzo 2016

IL PERSONAGGIO


Bruno Chersicla, un mondo di legno all'asta

 
Lo scultore triestino Bruno Chersicla, morto nel 2013 a 76 anni


Tra qualche giorno, alla casa d’aste Stadion di Trieste (www.stadionaste.it), vedrete la mostra di Bruno Chersicla che non vedrete mai. Un’immersione magica, divertente, commovente e ironica in tutto il mondo creativo dello scultore e pittore triestino, scomparso tre anni fa, il 3 maggio 2013. Da allora non è mai stato ricordato dalla sua città natale. Sepolto nell’oblio già al funerale, disertato da tutti i pubblici amministratori.
Sono circa centosessanta, tra dipinti e sculture, le opere di proprietà dell’erede, la compagna Melitta Botteghelli, che andranno all’asta alla Stadion il 15 aprile 2016. L’intero atelier di Chersicla, finora conservato a Zoccorino, in Brianza, nell’ex filanda diventata casa e laboratorio dell’artista alla fine degli anni ’60. Un colpo d’occhio straordinario nelle sale della Stadion sulle Rive, dove in questi giorni sono in corso i preparativi per il catalogo, le foto dei lotti, la predisposizione dell’allestimento migliore per “cerambici”, “baroki”, ingranaggi e teste, medaglioni e disegni, e per l’esercito di legno delle sue imponenti sculture, che saranno visibili al pubblico da sabato 9 aprile.

Quasi mezzo secolo di colori, di invenzioni, di rigore e fantasia, che hanno fatto di Chersicla, premio San Giusto d’oro 2009, pitto-scultore, scenografo e jazzista, un artista inconfondibile nel panorama nazionale e non solo. Con mostre a Chicago, Miami, Buenos Aires, Vienna, New York, Losanna, Toronto, Lubiana, Atlanta, Houston, quest’ultima tra le prime città a tributargli un omaggio post mortem, con pezzi provenienti da collezioni private.


Bruno Chersicla Nel 1996

«Ci ho pensato a lungo, è stato difficile prendere questa decisione e sicuramente non sto bene» dice Melitta Botteghelli, per trent’anni compagna di Chersicla, che la maggior parte delle opere esposte alla Stadion le ha viste nascere, le ha vissute. «Al funerale - prosegue la signora - non c’era nessuna autorità, sono rimasta esterrefatta. Dopo la sua morte è calato il silenzio, l’indifferenza totale. Il Comune non si è mai fatto vivo con me, Chersicla è stato completamente dimenticato. Così ho deciso. Per me sarebbe difficile gestire una mostra da sola, vivo in due, tre città diverse. Allora mi sono detta: voglio offrire ai triestini la possibilità di avere un Chersicla in casa».
Melitta Botteghelli non ha mai parlato pubblicatamente, detesta la pubblicità. «Ma mi vergogno della mia città - dice - mi vergogno dell’indifferenza dei politici. Chersicla mi aveva avvisato su quello che sarebbe successo dopo la sua morte. Conosceva perfettamente Trieste e sapeva di morire. Così mi ha lasciato carta bianca su come comportarmi. Nel novembre 2014, un anno dopo, il Comune di Parma gli ha dedicato una mostra stupenda. E io ho organizzato un concerto jazz con grandi nomi. Avrei voluto che succedesse anche a Trieste. Purtroppo, però, questa città è freddissima con i suoi figli, con i suoi grandi rappresentanti come Luttazzi, come Strehler. E se non sei ammanicato con qualcuno, non succede niente».
Una vendita in blocco sembra una violenza, uno strappo definitivo con Trieste, città alla quale Chersicla rimase sempre legato, riferimento culturale, sostanza della sua arte e della sua visione della vita. “Mulo” di San Giacomo, dove mosse i primi passi artistici nel retrobottega dell’osteria dei genitori in via San Marco, conservò sempre quello studio, vicino - gli piaceva ricordare - all’ultima abitazione di Joyce. «San Giacomo - si legge nel catalogo edito da Electa in occasione della mostra del 1994 ai Chiostri di San Domenico a Reggio Emilia - è un’isola nella città. Ci ho trascorso la mia infanzia. Ho in mente ancora i cortei degli operai dei cantieri navali, con le loro tute blu, il volto e le mani imbrattati di olio nero, che venivano su da via San Marco. Ecco, San Giacomo mi è necessario per certe fughe. È qui che scompaio ogni tanto a trarre delle conclusioni...».


 




 
Le opere di Bruno Chersicla alla casa d'aste Stadion di Trieste (courtesy Patrizia Degl'Innocenti)


Conclusioni, appunto. Il 15 aprile, sicuramente quelle del rapporto tra Chersicla e le istituzioni, a meno che qualche fondazione bancaria non acquisti in blocco una parte dell’atelier per donarla ai musei cittadini e permettere a tutti i triestini di godere ancora dell’opera del loro celebre concittadino. Accadde per la scultura di Strehler, nel 2014, acquistata dalla Fondazione CrT (e riscattata da un’altra vendita all’asta) per donarla al Rossetti, dov’è in mostra nel foyer, per interessamento di Guido Botteri. Ma è più probabile che dopo il 15 aprile, i quadri e le sculture di Chersicla entrino nelle collezioni private, di tanti autoctoni e degli estimatori dal resto d’Italia e dall’estero, privati e gallerie, che si sono messi in contatto con la Stadion non appena la notizia dell’asta ha cominciato a diffondersi.


 
La scultura di Strehler donata dalla Fondazione CrTrieste al Rossetti di Trieste



«In realtà - spiega Furio Princivalli - questa è la mostra tanto promessa a parole e mai realizzata. Dopo la morte di Chersicla ci sono stati molti contatti, con il Comune e anche con la Provincia, ma non si è mosso niente. La vendita nasce da questa grande delusione. È un unicum assoluto. Noi abbiamo gli scaffali pieni di proposte d’asta di interi atelier, ma ne scegliamo pochissimi. L’abbiamo fatto con Pedra Zandegiacomo, con Dino Predonzani e con Ugo Carà, di cui è andato tutto venduto».
Predonzani, Carà, artisti di cui Chersicla seguì i corsi di decorazione e arredo navale all’Istituto Nordio di Trieste, all’epoca presieduto da Marcello Mascherini, dove si diplomò. Il cerchio si chiude. Dirà spesso - ed è riportato in molti cataloghi - di essere stato, al suo debutto, indeciso tra “tre donne”: decorazione delle navi (aveva cominciato già da studente sulla Raffaello, la Galilei, la Oceanic, l’Eugenio C.), musica (l’amato contrabbasso, che studiò al Conservatorio) e pittura.


"La modella" (a destra) e altre sculture nella foto di Massimo Silvano per Il Piccolo

Queste sue passioni ci vengono incontro con forza dagli spazi della Stadion. Le grandi sculture, innanzitutto, alcune delle quali, come l’Euron del 1989, il Designer del 1993, L’edonista del 1991, furono esposte al Museo Revoltella nella mostra organizzata tra il 1997 e il 1998 dall’allora assessore alla cultura e vicesindaco della giunta Illy, Roberto Damiani. L’allestimento fu curato anche dall’amico Enzo Cogno, con cui Chersicla partecipò, agli esordi, al gruppo triestino d’avanguardia “Raccordosei” e all’esperienza di “Arte viva”.
Al Revoltella entrarono poi “La modella (Biancamaria)”, divertente nudo integrale del 1982, e l’animale fantastico “Chimera d’Arezzo” del 1985, tutti in legno africano okoumè marino, che Chersicla dipingeva ora con delicatezza ora con intensità, materializzando il suo universo come un gigantesco gioco a incastro, sempre trasformabile, scomponibile. Sono in vendita, come una delle opere più famose, il “Rossi di Vejo” dell’82, con la testa del calciatore Paolo Rossi, goleador dei Mondiali di calcio in Spagna, sull’Apollo etrusco di Vejo. Le opere più grandi partono da una base d’asta tra i 2500 e i 3000 euro, la fantasiosa chimera è intorno ai 1500.
Più in là, molte sculture-ritratto della serie “Spitzenkongress”, congresso di uomini di punta, che Chersicla realizzò a metà degli anni Settanta: Duchamp, Depero, Brecht, Klee, Apollinaire, Manzoni, Carducci, Majakovskij. Riferimenti culturali, ma anche divertissement come Arsenio Lupin, Monna Lisa, Dick Tracy. Saranno battute all’asta partendo da una cifra che si aggira sui 600 euro.
Tanti i disegni dedicati agli amici, alle città del mondo, i lavori degli anni ’60, dove già il legno si inserisce tra i pigmenti, creati dallo stesso artista. Molti triestini riconosceranno i tratti di quel gigantesco graffito in piazza Unità del 2000, che fece entrare Chersicla nel Guinness. Si misero in fila in migliaia per colorarlo, era un singolare addio al salotto buono prima del rifacimento della pavimentazione che l’avrebbe sottratto a lungo ai cittadini.



 
Il graffito di Bruno Chersicla in piazza Unità a Trieste





Chersicla artista scomodo, politicamente non allineato? «Non so», risponde Botteghelli. «Trieste si ricorda dei suoi figli quando sono vecchissimi o morti da tempo. Io non ho tempo di aspettare. Sono molto scettica e non me ne importa nulla. Ma se il Comune in futuro si sognerà di fare una mostra su Chersicla, dovrà raccattare in giro le sue opere casa per casa».

Bruno Chersicla in una splendida immagine di Maria Luisa Runti


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venerdì 4 marzo 2016

L'INTERVISTA

Gad Lerner: "La morte di Giulio Regeni ha fatto crollare le nostre illusioni"



Gad Lerner, uno degli ospiti di punta di Bookfest a Trieste



Bombardati dalle informazioni, connessi ventiquattro ore al giorno a qualche erogatore smart di notizie, sprofondati in blog e contenitori vari online, rischiamo di perdere lucidità nel distinguere la qualità di quello che leggiamo (sempre meno) ma soprattutto di quello che ascoltiamo e vediamo. Di chi ci possiamo fidare in un luna park mediatico sempre più aggressivo? E quali sono le basi su cui si costruisce un’informazione che non sia usa e getta?

Ne parlerà sabato 5 marzo, alle 18, nella sala Piccola Fenice di Trieste, uno degli ospiti di punta di Bookfest, Gad Lerner, giornalista che ha ricoperto incarichi di vertice nella carta stampata e nella televisione pubblica e privata, scrittore e conduttore. “Informazione mondiale e informazione locale: di chi possiamo fidarci? La multiculturalità nel mondo dell’informazione” è il tema del suo intervento, stimolato dalle domande del collega Giampaolo Mauro.
Sentiamo Gad Lerner.
 

Credibilità dell’informazione, un tema impegnativo...«Oggi viviamo una grande contraddizione: c’è una sovrabbondanza di informazione, ma nello stesso tempo stiamo perdendo le risorse per renderla autorevole e indipendente. L’informazione è più diffusa, ma è altrettanto svalutata nella sua capacità di sostenersi. Assistiamo a una crisi inarrestabile delle risorse attraverso cui si può consolidare la credibilità».

Media sacrificati al profitto? «È anacronistico pensare che tutto sia affidato all’iniziativa privata che punta all’utile. Sappiamo che si sta profilando una falcidie della carta stampata e della tivù generalista. Quindi questa fioritura di informazione in tempo reale non pare potersi affidare a professionisti autorevoli, ben retribuiti, che siano messi nelle condizioni di viaggiare, di studiare, di approfondire. Non vorrei sembrare apocalittico, ma chi la farà? Forse, in questo quadro, l’informazione locale ha maggior respiro, perchè la pubblicità sul territorio ci sarà sempre, ma per gli altri media si prevede una semplificazione brutale».


Dunque il problema è che sta sparendo la qualità? «Per i giovani oggi c’è una formidabile opportunità di dedicarsi all’informazione, senza però alcuna garanzia di farne un mestiere con cui campare. Tutti possono improvvisarsi giornalisti, ma dal flash all’approfondimento, all’autorevolezza, alla credibilità, ci corrono tempo, studio, viaggi. Quindi è di nuovo necessario il riconoscimento dell’informazione come bene comune, con impiego di risorse pubbliche per renderla indipendente e autorevole. Il rischio, altrimenti, è il prevalere della logica del profitto e la concentrazione in pochissimi editori internazionali. Non vedo il ricambio tra i grandi professionisti del passato, i patriarchi, che avevano carriere lunghissime e un patrimonio di decenni di incontri, di conoscenze, di cultura. Basteranno immagini e video a sostituirli? O il bisogno di approfondimento resterà inevaso?».


Non è solo una questione di scontro tra web e giornali? «No. La vera incognita del web è che nessuno al mondo ha scoperto il metodo con cui un giornale online può autofinanziarsi. Pochi hanno abbondamenti alle edizioni web. Il Corriere ora prova con le notizie a pagamento, mi pare che nel primo mese abbia raggiunto 26mila abbonamenti a 5 euro al mese. Può darsi che sia il futuro dell’informazione autorevole, ma l’Independent ha chiuso... Forse ci abitueremo a pagare il web, certo per i giovani è inconcepibile. In più la pubblicità online è sequestrata da pochissimi colossi mondiali, Google, Facebook. L’autorevolezza ha bisogno della carta, che resta comunque per ricchi, mentre la grande massa corre il rischio di essere asservita ad altri scopi...».


Un esempio? «Il più grande sostenitore di Netanyahu è il re delle case da gioco di Las Vegas che gli offre un giornale gratuito, Bibi News, strumento di propaganda potentissimo. È chiaro che il giornalismo di inchiesta soccombe. Dobbiamo ricordarci che l’informazione è un bene comune, irrinunciabile per la democrazia. Ed è un problema di democrazia garantirle risorse. Non parlo di sovvenzioni pubbliche, ma di creare le premesse strutturali perchè i giornali siano autorevoli».


Che rapporto vede tra i diversi canali informativi? «Non c’è dubbio che il futuro sta nell’integrazione. Ovvio che sulla carta non vai più per scoprire cosa è successo ieri, i grandi eventi si sanno in tempo reale, forse con l’unica eccezione dei giornali locali, verso cui c’è ancora la curiosità del fatto. La carta può dare l’interpretazione, l’approfondimento, i retroscena, la controinformazione, ma sono necessarie garanzie di qualità. Inoltre il giornale viene concepito come un qualcosa che si aggiorna più volte nel corso della giornata. “Repubblica” è la sola in Italia che ha una redazione sulle 24 ore, ma è una tendenza inevitabile. Anche i commentatori oggi devono intervenire subito sui fatti per l’edizione online».


Che idea si è fatto del caso di Giulio Regeni? «È un sassolino nell’ingranaggio delle nostre illusioni. Quelle di contenere la minaccia dei conflitti sulla sponda sud del Mediterraneo affidando il contenimento di società incandescenti a dittatori. Pensiamo che siano popoli immaturi, inadatti alla democrazia, alla dialettica, a gestioni simili a quelle di casa nostra e che per loro funzionino solo i despoti, i rais, i regimi. Ma il mondo si è intrecciato e un ragazzo di talento può rimanerne stritolato. Al-Sisi ha rivelato il suo vero volto. Ed è importante che l’Eni non si limiti a sperare che lo scandalo duri poco, ma abbia dichiarato di farsi carico del dolore della famiglia. L’avrà sollecitato la Farnesina ma è anche prova di intelligenza e di sensibilità culturale dei manager del gruppo. Il petrolio si trova sempre in luoghi infernali per assenza di democrazia e tensioni sociali. Ora non possiamo più fingere di infischiarcene, di tener separati i problemi. Grazie al cielo. E questo è un merito dell’informazione».



Verità per Giulio Regeni sul municipio di Trieste



Spotlight” ha vinto l’Oscar per il miglior film. Un Oscar al giornalismo che non esiste più... «Torniamo al punto da cui siamo partiti. Grandi professionisti, tempo per la ricerca... Solo così nasce un’informazione che dà un contributo alla democrazia e alla  legalità».


Michael Keaton e Mark Ruffalo in "Spotlight", Oscar per il miglior film straniero 2016


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