sabato 2 aprile 2016

 LA MOSTRA


 Anita Pittoni tra le Women in Italian Design alla Triennale di Milano



Il cappellino di lana rossa firmato da Anita Pittoni in mostra al Triennale Design Museum (foto di Laura Vasselli)





All’inizio del design c’erano le donne, anche le donne. Filavano, tessevano, intrecciavano, modellavano la ceramica, lavoravano il legno, inventavano forme e soluzioni dell’abitare e del vestirsi, spesso confinate tra le mura domestiche o, comunque, non riconosciute dai partner maschi. Tanto più se dal merletto passavano alla motocicletta, dai fili ai metalli, come racconta il libro di Anty Pansera, storica dell’arte e del design, una delle prime ad avventurarsi in un territorio presidiato dagli uomini.
Ora la ventunesima esposizione della Triennale di Milano (http://www.triennale.org/), che si è aperta ieri al pubblico e resterà visitabile fino al 12 settembre, rende omaggio ai contenuti della differenza di genere nel design del Novecento, ricostruendo personaggi, teorie, stili e attitudini progettuali seminati dalle donne nel corso del secolo e destinati a evolversi, ad affermarsi e trasformarsi in quello successivo.
W. Women in Italian Design” s’intitola la nona edizione del Triennale Design Museum (quest’ultima sarà aperta fino al 19 febbraio 2017) a cura di Silvia Annichiarico e con allestimento ideato da Margherita Palli, che hanno raccolto le circa 350 protagoniste dei primi passi e poi dell’avventura vincente del made in Italy italiano nel mondo. Donne artiste, arredatrici, artigiane e architette, ignorate da storici e teorici, ma che «a vario titolo e sottotraccia - dice la curatrice - hanno contribuito a dare forza ulteriore alla gloriosa storia del design italiano».


 
La sciarpa firmata Anita Pittoni e appartenente alla collezione della triestina Giuliana Dolfi


 

Tra le “proto-designer”, le pioniere di questa progettualità diversa, c’è la triestina Anita Pittoni, di cui alla Triennale sono esposti tre manufatti e un quadernino datato al 1929, selezionati dalle storiche dell’arte Laura Vasselli e Rossella Cuffaro che, già due anni fa alla Triennale, in occasione della mostra “Il design italiano oltre la crisi. Autarchia, austerità, autoproduzione” nel settimo Design Museum, e prima ancora ai “Futurismi di frontiera” di Gorizia (2009) avevano presentato i manufatti di Anita.
L’album di disegni di moda e per tessuti, senza data nè firma, è proprietà della “Wolfsoniana” di Genova, collezione di arredi, oggetti, manifesti, progetti e libri donata alla città dal filantropo statunitense Mitchell Wolfson e oggi inserita nel circuito dei musei. È composto da venti pagine, rilegato in tela blu, e contiene dodici bozzetti per cuscini, ventidue per gilet e pullover, quattro prospettive geometriche per pannelli a intarsio e quattro teste femminili con cappelli a calottina. «Le decorazioni futuriste della Pittoni - spiega Vasselli - presentano una tecnica simile ai motivi di Depero». Alcuni bozzetti, realizzati in panno a intarsio, a ricamo e all’uncinetto, sono noti dalle immagini dello Studio fotografico Wultz di Trieste conservate nel Museo dei Fratelli Alinari di Firenze.


 
Il logo di Anita Pittoni sulla sciarpa rossa di Giuliana Dolfi


 

È griffata Pittoni anche la gonna “zingaresca” in filato di juta realizzata all’uncinetto per Wanda Wulz, parte della collezione estiva dei completi da spiaggia e giardino del 1938, di cui manca la fascia prendisole. Oggi è di proprietà di Alice Zen, che l’ha ricevuta in dono dalla stessa Wanda. Gli accessori sono più recenti: un cappello femminile di lana rossa ad aletta, fatto all’uncinetto, con etichetta dell’artigiana e databile al 1940, e una sciarpa a canestrelli anch’essa di lana rossa all’uncinetto, circa del 1966, che appartiene alla collezione di Giuliana Dolfi, di cui Pittoni frequentava la casa di famiglia. «Abbiamo inviato a Milano - raccontano Vasselli e Cuffaro - la proposta di una quindicina di pezzi. La selezione è stata fatta direttamente dalle curatrici della Triennale». Non è stato scelto, almeno per questa volta, ma è al sicuro nelle collezioni dei Musei civici triestini, un abito perfetto, “riconosciuto” come della Pittoni dalle esperte comunali e acquisito di recente da una rigatteria di via Diaz che ormai ha chiuso.

L'abito perfetto firmato Anita Pittoni acquisito di recente dai Musei civici triestini. Era nella vetrina di una rigatteria

Negli anni Trenta sono poche le donne che riescono a emergere nel campo delle arti applicate. Di solito apprendono, in casa, a cucire con precisione e pazienza, a sferruzzare e uncinettare oggetti di uso domestico, meno di frequente studiano all’Accademia di Belle Arti o in istituti e poi facoltà tecniche, frequentano gli atelier o avviano una loro attività. È difficile che si ritaglino un ruolo da protagoniste. Se accade sono compagne o parenti di qualcuno dell’«ambiente» come Rosa Menni, moglie del critico Raffaello Giolli, che dirige un laboratorio di tessuti, o la goriziana Elvira Morassi Bernardis, sorella del critico d’arte Antonio Morassi, una delle due donne che si laureano in architettura nel 1928 al Politecnico di Milano, o la veneziana Bice Lazzari, che collabora con architetti e disegna arredi per navi, locali, case private.
La consapevolezza delle donne che sanno incrociare con abilità manualità e arte comincia a maturare nelle Case d’Arte futuriste, strutture produttive che stanno economicamente in piedi solo grazie al silenzioso e sottovalutato lavoro d’ago femminile. Le donne sono coinvolte nei progetti di partner o familiari maschi soprattutto per necessità. Rosetta Depero, moglie di Fortunato, non firma mai le sue opere, e delle due figlie di Giacomo Balla, Luce ed Elica, solo quest’ultima ha talvolta una sua visibilità.
Per Anita Pittoni è diverso, ricordano in un saggio inedito Vasselli e Cuffaro. Anche l’artigiana triestina incomincia collaborando con celebri futuristi, non solo in città. Per l’amico Marcello Claris, ad esempio, cuce un abito di panno a intarsio da lui ideato per la I Esposizione del Sindacato delle belle arti e del Circolo artistico del 1927. Ma Anita rivendica da subito spazi personali e l’ago e l’uncinetto, nelle sue mani, diventano strumenti per affermare il suo processo creativo. «La mia pratica artistica ed artigiana - dice in “Note autobiografiche” - non è frutto di scuole d’istruzione particolari. Feci tutto da me. Riinventai quelle tecniche umili e casalinghe che la Mamma m’aveva insegnato fin da piccola (era, la nostra, una mamma all’antica) e che gli studi classici non avevano fatto nè dimenticare nè disprezzare. Così, quando “scesi in campo”, utilizzai quello che sapevo, senza alcuna tema che fosse troppo umile per i miei sogni».
Design meno asseverativo, meno autoritario, più spontaneo e dinamico. Questo vuol celebrare il Triennale Design Museum. Una creatività femminile ironica e audace, anticipatrice. Anita Pittoni aveva creato il “punto alto leggero ad intarsio”, nuova tecnica per ottenere tessuti a maglia con una perfetta scansione orizzontale, verticale e obliqua. Nel 1940 “Domus” pubblica il copritavolo di Casa Banfi: un intreccio di sottilissimi fili di canapa naturale e lamina d’argento lavorato a ferri grossi, compone riquadri di diversa intensità e grandezza, quasi un’architettura razionalista.



Anita Pittoni


Le proto-designer come Anita Pittoni è immersa nel suo tempo, ma lo rilegge con leggerezza. «L’arte nelle nostre opere - scrive sulla rivista “Lil” nel 1934 - sarà tanto più intensa quanto più sarà ricca la nostra vita interiore. Anche il più umile oggetto al quale abbiamo dato forma deve rispecchiare il nostro proprio mondo. Impariamo a vivere, non perdiamo il senso della vita - restiamo tra terra e cielo - radicati al fertile suolo e protesi verso l’alto; vivendo intensamente creiamoci la nostra filosofia...».


leggi anche: http://ariannaboria.blogspot.com/2015/06/anita-pittoni-designer-futurista.

http://ariannaboria.blogspot.com/2015/06/futuranita-apre-trieste-alla-drogheria.html

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