sabato 28 maggio 2016

 IL LIBRO

Nell'altra Italia, Topolò è un simbolo delle nostre paure




Antonello Caporale, giornalista de "Il Fatto Quotidiano"




Ci sono storie che restano nei taccuini di un cronista, perchè non entrano nello spazio fisico di una pagina. Dettagli, luoghi, momenti giudicati “superflui”, “non utili” “non imprescindibili” per l’articolo, ma che, magari riletti a distanza di tempo, raccontano altre storie. E come uno scarto alimentare può diventare una nuova ricetta, anche più gustosa dell’originale, da questi appunti sedimentati sulle pagine può cominciare un altro viaggio, che ci mostra una geografia diversa del paese in cui viviamo.

È successo ad Antonello Caporale, per ventidue anni giornalista di “Repubblica” e oggi al “Fatto Quotidiano”, autore di molti libri, di un docufilm e di reportage alla ricerca dei mali d’Italia. A distanza di tre anni dall’ultimo viaggio, Caporale ha ripreso in mano la sua “valanga di taccuini”, si è soffermato sulle note e le riflessioni, sui posti e sugli uomini, e ha cominciato a scrivere “Acqua da tutte le parti” (Ponte alle Grazie, pag. 295, euro 18,00), un percorso con le spalle al mare, verso l’interno del paese, scoprendo - racconta - «cose orribili e meravigliose, personaggi nefasti e straordinari, che danno il senso di ciò che siamo», dell’Italia che eravamo e che siamo diventati, che è piena di falle ma resta a galla.





Quindicimila chilometri da un capo all’altro dello stivale, annotando vagoni e binari morti, come a Gioia Tauro per esempio, dove la capotreno vende i biglietti per i bus, o, al contrario, buchi spaventosi nella montagna fragile e nelle casse pubbliche, altrettanto dissestate. Succede nella valle del torrente Polcevera, per scavare la sesta linea di valico di una Genova che intanto sprofonda nell’acqua e nel degrado geologico. Si fa la piscina, mentre piove dal tetto: sei miliardi e 200 milioni di euro per far arrivare più in fretta le merci - quando tutto sarà finito, se mai lo sarà - verso il mare del Nord.


Eccola quest'altra Italia, di mobilità interrotta, di moncherini di ferrovie, di sprechi, di devastazioni. «In cui - dice Caporale - «siamo più poveri e più disgraziati. Abbiamo territori vergini dove si potrebbe vivere meglio e con meno soldi e basterebbe un treno, che non è solo un veicolo ma anche un connettore di coscienze, a portarci nella metropoli a lavorare». Invece, mentre paesi si spopolano e case crollano, a Rosignano Solvay la gente passeggia su una spiaggia che pare tropicale ed è tutta chimica, si rilassa in uno scenario da spot dove niente è come sembra e il bianco è tossico, «perchè - spiega Caporale - oltre alla coscienza del tempo, abbiamo perso la misura della nostra salute e delle condizioni del nostro sviluppo».


I tropici tossici di Rosignano Solvay


Da queste parti, nel Nordest che non è più tanto da bere, il giornalista ha fatto tappa nel triangolo degli outlet, Mestre-Marghera-Villorba. E anche qui ha trovato spunti per il suo viaggio "amaro e indispettito". Chilometri di rotatorie commerciali, orbite spaventosamente vuote, dove la gente va solo a prendere l’aria condizionata, un’autostrada deserta «alla frenesia della ricchezza che non trova nemmeno la capacità di assestarsi». Nè il tempo per essere metabolizzata e fruita, «perchè il tempo di Internet, della comunicazione istantanea, non risolve la nostra esistenza. I nuovi lavori non hanno il valore economico di quelli di prima, siamo frullati in questa condizione e abbiamo paura del futuro».


Sulle tracce della paura, Caporale è arrivato a Topolò, nelle valli del Natisone, quel borgo che lui chiama una “criniera di pietre” in bilico lungo la linea di confine con la Slovenia, per decenni il confine tra il mondo comunista e l’Occidente libero, prima ancora il confine tra il mondo latino e il mondo slavo. Un borgo di un paio di decine di anime che, con la sua “Stazione” estiva e l’ospitalità agli artisti, si è nuovamente aperto all'esterno. «Topolò - racconta Caporale - è un sentimento, un punto d’arrivo, un punto di vista, un mito. Ci sono luoghi sconosciuti che dovremmo rendere centrali. Topolò è uno di questi, una meta “necessitata”, un monito. Bisognerebbe dire: venite a vedere da dove in passato si guardava il nemico. Topolò è un simbolo, perchè ora, con la crisi economica, siamo nelle stesse condizioni. Lì si è vissuta la paura dell’altro, di un’invasione di umani che verranno a schiacciarci, contro cui costruiamo muri come quello improvviso e imprevisto del Brennero».


 
Topolò, nelle valli del Natisone


Poi una meta friulana, Cassacco, insieme al poeta Pierluigi Cappello che, ai tempi del terremoto del Friuli, quarant’anni fa, aveva circa gli stessi anni di Caporale, testimone del sisma dell’Irpinia. Friuli «modello di un voler bene al proprio territorio, di un sentimento, di un attaccamento che altrove non c’è». Ma anche, registra il giornalista, esempio di un mondo contadino cancellato con violenza, dove sono piovuti i soldi e i termosifoni hanno sostituito i camini, i Suv i trattori e gli arnesi del lavoro tramandati da generazioni, e gli ipermercati, le concessionarie, i mobilifici hanno inghiottito la terra. In pochi secondi, mille morti, poi la cesura culturale ed economica. «La ricchezza improvvisa ti dopa, fa cambiare i connotati e diventare più poveri, estranei a se stessi. Dalle mie parti - conclude Caporale - arrivano le patate surgelate... È cambiata l’orografia dei volti, come se avessimo imballato le persone in un mondo nuovo, in centri commerciali senza identità, senza cura, senza parole».


Il poeta Pierluigi Cappello



Gli fa eco Cappello, raccontando la vicenda di un uomo, classe 1930, traumatizzato dal sisma, cui facevano la logopedia in italiano. In friulano nominava le parole con precisione assoluta, in italiano - lui, con appena la terza elementare - ne conosceva forse cinquecento. Questo è stato, anche, il terremoto: la scomparsa repentina di una grammatica interiore, la capacità di nominare e di andare dentro le cose. L’erosione di un patrimonio, di un sapere umanistico.
@boria_a

mercoledì 25 maggio 2016

L'INTERVISTA

Franco Però: "Porteremo in scena a Trieste Emilio Comici e i grandi alpinisti"




Franco Però fotografato da Francesco Bruni per Il Piccolo di Trieste



Il Teatro Stabile chiude con un leggero avanzo di bilancio. Al termine della prima stagione firmata interamente da lui, il direttore Franco Però ci tiene a dirlo subito. E aggiunge che l’aumento nelle produzioni è sì un obbligo imposto dalla nuova legge, «ma anche una precisa volontà». In sostanza: si è puntato sulla qualità delle proposte, su spettacoli complessi e costruiti, non su monologhi da portare in giro per far numero e arginare la legge. «È stata una stagione molto proficua, deliziosamente fastid... faticosa, superata grazie alla disponibilità di tutto lo staff del Rossetti», esordisce Però, con un lapsus che la dice lunga sullo stress del primo anno. «Il resto è stato “scremare”, chiarire che cos’è la prosa e che cosa sono gli altri linguaggi del teatro».

Il Piccolo ha titolato “Meno musical più cultura” quando lei si è insediato... «Non è il modo corretto di porre la questione. Il teatro è sovvenzionato per la prosa. Nel Rossetti, poi, convivono due realtà, quella di teatro Stabile regionale e quella di teatro municipale della città, quindi produzione propria e ospitalità di altre compagnie. Vedendo tante forme diverse di spettacolo il pubblico si è certamente arricchito e abituato a linguaggi diversi, ma quest’anno, avendo una compagnia nostra, giocoforza abbiamo un po’ ridotto le ospitalità per fare scelte più mirate. In futuro cercheremo di dare un ritmo e di rispettare un certo numero di giorni in cartellone, sei per i nostri spettacoli, 5 per gli altri, 3 al Miela, con cui collaboriamo. Faremo con più continuità teatro di ricerca e daremo attenzione anche alla danza contemporanea».


I musical? «Ci saranno. Vedremo quanti e quali, ma non scompariranno dal cartellone. Piuttosto vorrei ci fosse un certo intervallo di tempo tra l’uno e l’altro. I musical sono complessi e portano via molte energie. Se le risorse del teatro sono tutte impegnate lì, si rubano al nostro scopo principale, che è la produzione».


Dopo la sua prima stagione, cosa si sente di correggere? «A Trieste il pubblico non va a teatro solo per l’attore che conosce. Ci deve essere un tema. Faccio un esempio: “Dipartita finale” aveva grandissimi interpreti come Pagliai, Tedeschi, Branciaroli, ma forse la “mediazione culturale” era troppo forte, non è stata colta. Quindi cercherò di scegliere con attenzione i temi che possano coinvolgere di più. Mi hanno colpito, per esempio presenza e gradimento sui testi di Amos Oz e Agota Kristof».


 
"Dipartita finale" con Ugo Pagliai, Gianrico Tedesci e Franco Branciaroli


Sta per debuttare un altro spettacolo dello Stabile... «Sabato 28 maggio a Venzone porteremo “Genius loci - Dov’era... com’era” dedicato ai 40 anni del terremoto, prodotto con la Regione e l’Associazione dei comuni terremotati e sindaci della ricostruzione del Friuli. Lo Stabile ritorna alle origini con una maggiore partecipazione sul territorio. Il testo è nato da una mia intervista a Zamberletti e il regista è Andrea Collavino, molto bravo, friulano, che è partito con grande entusiasmo su questo progetto, mettendo in relazione terremoto e classicità. La parte narrativa è affidata a Omero Antonutti, con Maria Grazia Plos e Riccardo Maranzana, la parte emozionale alla corale Portelli di Mariano del Friuli. Da parte mia e del teatro c’è grande volontà di lavorare con le realtà culturali e le persone della regione e della città. Dove c’è la possibilità di “partecipare”, noi ci siamo. È nato tutto con la “Notte blu” dei teatri in occasione della scorsa Barcolana. Trieste è la città del caffè, della scienza, ma con 300 mila biglietti venduti in un anno su 200 mila persone, direi che è anche la città dei teatri».


Sarete a Mittelfest? «Come l’anno scorso con “Scandalo”, porteremo lo spettacolo che poi aprirà la nostra stagione: continuiamo ad approfondire la conflittualità all’interno della famiglia, che è uno dei temi del momento. È “Knock out, Play Strindberg”, la riscrittura di “Danza di morte” di Strindberg da parte di Dürrenmatt, che trasforma il testo in un incontro di pugilato in undici round. Un testo violento, divertente, comico, grottesco, come un match tra tre personaggi: Franco Castellano, che era nel cast di “Scandalo”, Maurizio Donadoni, che è stato in scena al Rossetti con altre compagnie, e Maria Paiato, forse la più brava attrice italiana del momento. Sono tre professionisti con uno spettro di espressività, dal drammatico al brillante, come pochi altri. Continuiamo così la collaborazione con Mittelfest, una delle maggiori istituzioni culturali della regione».



Franco Castellano e Stefania Rocca in "Scandalo" di Schnitzler


E l’apertura in sala Bartoli? «Sarà a novembre con tutta la compagnia impegnata in “Das Kaffeehaus” di Fassbinder, riscrittura de “La bottega del caffè”. Un testo che testimonia la grande attualità di Goldoni e l’intelligenza con cui Fassbinder ha riletto la commedia, aumentandone la cattiveria. La regista è Veronica Cruciani, tra le più inquietanti del teatro contemporaneo, con la sua capacità di scavare nei temi più nascosti e urticanti di un testo. Ho visto un legame inconscio tra i registi che sono venuti a Trieste: si concentrano tutti molto sull’attore, seppure con modi diversi, senza che il lavoro registico prenda il sopravvento, ma sempre incarnandolo nell’attore. Non è stato subito semplice per la compagnia».


Com’è andata? «È stato faticoso sia per gli attori che per il personale del teatro. Un anno di rodaggio. La compagnia è costituita da professionisti di età diverse, che parlano a un pubblico di diverse generazioni, ma non si è più abituati a lavorare assieme e con registi che cambiano di volta in volta. È stata comunque positiva la scelta di attori del nostro territorio, ma tutti con esperienze non locali. Certo, c’è un rischio, che il pubblico si stanchi nel vedere sempre gli stessi volti. Eppure, siamo alla fine della stagione e di “Souper” potremo fare addirittura altre repliche. Magari la riprenderemo, la terremo in repertorio, la compagnia stabile esiste per questo... Anche se le ospitalità sono diminuite, con equilibrio nella programmazione si riesce a tener desta l’attenzione del pubblico».



"Souper"con la compagnia del Teatro Stabile del Fvg


Continuerà la collaborazione con lo Stabile sloveno? «Il regista Marko Sos
sta lavorando a un testo, “Paurosa bellezza”. Conosco il suo interesse per l’alpinismo e tempo fa gli ho mostrato la ristampa di “Alpinismo eroico” di Emilio Comici. Se ne è invaghito e sta costruendo una storia, un racconto che lega Comici a due personaggi forti nell’immaginario triestino come Enzo Cozzolino e Tiziana Weiss. Sos ha una scrittura onirica, immaginifica, non vedo l’ora di leggerlo. Su questo stesso testo, con lo stesso regista, saranno impegnate due compagnie, quella del nostro Stabile e quella dello Stabile Sloveno. Magari riusciremo a organizzare anche uno scambio nei due teatri. È un tipo di collaborazione che parte da un interesse comune e che funziona, è inutile ipotizzare megaprogetti che poi rischiano di non vedere mai la luce. Anche con il Dramma di Fiume realizzeremo “Racconti di costa e mare”, un collage di testi di autori triestini e istriani portati in scena da due attori della nostra compagnia e da due del Dramma».

Di questi tempi non sono molti i teatri che commissionano testi nuovi... «Appunto, vogliamo caratterizzarci anche in questo senso. Mi piacerebbe che Pino Roveredo lavorasse di nuovo sul suo “Cara creatura”, me l’ha chiesto anche Enrico Sbriglia, che ora dirige gli istituti carcerari del Triveneto, perchè è un testo che ha colpito molto i detenuti. E poi avremo un testo sulla scienza, lo scriveranno il fisico Guido Chiarotti e lo sceneggiatore Giuseppe Manfridi perchè lavorano bene su temi come finanza, economia e complessità».


Giorgio Strehler visto dallo scultore Bruno Chersicla: l'opera è nel foyer del Politeama Rossetti di Trieste


Nel 2017 sono vent’anni dalla morte di Strehler. Come lo ricorderete? «Vorremmo partire dai carteggi privati donati a Trieste dalla moglie e dalla compagna e che ora sono conservati nel fondo al museo teatrale. Strehler è morto nel dicembre 1997, quindi lo ricorderemo all’avvio della stagione 2017-2018. Penseremo a uno spettacolo che possa interessare e coinvolgere il pubblico, facendo “vivere” le sue carte, assieme al Museo Schmidl».


@boria_a

lunedì 23 maggio 2016

MODA E MODI

 Il plexiglass come una piuma




Alcuni pezzi dalla collezione Kryptonia da silviarossigioielli.com


Gli orecchini in vendita nel bookshop del Victoria & Albert Museum di Londra e in quello del Museum of Contemporary Art di Chicago nascono in un minuscolo laboratorio nascosto ai piedi del colle di San Giusto a Trieste, nella - sconosciuta ai più - via Piranella. 

Silvia Rossi, designer triestina con una solida formazione orafa e una lunga esperienza professionale a Milano e a New York alle spalle, li pensa e li confeziona qui, iniziando e lasciandosi guidare dal materiale, senza passare attraverso la fase del disegno, che definisce "troppo teorica".

Il materiale è il plexiglass specchiato e colorato, di alta qualità, che Silvia Rossi leviga, lucida, buca, seziona e assembla con il metallo, fino a ricavarne accessori coloratissimi, dalle forme geometriche e nette, orecchini ma anche bracciali e collane, in cui si incrociano molti riferimenti, secondo il gusto di chi li sceglie: bijoux tribali, che fanno pensare all'Africa, agli ornamenti degli indiani d'America, ma anche alle geometrie futuriste.

Collezione "Phoenix Tuileries"

Nonostante una propensione spiccata all'isolamento - «sono un animale da laboratorio, non ho mai lavorato per le firme, ho idee e so ricavarne dei prototipi», dice di sè - Silvia Rossi si è ritrovata sulle pagine moda di New York Times e Telegraph, su Glamour e C+ Accessoires, il magazine francese degli accessori, oltre che sulle più importanti riviste italiane, e i suoi gioielli da Trieste raggiungono molti paesi europei, e, più lontano, Giappone, Cina, Malesia, Stati Uniti.

Adesso però, oltre alla vendita all'ingrosso attraverso le fiere o mediata dai negozi, la designer ha deciso di presentare personalmente il suo lavoro, cominciando da quella piccola (ma in crescita) vetrina del design che è #Barbacanproduce a Trieste (www.facebook.com/Barbacan-Produce). «Il mercatino è liberatorio - dice Silvia Rossi - meno prestigioso ma più diretto rispetto al negozio. Qui in laboratorio alla fine c'è molta solitudine e ho scoperto che mi piace il contatto con la gente, gli do un valore più alto rispetto al passato. In fondo sono fasi della vita».

Un periodo di apertura all'esterno che si riflette nei gioielli, più aerei, mobili, «quasi piumati, meno vincolanti da portare», spiega lei.

Collezione "Bloom"






Dell’Haystack Mountain School of Crafts nel Maine, dove ha seguito dei corsi, restano nel suo laboratorio alcuni oggetti modellati in forme concave e convesse. Il lavoro sui metalli pesanti le ha insegnato precisione e delicatezza. Tutti gli altri pezzi, come una selezione di collane pronte a volare in Germania (a me ricordano vagamente una lingua di fuoco rovesciata, in una palette che incrocia verdi, rossi, oro e argento) , non hanno quasi peso, bastano le intersezioni di colore a imporli con il gioco della tridimensionalità.

Collezione "Chromatic Dreams" di silviarossigioielli.com


Collane a geometrie variabili - in una palette di tinte praticamente infinita nelle sue combinazioni - bracciali optical con inserti d’argento, anelli squadrati, bombati o trasformabili cambiando l’ordine delle verette. Ci sono anche piccoli orecchini-chicco, placcati con metalli preziosi.
www.silviarossigioielli.com
@boria_a

martedì 17 maggio 2016

 LA MOSTRA

Arte e Moda a Firenze, un secolo di intrecci: da Salvatore Ferragamo a Margiela



"Tirassegno décolleté" di Salvatore Ferragamo, 1958: camoscio con applicazioni in capretto a motivo di tirassegno (Museo Salvatore Ferragamo)


 
"Senza titolo" di Kenneth Noland, 1958 (collezione privata; per concessione Galleria Fumagalli Milano)



Anita Pittoni designer, interprete del manifesto della moda femminile futurista: forme nuove e materiali poveri. Germana Marucelli, la sarta intellettuale di Milano, che nel 1965 trasferisce sul corpo le sperimentazioni cinetico-visuali dell’artista udinese Getulio Alviani e inventa la linea “optical”. Mila Schön ispirata dai tagli di Lucio Fontana e dai “mobiles” dell’americano Calder, riportati su stoffa in una collezione di fine anni Sessanta in cui si fondono geometrie e minimalismo (scrivo anche qui di Mila Schön, Getulio Alviani e Germana Marucelli).

Il complesso rapporto tra arte e moda continua a ispirare interpretazioni. E la moda, senza complessi di inferiorità, a entrare nei grandi musei del mondo, dove si mette in dialogo con pittura, scultura, cinema, architettura, artigianato e design per leggere il tempo in cui viviamo e comprendere meglio il passato. Dal 18 maggio 2016, a Firenze, al Museo Salvatore Ferragamo (www.museoferragamo.it), capofila di un’operazione espositiva cui partecipano quattro istituzioni pubbliche, si apre una mostra tutta dedicata a questo tema, “Tra arte e moda”, dove, nei vari spazi, sono molti i riferimenti e gli intrecci con stilisti e artisti del Friuli Venezia Giulia: Alviani ma anche Gillo Dorfles, amico della Marucelli, la Pittoni, con i suoi “straccetti d’arte”, che fa parlare di sè sui giornali, la dalmata Mila Schön e la sua moda purista nutrita del segno dei contemporanei.



Gli abiti di Mila Schön ispirati ai "mobiles" di Calder (dalla mostra "Mila e la notte", Trieste, Salone degli Incanti, 2009)


Il progetto espositivo, curato da Stefania Ricci, direttrice del Museo Ferragamo, dalla storica della moda Enrica Morini, da Maria Luisa Frisa, critica della moda e direttrice del corso di laurea in Design di moda dello Iuav di Venezia, e da Alberto Salvadori, direttore del Museo Marino Marini di Firenze, prende le mosse proprio dal rapporto dello stesso Ferragamo con gli artisti, che ispirarono i suoi modelli e le sue invenzioni. «Non è così scontato che istituzioni pubbliche e private si mettano in rete per una riflessione comune», dice Ricci. «Per noi è un risultato molto importante, di cui siamo orgogliosi, anche perchè ci teniamo a interagire col territorio e a valorizzare le sue splendide collezioni»


A palazzo Spini Feroni, storica sede della maison in via Tornabuoni, una videoinstallazione mette a confronto le calzature con i loro riferimenti, il mondo classico, l’oriente, le avanguardie artistiche del ’900, il surrealismo, intrecciati con la cultura artigiana fiorentina. Nella sala sono esposti anche i bozzetti pubblicitari originali firmati dal futurista Lucio Venna per promuovere le scarpe Ferragamo, i modelli relizzati per intellettuali e artisti e il dipinto di Kenneth Noland del 1958, “Senza titolo”, che il “calzolaio dei sogni” tradusse in elemento decorativo per la décolleté "Tirassegno". 


Racconta Stefania Ricci, a proposito della pionieristica frequentazione di artisti da parte del fondatore: «In mostra manca solo il ritratto fatto a Ferragamo da Pietro Annigoni, che lo rappresenta come un pittore ottocentesco, con il foulard, la giubba di velluto, bohémien. Non l’ho neppure chiesto alla signora Wanda, vedova di Salvatore, so che le dispiace separarsene. Negli anni ’40 Annigoni aveva uno studio a palazzo Feroni e curò il packaging e l’immagine grafica della maison. Ferragamo, da parte sua, aiutò l’artista a entrare nel mercato inglese. All’epoca aveva già un negozio in Bond Street, a Londra, frequentato dalla famiglia reale e da tutte le celebrità».

Dalla “bottega” di Ferragamo, in cui, come in quelle rinascimentali, creatività e tecnica erano inscindibili, il progetto espositivo mette a fuoco via via collaborazioni, sovrapposizioni, contaminazioni tra arte e moda. Dalle esperienze dei Preraffaelliti al Futurismo, dal Surrealismo alla Radical Fashion, dal mantello realizzato dalla sarta Rosa Genoni per l’Expo del 1906, ispirato al Pisanello, fino ai contemporanei Martin Margiela, Viktor & Rolf, Chalayan con le loro complesse narrazioni visive, il percorso si sofferma, tra molti altri stimoli, su alcuni atelier degli anni ’50 e ’60, come quello di Germana Marucelli e di Mila Schön, dove designer e artisti si confrontavano e scambiavano esperienze, in una sorta di salotto culturale ricco di spunti e fermenti.



"Manto da corte Pisanello" di Rosa Genoni, 1906. Velluto di seta con ricamo, fu presentato allExpo di Milano del 1906 (Gallerie degli Uffizi, Galleria del costume di Palazzo Pitti)


Dal sodalizio di Marucelli e Alviani (una delle “power couples” nel territorio condiviso tra arte e moda, come dice Maria Luisa Frisa) nacquero i vestiti optical, indumenti che generano immagini in continuo divenire. Nel 1969 fu il triestino Gillo Dorfles, amico di entrambi, a curare alla Galleria del Naviglio di Milano, una mostra che focalizza il senso di questo incontro, in cui ciascuno dei due partner aggiunge qualcosa di proprio nell’assumere il lavoro dell’altro: “Germana Marucelli creatrice di moda e Getulio Alviani ideatore plastico”. In quegli stessi anni, Mila Schön, attraverso l’amico fotografo Ugo Mulas, si avvicinava all’arte di Fontana e di Calder, ne assorbiva le provocazioni: in mostra a palazzo Feroni si vedrà un abito di proprietà di Valentina Cortese nato dalla fascinazione della designer per i “mobiles”(di Mila in America scrivo anche qui).



"Tensioni" di Getulio Alviani (1966-1967), sei serigrafie su carta, Brescia, collezione privata











 












In un allestimento costruito attraverso abiti, accessori, tessuti, dipinti, immagini, libri e periodici, sono molti i prestiti eccellenti di musei e collezioni private, italiane ed estere: dal Philadelphia Museum of Art arriva a Firenze l’abito realizzato da Elsa Schiaparelli insieme a Salvador Dalì, dalla Fondazione Bergè-Saint Laurent quello di Yves ispirato ai dipinti di Piet Mondrian, dal Kyoto Costume Institute il corpetto di legno di Hussein Chalayan e dal museo del Fit di New York un modello firmato Jun Takahashi (Undercover). E ancora, i ritratti fotografici di Andy Warhol, “Altered Images” prestati dallo Studio Makos, “Fertility” di Keith Haring, da una collezione privata, il trittico di Yasumasa Morimura, “Portrait (La source 1,2,3)” dall’Art Museum di Takamatsu, pezzi dal ModeMuseum di Anversa e dal Museum Boijmans Van Beuningen di Rotterdam.


"The Souper Dress", 1968, di Andy Warhol (collezione The Kyoto Costume Institute)


 
"Fertility" di Keith Haring, 1983 (Firenze, collezione privata)


 
"Altered Image" di Christopher Makos, 1981 (collezione privata)



Da via Tornabuoni, l’esposizione si dipana in altre quattro sedi: la sala del Fiorino delle Gallerie degli Uffizi e la Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti, dove, fino al 24 luglio 2016, si esplora l’«Ottocento alla moda» e la Biblioteca nazionale centrale di Firenze con i “Periodici italiani del Novecento. È qui che trovano spazio gli articoli dedicati alla proto-designer Pittoni, che - come ha testimoniato la mostra su Anita futurista da Drogheria 28 a Trieste nel 2015 - ricevette da Ferragamo, il 2 febbraio 1949, una lettera di invito a partecipare alla rassegna internazionale di moda del Maggio fiorentino (“Vorrebbe conoscere Christian Dior?”, le scrive), quando ormai l’artigiana pensava di lasciare il design per l’editoria. Anticipa la direttrice del Museo Ferragamo, Ricci: «Stiamo pensando già alla mostra del prossimo anno. Ferragamo tornò in Italia dall’America nel 1927 e noi vorremmo esplorare che cosa accadeva in Italia e oltreoceano in quegli anni, dedicando uno spazio significativo all’esperienza di Anita Pittoni» (di Anita scrivo anche qui).


"Ritratto di famiglia in giardino" di Elisabeth Chaplin, 1906 (Firenze, Galleria d'arte moderna di Palazzo Pitti)


Le ultime due tappe dell’allestimento sono ospitate al Museo Marino Marini e al Museo del Tessuto di Prato. Nel primo (fino al 31 luglio) si raccontano le “collaborazioni” tra arte e moda a partire dagli anni ’80, quando i confini tra i due ambiti cominciano ad attenuarsi e le istituzioni d’arte si aprono agli stilisti: il Metropolitan di New York nel 1983 a Yves Saint Laurent, Palazzo Strozzi a Firenze, nel 1985, proprio a Salvatore Ferragamo.


A Prato, infine, fino al 19 febbraio 2017, si può visitare “Nostalgia del futuro nei tessuti d’artista del Dopoguerra”. In questo spazio si celebra l’arte “totale”, quando, nelle Triennali degli anni ’50, gli artisti partecipavano con disegni per la stampa su stoffa ai concorsi banditi dalle aziende tessili e si misuravano con l’estetica applicata al quotidiano. A Venezia, Carlo Cardazzo nella Galleria del Cavallino lanciava i foulard d’autore, opere d’arte da mettersi addosso firmate da Capogrossi, Campigli, Fontana, Saetti, Scanavino, Marino Marini, Edmondo Bacci e Roberto Crippa: li vedremo in mostra vicino agli arazzi di Chighine, Bordoni, Atanasio Soldati, Bozzolini e del triestino Guido Marussig, pittore e incisore, l’amico che D’Annunzio chiamò a decorare il Vittoriale.



"Progetto grafico di tessuto per la X Triennale di Milano" di Bruno Munari, 1954 (Bologna, Fondazione Massimo e Sonia Cirulli)


Nel suo saggio in catalogo, Frisa cita le parole del curatore della I Biennale di Firenze nel 1996, Germano Celant, illuminanti, anche dopo vent’anni, per togliere di mezzo qualsiasi tentazione di stabilire rapporti di sudditanza tra arte e moda: «Il colpo di forbice è simile a un colpo di macchina fotografica e cinematografica, a un colpo di matita o di pennello... Il taglio mette fine alla rappresentazione tradizionale dell’immagine, la disintegra e la restituisce come testimonianza del vedere e del capire l’artista. Se questo è vero, il taglio dà significato e il suo uso accomuna artista e fotografo, designer e sarto che ritagliano una visione dal magma delle materie: siano esse il colore e il bronzo, la stoffa e la pellicola, i metalli e le lane, il legno e la tela».

@boria_a

giovedì 12 maggio 2016

IL LIBRO

 Ada Murolo: amiche a Trieste, separate e riunite dalla Storia






Vite di donne si incrociano in quel 4 novembre 1954, quando Trieste festeggia con la parata delle forze armate il ritorno all’Italia. In piazza Grande, tra le migliaia di persone confluite da tutti i quartieri, nell’ondeggiante e tumultuosa marea umana, tra grida e spintoni, sotto il palazzo del Governo gli occhi di Alina e Berta si sfiorano senza riconoscersi, gli uni opachi e persi, gli altri accesi e guardinghi. È un paio di orecchini ad agganciarli per una frazione di secondo, nel baluginio dei piccoli trifogli di brillantini e oro rosso che Berta porta ai lobi e ai quali Alina si aggrappa, dal fondo torbido della memoria, per ricostruire il suo passato, per rimettere in fila volti sbiaditi, sovrapposti.
In “Si può tornare indietro” (pagg. 205, euro 16,00, in libreria per le edizioni Astoria), Ada Murolo, insegnante calabrese vissuta a lungo a Trieste, sceglie di raccontare due esistenze minute che si ricompongono proprio nel giorno in cui anche la grande Storia ricompone nel suo fluire la città contesa, sospesa. Una pagina importante che resta sullo sfondo, perchè sono le vicende delle protagoniste, e delle loro famiglie, a introdurre a poco a poco il passato di Trieste e le sue tante pagine e identità: le leggi razziali, la persecuzione degli ebrei, la Risiera, l’indipendenza delle donne, l’anima slovena, il manicomio. Un dedalo di temi in cui l’autrice si inoltra con intensità, come nelle strade del centro cittadino, in cui i personaggi, e i loro dolori, si incrociano.


La scrittrice Ada Murolo

Berta e Alina. La prima, provocante e sfrontata, figlia di un manovale della Ferriera cacciato per cattiva condotta, rimane incinta neanche ventenne di Bernì, un fante di stanza a Villa Opicina e con lui, dopo essere arrivata fin quasi alla porta di una mammana slovena ed essere scappata per paura, va a vivere tra i campi di Poli di Romagna, sposina testarda e orgogliosa in una comunità familiare contadina di donne sottomesse e abusate, di uomini abbruttiti da fatica, alcol, voglie. Alina Rosenholz, l’amica del cuore, eterea e ben educata, di cui Berta non conosce nemmeno la fede, sparisce da un giorno all’altro con la famiglia. Un rastrellamento nazista inghiotte papà Guido, rigattiere del ghetto, e il figlio Manuel, mentre Alina e mamma Nora, tradite da chi aveva dato loro rifugio, finiscono in Risiera.
Dieci anni dopo, in quella mattina luminosa di festa, Berta è di nuovo a Trieste, con due bambine e un matrimonio interrotto. Alle spalle una famiglia che non l’ha mai capita, un suocero abituato a trovare soddisfazione sotto le gonne di casa, chiunque le porti, e un marito innamorato ma debole, che la guarda uscire da sola e dubita della sua fedeltà. Anche Alina è in piazza, scappata dal manicomio di San Giovanni dove la festa collettiva ha ridotto il numero degli infermieri, con un turbine di voci e ricordi che le squassa la testa e un numero tatuato sul braccio, perchè il suo nome lo riconosce ma non lo sa più pronunciare.
È il brillare degli orecchini a dire a Berta e Alina che si può tornare indietro. Smettere di annullarsi per paura del futuro e riprendersi la vita, smettere di avere paura del passato e riconoscere il proprio posto nel mondo. Entrambe, Berta e Alina, nella giornata in cui Trieste esulta, salgono verso il manicomio di San Giovanni. Proprio lì, in quello che ancora per due decenni sarà un luogo negato a qualsiasi libertà, dove la vita passa di lato, per loro, amiche separate dalla Storia, il tempo, tornando indietro, ricomincerà a scorrere.

@boria_a
leggi anche  http://ariannaboria.blogspot.com/2015/01/i-l-libro-dorothy-parker-diari-di.html

lunedì 9 maggio 2016

 MODA & MODI

Dolores promesas, ossimoro al femminile


Il mio Dolores Promesas, direttamente dalla boutique di calle de Desengaño a Madrid


 Chi ci capita davanti per caso non crede ai suoi occhi: una minuscola boutique bon bon in calle de Desengaño, proprio dietro la trafficatissima Gran Via nel pieno centro di Madrid, con un’insegna che sembra un trucco, così malinconicamente zuccherosa: “Dolores Promesas”. Dolori e promesse? Strano ossimoro. Vien quasi da sbilanciarsi per i primi, in questa piccola via che lega il suo nome a un’antica leggenda di gentiluomini rivali in amore e ingannati da una mummia scambiata per l’amata, una strada dove oggi siedono prostitute in disarmo un po’ annoiate. E invece “Dolores Promesas” cattura l’occhio, a dispetto del contesto, con una vetrina che è un delizioso bouquet di fiori in una palette pastello. Fantasie retrò per vestitini corti e facili, di taglio perfetto, gonne ampie e abiti più impegnativi, dalla lunghezza asimmetrica, con una velata citazione di storia del costume.
Dolores Promesas non esiste, è un brand di moda nato dieci anni fa in Spagna e che in calle de Desengaño ha aperto il primo di una trentina di negozi esclusivi che oggi conta nel paese, ai quali si aggiunge la presenza in una novantina di multimarca e due boutique a Parigi. La direttrice creativa è Alicia Hernández, cofondatrice del marchio con Myriam Pintado e il socio Javier Lapena. Per festeggiare il decennale sono stati rieditati dieci abiti simbolo delle diverse collezioni.
Un’occhiata al sito (www.dolorespromesas.com) e l’inganno è svelato. Donna Dolores è un’invenzione dichiarata, ma ha le idee molto chiare: una linea che incrocia diverse generazioni, donne dinamiche e con un debole per i tagli femminili, molto costruiti sul corpo, le fantasie floreali e gli stampati colorati, senza diffidenza nell’abbinare righe e pois o nell’osare tinte forti, colori “llamativi”, dicono in loco, blocking per le fashioniste.

Abiti, gonne, completi pantalone, t-shirt e soprabiti, con un filo di leziosità che non guasta, vanno provati e toccati, in rete rendono poco. Castigati davanti, busto segnato, svelano inaspettate e profonde scollature sulla schiena. Il punto forte sono le fantasie vintage, fiori che ricordano le stampe per carta da parati anni Ottanta o motivi anni Cinquanta per vestiti tagliati in vita e dalla gonna a corolla.
Dolores Promesas per ora non sfila, il successo lo deve alle clienti celebri che l’hanno scoperta e veicolata sui social. Un motivo in più per sceglierla, prima che venga vampirizzata dalla rete.

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