martedì 28 giugno 2016

LA MOSTRA

Guerra e moda a Gorizia, all'alba della donna moderna




Una rivoluzione sociale. Un cambiamento da cui le donne non torneranno mai più indietro. Raffaella Sgubin, sovrintendente del Museo della Moda e delle Arti applicate di Gorizia, presenta così la mostra che si apre domani (29 giugno), alle 18, a Borgo Castello (fino al 4 dicembre 2016).


"Wiener Mode del 15 ottobre 1914


“Guerra e moda”, con un sottotitolo che enfatizza il messaggio dell’allestimento: l’alba della donna moderna. La prima guerra mondiale segnò infatti un’epocale e irreversibile trasformazione della figura femminile nella società del primo ’900, di cui l’estetica è la chiave di lettura più immediata e interessante. Le donne, quando ci si rese conto che il conflitto non sarebbe stato breve nè privo di conseguenze, lasciarono focolari e famiglie ed entrarono nelle fabbriche belliche, assunsero le fatiche dei campi, diventarono autiste di tram e treni, negli ospedali si impiegarono come infermiere e crocerossine. E il loro guardaroba fu investito da uno tsunami: niente più corsetti, gonne lunghissime, strati di biancheria, addio a quella sinuosa linea a S che regalava (e a che prezzo!) un’andatura innaturale, quasi da rettile, seduttiva e pericolosa. Le gonne si accorciano, il busto si scioglie, materiali e colori sono sobri, adatti a chi deve muoversi senza costrizioni, sporcarsi il meno possibile, evitare che pizzi e vezzi rendano più arduo e perfino pericoloso il lavoro di ogni giorno, impigliandosi nelle macchine e negli strumenti di lavoro.

In quattro sale, con un allestimento che intreccia abiti e riviste, biancheria e accessori, la mostra goriziana, realizzata quasi esclusivamente con pezzi dalle collezioni museali, racconta la liberazione estetica della donna, in un percorso cronologico, dal 1900 al 1925, che parte dalla Belle Èpoque e si conclude con la fine del conflitto. (
leggi anche  ornamento)

Nel primo spazio tre splendidi abiti viennesi, due dei quali delle sartorie Wilhelm Jungmann und Neffe e G.& E. Spitzer, dove si serviva l’imperatrice Sissi, e due di sartorie triestine, il primo firmato da Olga Voghera Zammatto. I figurini di “Wiener Mode”, “Margherita”, “La donna”, accanto a riviste tedesche e francesi, illustrano l’ultimo scorcio di un mondo in cui l’abito delle classi alte era la cristallizzazione, preziosa e punitiva, di un ruolo e di uno status femminile. Tra le curisità di questo spazio, un articolo del Piccolo, anno 1911, in cui un cronista registra la prima donna in pantaloni in giro per Trieste, una modella mandata da Vienna per “tastare” le reazioni al nuovo capo, pare guardato con una perplessità tale che la signorina decise di riparare in albergo.

 
Abito da sera della sartoria torinese Paola San Lorenzo


La seconda e la terza sala espositiva ci trasportano negli anni del conflitto: le uniformi di una crocerossina e di una capostazione austriache, un’operaia inglese in tuta kaki e scarponcini, una riproduzione dell’Illustrazione italiana del 1917 con un articolo sull’occupazione femminile durante la guerra, tema trasversale a tutti gli stati belligeranti. Più avanti nel percorso espositivo, un abito da sposa della collezione triestina Verchi e due mise da sera a metà polpaccio, una firmata dall’atelier torinese Paola San Lorenzo: vestiti rarissimi, testimonianza della vita che va avanti per chi di giorno si impegna nei comitati femminili, ma di sera partecipa a cene e balli.



"Le ragazze di Trieste": l'allestimento a Gorizia che allude alla celebre canzone, accanto all'illustrazione di Umberto Brunelleschi


Nell’ultima sala, “le ragazze di Trieste”: un’illustrazione di Umberto Brunelleschi dal giornale di trincea “La Tradotta” fa da sfondo ai manichini con scialli di seta e una borsetta patriottica con tricolore e alabarda, prodotta a Trieste nel 1918. 

 (leggi anche "Auchentaller, una sala a Gorizia" ) 

«Negli anni della Grande guerra - dice Raffaella Sgubin - assistiamo a un drastico cambiamento sociale. Nel ’22 si instaurerà il fascismo, la donna torna in casa, spesso perdendo consapevolezza e quella minima indipendenza economica acquisita. La moda è l’unico settore di “resistenza”, si è voltata per sempre pagina».

twitter@boria_a

(leggi anche Pierre Stonborough)

sabato 25 giugno 2016

L'INTERVISTA


Andrea Camilleri, Montalbano e la pax nel piatto


 
Lo scrittore Andrea Camilleri




C’è qualcosa di speciale nell’ultimo giallo di Andrea Camilleri. Prima di tutto per lo scrittore siciliano che, a 91 anni, con “L’altro capo del filo” (Sellerio, pagg. 298, euro 14,00), taglia l’incredibile traguardo dei cento libri, un record battuto solo dal suo amato Simenon. Ma anche per il Friuli Venezia Giulia, che entra subito nella storia, fin dalle prime pagine, e diventa meta di una delle non frequenti trasferte del commissario Montalbano.

Che cosa spinge dalle parti di Udine il riottoso detective siculo, strappandolo a Vigata e ai piatti della fida Adelina? Questa volta, per restare in tema, un concorso di colpa: la richiesta dell’eterna fidanzata e un caso da risolvere, l’oscuro omicidio di una sarta di Vigata, una vedova garbata e discreta, per venire a capo del quale Montalbano dovrà suo malgrado salire su un aereo a Trapani-Birgi e atterrare, con qualche batticuore, al “Savorgnan di Brazzà” di Ronchi dei Legionari.





A levare il “pititto” al commissario, però, è il motivo principale della puntata in Friuli, ovvero il “rinnovo della promessa di matrimonio” di una coppia di amici di Livia che, arrivati al giro di boa delle nozze d’argento, vogliono ritornare in chiesa, con tutto il contorno di fedi, amici, parenti e pure figli al seguito, per ripetere il giuramento di fedeltà.


«Rinnovo? Come per il tagliando della machina? Come la tessera per il circolo», tenta invano di sottrarsi Montalbano, salvo poi scoprire, nelle ultime pagine del romanzo, che nel fantasioso paesino di Bellosguardo, in terra friulana, c’è una trattoria dal nome che dà “sicurizza”, Al Leon d’Oro, dove, prima di districare il giallo, ci si può consolare sbafandosi con granni soddisfazioni cipuddra, burro, patate, crauti. Una koinè di sapori di tutto gradimento, quasi quanto i celebri arancini.


«La prima trasferta di Montalbano in Friuli Venezia Giulia? Ricordate male», corregge sorridendo Andrea Camilleri. «Il commissario è già venuto dalle vostre parti. È andato anche in Trieste, in un racconto, se non sbaglio in vettura letto». Quella volta, però, nella raccolta “Un mese con Montalbano” (1998), fu il commissario a essere vittima di un episodio di microcriminalità. Sceso in stazione ripetendo versi di Virgilio Giotti, stordito dall’aria e dal mare, fu alleggerito del portafoglio, ma se ne fece presto una ragione davanti a tagliolini all’astice, guatti sfilettati e una bottiglia di terrano. E un po' di Trieste è entrata anche ne "Le inchieste del commissario Collura" (2002, Libreria dell'Orso) dove il protagonista Cecè, uomo di terra in crociera per convalescenza, risolve piccoli misteri aiutato dall'assistente triestino Scipio Premuda.


Camilleri, come mai questa volta ha scelto Udine? «E chi lo sa. Forse perché ricordavo il libro “Il Castello di Udine” di Carlo Emilio Gadda».


Montalbano scova un “ristoranti casaligno” dove servono la triestinissima jota e il friulanissimo frico. Lei ha realizzato una pax che non è mai riuscita a nessun amministratore della regione...«Nella fantasia può succedere».


Molto più “filologica” la triestina Angelica Cosulich de “Il sorriso di Angelica”, che è bellissima, come le triestine hanno fama di essere, e con un cognome che più triestino non si può... «Ho lavorato a lungo a Trieste, tanto alla radio per la regia di alcune opere di Fulvio Tomizza e anche per una ripresa televisiva del Teatro Stabile. È una città che amo assai e che ricordo anche da lontano attraverso i versi di Saba».



Lo scrittore Fulvio Tomizza (1935-1999)


Lei ha detto che dalla sua imponente biblioteca qualche volta “scompare” qualche libro e l’ultimo, quasi un segno del destino, è proprio “La coscienza di Zeno” di Svevo. Perchè voleva rileggere il finale? «In realtà si tratta di una storia che risale a una quarantina di anni fa. Ricordo confusamente che mi interessavano le righe sulla fine del mondo perché in un racconto parallelo, che stavo scrivendo, volevo anche io ambientare un mondo deserto di uomini e di cose». 


Al traguardo dei cento libri, ce n’è uno che si rammarica di non avere scritto ancora? «Più di uno, ma so che non ne avrei più il tempo e forse, un pochino, la voglia». 


Ma se Camilleri non avesse incontrato sulla sua strada Montalbano, chi sarebbe stato? «Avrei continuato a scrivere i romanzi che ho scritto e che continuo a scrivere anche con le incursioni di Montalbano. Sarei uno scrittore, magari non di successo, ma con una dignitosa posizione. È riduttivo considerarmi solo uno scrittore di romanzi polizieschi». 


Per Camilleri oggi è più difficile scrivere dettando, o non poter leggere? «Assai più non poter leggere. È sicuramente la cosa che mi manca di più».


Immaginiamo che ci sia qualcuno che legge per lei. Che autore contemporaneo legge Camilleri? E che classici si fa rileggere? «L’ultimo classico che mi sono fatto rileggere è “I promessi sposi”. Di contemporaneo mi faccio leggere ogni tanto alcuni capitoli per tenermi aggiornato sulla produzione. Volti e immagini non ho bisogno di farmeli raccontare, per fortuna sono ancora ben presenti e operanti». 


Lei prima di diventare scrittore ha fatto lo sceneggiatore. Le piace la televisione di oggi? «No. Io appartengo all’epoca dei grandi romanzi sceneggiati, delle grandi commedie che si presentavano ogni venerdì. Era una televisione completamente diversa e ne sono un po’ nostalgico». 


Cos’è la vecchiaia? «Sono state scritte milioni di righe sulla vecchiaia, da De Senectute in poi. La vecchiaia è un’età della vita come tutte le altre, con molte limitazioni ma anche con molte libertà».


E la felicità? «Per me la felicità è scrivere una bella pagina, una pagina che mi soddisfi». 


E che cos’è il successo? Un successo planetario come il suo?
«A me il successo non mi ha spostato di un millimetro, né nel mio modo di pensare e né nel mio modo di vivere. Mi ha portato però una ricchezza incommensurabile, il calore e l’affetto dei lettori».


Qual è il complimento che in assoluto, lungo tutti i suoi cento libri, le ha fatto più piacere e di chi? «Direi quando Sebastiano Vassalli scrisse che non c’era bisogno di costruire un ponte sullo Stretto perché io ne stavo costruendo uno di carta, e che funzionava piuttosto bene».


La fa arrabbiare l’Italia di oggi? «Non mi fa arrabbiare l’Italia, casomai quelli che la governano».


Ne “La concessione del telefono” c’è la fotografia del nostro paese oggi. Concorda? «Tutti i miei romanzi si calano sulle posizioni italiane contemporanee. Altrimenti che li scriverei a fare? Solo per il gusto di raccontare un episodio del passato?».


Nel libro n. 100 Montalbano affronta il problema migranti. Come si sta comportando l’Europa? «L’Europa malissimo, l’Italia meglio. Soprattutto perché gli italiani sanno cos’è la migrazione». 


Il commissario fa segnare numeri da record anche in televisione, alla seconda, terza replica. Ha incollato al video milioni di persone che già conoscono il finale. Perchè piace tanto? «Perché è un prodotto ottimamente realizzato di alto livello televisivo». 


E a lei piace sempre Montalbano? «Certe volte sì e altre meno. Talvolta la sua presenza è troppo ossessiva». 


È vero che è già pronto il romanzo in cui Montalbano muore? «E chi gliel’ha detto che muore? Comunque l’ultimo romanzo della serie l’ho scritto». 


Se le chiedessero di esprimere un desiderio... «Continuare a scrivere, a lavorare, finché mi sarà possibile».

twitter@boria_a

mercoledì 22 giugno 2016

 MODA & MODI

Al mare senza prefissi

 
H&M, beachewear 2016



 È una mia impressione o il beachwear, in sostanza i costumi da bagno, sta attraversando una rassicurante fase di normalizzazione? Sfoglio virtualmente la collezione di H&M, ricca di modelli, tinte e fantasie, piacevole e alla portata di chiunque.

Perchè, diciamocelo: se è vero che tutti guardiamo le vetrine con costumi che veleggiano abbondantemente oltre i cento euro, alla fine ripieghiamo su proposte che costano un quarto e per una serie di semplici motivi: acqua e sole rovinano anche il tessuto più pregiato, rammolliscono le bretelle dei top con conseguente cedimento di contenitore e contenuto, allentano gli slip facendo sfuggire quanto vorremmo custodire. Morale? Tanto vale comprarne uno nuovo ogni anno o due senza piangere sull'investimento.

Punto secondo: più il costume costa, più è carico di inutili chincaglierie, fa fatica ad asciugarsi e ci costringe a lavaggi certosini (a mano) che nemmeno un velo da sposa, pena il sacrificio di pietruzze, paillettes e perline nel cestello della lavatrice, impossibili da rimettere a posto, quand'anche sfuggissero al risucchio del filtro. Oppure è il costume firmato da un designer mani di forbice, che, con un pizzico di masochismo, si sbizzarrisce in un inestricabile labirinto di lacci, incroci, intrecci, dimenticando di fornirci le istruzioni per indossarlo senza dar prova di abilità contorsionistiche o riemergerne dopo una giornata al sole con l'epidermide zebrata.

Il sollievo, però, non è solo di sostanza, ma soprattutto di forma. Nei siti modaioli non rintraccio più il cosiddetto quadranga (e la cosa, confesso, mi strappa un wow di entusiasmo), quel costume intero tagliuzzato sui fianchi, che, di esotico, come a torto suggerisce il nome, ha solo l'abbronzatura a strisce pedonali che lascia sui fianchi. 


Sparito il trikini, con short supplementari sopra gli slip. Anche il monokini, il due pezzi congiunto dalla striscia centrale sulla pancia, pare cancellato per assoluta impraticabilità (e bruttezza): la corsia centrale di lycra è meglio non immaginarla serpeggiare su placide pance non scolpite e comunque non sta mai tesa a meno di non giacere immobili e supine tipo salma. E poi: c'è qualcuno che si meraviglia che spariscano i top high neck, dall'ombelico al collo, o che non si trovi una bagnante così stoica da togliersi il reggiseno per sigillarsi in un bralette, il bustino da indossare sotto il solleone?

 L'estate che non arriva aumenta l'ansia di libertà: basta un banalissimo bikini senza prefissi per soddisfarla.

lunedì 20 giugno 2016

 IL PRECEDENTE



 Era il 28 giugno 2001, e il neosindaco di Trieste Roberto Dipiazza entrava in municipio... Allora l'ho raccontato così sulle colonne del Piccolo
(e adesso, in quel palazzo che all'epoca "scopriva", ci entra per la terza volta...)
 

 
28 giugno 2001: Roberto Dipiazza irrompe (per la prima volta) nel palazzo municipale di Trieste (foto di Andrea Lasorte per Il Piccolo)



«Signor sindaco, ha chiamato un cittadino. Protesta, perché non rispondono agli uffici dell'Ici. Anch'io sto provando da un'ora, tutti i numeri. Niente da fare». La signora Loredana, segretaria-ammiraglia e grande vestale delle asprezze illyane, scuote la testa impassibile davanti al nuovo governante di piazza Unità, che entra come un turbine nel sancta sanctorum al primo piano del palazzo municipale di Trieste.

«Non rispondono agli uffici dell'Ici??? Mi chiami subito il direttore generale». Scende il manager Andrea Viero, nel suo inappuntabile grigio bocconiano, mentre le linee degli uffici di via Genova vengono digitate freneticamente. 


«Signor sindaco, dicono che non rispondono perché sono oberati di lavoro». «Cosa??? Viero, provveda subito». «Veramente rispondono sempre entro cinque squilli», s'inserisce diplomatico il dirigente, calato senza giacca dagli uffici del piano di sopra.
«Gli mandi qualcuno da qua. Non è possibile che la gente aspetti a vuoto».

Arriva silenziosamente la giacca di Viero, via Genova è in linea. Un secondo dopo il neosindaco cavalca come un granatiere un corridoio, oggi come non mai dei passi perduti,
lanciato verso nuove avventure.



Andrea Viero


Addio passi felpati, atmosfere ovattate, sorrisetti di circostanza, mani strette con affettazione da chirurgo. E' finita l'era dell'Uomo metallico, del piccolo principe bionico, benvenuti nell'epopea del Grande venditore, dell'ultimo prodotto di Mediaset in terra giuliana. Ieri, il giro inaugurale di Roberto Dipiazza in alcuni uffici del Palazzo dell'anagrafe, si è trasformato in uno spot itinerante delle prime mosse della Casa delle Libertà dall'interno della macchina comunale.


Porte spalancate, pacche sulle spalle, battute a raffica, apprezzamenti alle signore. Alcune accolgono, lusingate dall'approccio affabile, forse facendo finta di non accorgersi dell'occhio da commerciante scafato che disseziona il prodotto, altre respingono con ostentata educazione, già con un nodo di nostalgia per i gelidi e formalissimi sopralluoghi illyani. «Fortunato, bella vista. Eh sì, lei ha un bel colpo d'occhio», apostrofa quanti, maschietti, condividono la stanza con esuberanti colleghe. E si comincia a intuire perché il british Federico Pacorini ha fallito la prova dell'impatto col grande pubblico.

Il giro comincia dagli uffici del Personale. «Marson? Lorenzut? Ma qui sono tutti friulani. Ecco perché ho vinto le elezioni».
Dipiazza ha il passo del montanaro e l'entusiasmo dell'apprendista stregone. Le porte si aprono, una dietro l'altra. Sbucano dirigenti, si alzano tecnici, il gentil sesso comunale si materializza dietro piantine e foto di pargoli. «Eh, dove ci sono le donne c'è sempre una nota gentile», sospira il Nostro, dispensando sorrisi.


«Il segretario generale? Piacere»: eccolo entrare come un condor nell'ufficio del gran commis dell'amministrazione. «Ma io la voglio giù vicino a me, così posso aprire una porta e parlarle». Primo effetto del nuovo corso: l'elegante ufficio che fu del fu assessore alla cultura Damiani, da cui lo sguardo affonda nel golfo, non sarà del suo successore, l'ostico deputato di An Roberto Menia, ma del primo burocrate dell'amministrazione. Il sindaco lo vuole accanto a sè, in ogni momento, per ogni necessità.

Nel tragitto tra un piano e l'altro, qualcuno ferma il neofita, si complimenta per l'exploit elettorale. «E' un buon momento», ridacchia lui. «Ma cosa fa questa gente seduta sulle scale?», interroga un attimo dopo. E, informato che si tratta di un gruppetto di giovani periti, aspiranti dipendenti della sua amministrazione, che attendono, comprensibilmente ansiosi, di passare al torchio della commissione comunale, dispensa auguri volanti.


E' abile, questo sindaco. Sembra un bambinone divertito dal giocattolo, ma qua e là infila staffilate, fa intuire che il suo regno comincerà con una rivoluzione negli uffici. Non a caso terrà per sè la delega al Personale. «Ma lei l'altro giorno aveva i capelli sciolti», apostrofa la ragioniere capo Sferco e in una manciata di secondi le racconta come lui, a Muggia, chiudeva i bilanci con un avanzo di gestione risibile, a differenza degli immobilisti comuni carsici. 
«Nei prossimi mesi, comunque, dica sempre che non ci sono soldi».

Ecco, più in là, il dottor Prestelli, immerso nel suo ufficio a temperatura equatoriale, tra gli scatoloni di un trasloco in atto. Va in pensione sabato, dopo 41 anni di onorato servizio. «Ma che cosa farà dopo?», gli chiede Dipiazza. Viero, che di ognuno snocciola una piccola biografia e che, a tratti, sembra coccolare i suoi sottoposti con l'affetto di chi si accinge ad abbandonarli, fa presente le competenze del dirigente su Urban. «Così va bene, le daremo un incarico», replica il sindaco, già correndo via a conoscere il genovese Manfren («sti' genovesi, son forti però»), il triestino Maolino, arrivato dal sud ma ormai giuliano doc, la segretaria delle concessioni edilizie («ma lei concede, signora?») i collaboratori all'urbanistica della sua «amica Ondina», che gli ha fatto Porto San Rocco. «La Barduzzi ha progettato Porto San Rocco?», stupisce Viero. «Ma no, il mio supermercato. Io lo chiamo col nome del posto», lo corregge il sindaco, come si fa con uno scolaretto volenteroso ma poco pronto.


Man mano, nel giro, si accodano dirigenti. Tosolini, Pocecco («bella villa che guarda il golfo. Porto San Rocco l'ho fatto per lui», se la ride Dipiazza). Gli spiegano che quell'aria da arrembaggio degli ultimi piani del Comune è dovuta agli spostamenti in atto da un piano all'altro. Lui già punta i piedi, dice che piuttosto che quei cubicoli dove non si possono aprire nemmeno le porte, vanno buttate giù le pareti e fatto l'open space. «Ci vogliono molte risorse. E i dipendenti dicono che non lavorano bene», gli viene fatto presente. «Il problema non è che non lavorano bene, è che lavorano. E' diverso», ribatte il sindaco, con una delle staffilate di cui sopra.


Passano gli uffici, uno dopo l'altro: protocolli, manutenzioni, scuole, strade. Stanzette congestionate dove, nei sette anni dietro alle spalle, venne riaggiustata e ridisegnata la Trieste di IllyDipiazza ordina alla Cartografia megamappe della città da mettere in giunta («così almeno quando si parla di qualcosa si sa dov'è»), saluta qualche dipendente approdato qui da Muggia («Baldas? Ve l'ho mandato io, sapevo che eravate in difficoltà. Che bontà d'animo...»), accoglie gli auguri per la carriera di un signore che si presenta come quasi-dirigente. «Beh, la faremo dirigente. Quanto alla carriera, credo di aver già raggiunto il massimo. Eh, eh».


S'indigna per un nuovo buco aperto dall'Acegas in via Milano e a quanti gli spiegano che il protocollo sui lavori esiste già e che ci si sta dando da fare per farlo rispettare, sentenzia: «All'Acegas, bisogna che ghe demo una strenta. Quindici giorni? Ma signori, i buchi vanno chiusi in quindici ore».

Finalmente le ultima tappe, almeno di ieri. Gli uffici del suo «amico Drossi», presidiati dall'efficiente signora Carli. «Come lo vuole il nuovo assessore?», debutta il sindaco. E l'interessata, elegantissima e algida sotto l'abbronzatura da schianto: «Lei lo scelga bene».

Poi il Verde urbano: «Come va col Giardino pubblico?», s'informa il Nostro. In due giorni, gli viene promesso, si muoverà qualcosa. E ancora: «Gli oleandri. Ma perché non li prendete doppi invece che "ugnoli"?». «Quelli "ugnoli" fioriscono più a lungo», s'intromette un sempre più esangue Viero.


L'oleandro "doppio" preferito da Dipiazza


Bye bye, caffè Illy. Su il sipario sul Parmacotto. «Il signor sindaco preferisce i doppi? Terremo conto».

domenica 12 giugno 2016

 IL LIBRO

Silvio Perrella e le scorciatoie fulminanti di Saba

Umberto Saba



Saba, berretto pipa bastone. “Uno, ramingo in un’Italia di macerie e di polvere”. Il poeta che avrebbe voluto essere stanziale e che le miserie della Storia costrinsero a scendere e risalire l’Italia, alla ricerca di pace. Che, nel ’48 a Milano, dopo aver saputo il risultato delle elezioni e il trionfo della Dc, vociferava un “porca, porca”, riferendosi all’Italia. Saba che andava subito al sodo, inscindibile dalla sua città, la Trieste dei saliscendi, delle connessioni tra alto e basso.

Diceva che essere nato qui lo aveva messo in una situazione di ritardo rispetto alla cultura italiana. Non rientrava nella “sincronicità” letteraria del suo tempo, non gli si poteva trovare un equivalente straniero sotto il cui blasone accasarlo, a differenza di Montale e Ungaretti paragonati a Eliot o Mallarmè. Il suo saggio per la Voce, “Quel che resta da fare ai poeti”, del 1911, rimase inedito: solo alla sua morte si seppe che ai poeti resta da fare la poesia onesta. Quella che va al cuore delle cose, che cerca l’essenziale. Un auspicio che si estese presto alla sua prosa, come in “Scorciatoie e raccontini”, raccolta di pensieri, aforismi, brevi scritti, edita nel 1946 da Mondadori. Scorciatoie ovvero “sentieri per capre”, diceva Saba, pensando all’orografia di Trieste. Sulla pagina diventano sguardi trasversali, paesaggi delimitati da cornici, scorci. Prosa chiara, diagnosi altrettanto. Se Montale ripete «codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, Saba guarda in faccia il disagio del suo tempo, leggi segni premonitori di quello futuro, della civiltà di oggi. E ci lascia una scorciatoia memorabile, che fulmina l’Italia in poche righe: non abbiamo mai avuto una rivoluzione, perchè siamo l’unico popolo che ha un fratricidio, e non un parricidio, alla base della sua storia.



 


Di Saba grande prosatore ci racconta il critico siciliano Silvio Perrella in “Addii, fischi nel buio, cenni” (Neri Pozza, pagg. 383, euro 18,00), antologia di saggi - il cui titolo si rifà a un verso di Montale - composti nel corso di trent’anni sugli scrittori nati tra le due guerre, a volte nello stesso anno del fascismo. Italo Calvino, Goffredo Parise, Lalla Romano, Anna Maria Ortese, Raffaele La Capria, Cesare Garboli, Franco Fortini, e ancora Sereni, Caproni e Saba, questi ultimi come prosatori. Sono gli “antenati”, quelli che furono giovani nel momento in cui l’Italia diventava repubblica e che, anche indirettamente, contribuirono alla sostanza della Costituzione. Perrella vuole che i loro “addii”, i loro “fischi” e “cenni” continuino a parlarci, perchè in ognuno di loro “scrivere e vivere” non erano fenomeni disgiunti e «perchè la mia generazione - spiega l’autore - ha guardato a loro come a dei punti di riferimento, come al fondale dentro il quale situare i propri gesti letterari e vitali».



Silvia Perrella

 

Delle scorciatoie di Saba, Perrella scrisse nel 2011: «Temi, figure, attitudini, storie sono in gran parte attinti dal serbatoio del Novecento, e oggi che al Novecento abbiamo detto addio potrebbe sembrare che si tratti di un libro caduco. Se fosse così, bisognerebbe spiegare perchè nel vociferare del poeta che dice porca all’Italia sentiamo oggi - proprio oggi - la voce di un fratello maggiore a cui non vorremmo mai e poi mai tagliar la testa».

martedì 7 giugno 2016

MODA & MODI

Pierre Cardin a Venezia: passato e presente come Dorian Gray 

Pierre Cardin durante l'incontro alla Fenice


 «Oggi per la verità non sono tanto elegante» dice Pierre Cardin, mentre, da seduto, tenta senza successo di abbottonarsi la giacca doppiopetto blu e il nipote Rodrigo Basilicati gli sistema la cravatta allentata a beneficio delle telecamere. Venerdì scorso lo stilista era alla Fenice di Venezia per presentare “Dorian Gray. La bellezza non ha pietà”, il musical che produce e di cui firma i costumi, protagonisti Matteo Setti e Thibault Servière con testi e musiche di Daniele Martini, in scena in laguna il 6 e 7 agosto 2016, dopo l’anteprima del 27 luglio al Festival di Lacoste (il “suo” festival, che si tiene nel “suo” castello, un tempo appartenuto a De Sade). «Solo due personaggi, non ho avuto molto da fare» scherza monsieur Carden, chiedendo con un sorriso malizioso di passare al francese dopo le prime parole in italiano. Perchè «italiano», questo signore classe 1922, nato Pietro Cardin a San Biagio di Callalta in provincia di Treviso, uno degli ultimi grandi della moda, designer innamorato del palcoscenico, «si sente di natalità e di cuore». Novantatrè anni pieni di progetti e di humour, tant’è che alla Fenice - «dove venivo da ragazzo e poi ho lavorato per i costumi» - tornerà anche il prossimo anno con un altro musical, soccorrendo le casse della Fondazione.
Il teatro, scoperto da bambino in parrocchia. «Avrei voluto farlo dopo la guerra» racconta, ma Jean Cocteau lo chiamò per i costumi de “La Belle et la Bête» nel 1946 e da lì cominciò una straordinaria avventura, che continua ancora. Lui insiste: «Sono qui per parlare di teatro, non di moda». Ma bastano poche frasi per aprire un capitolo del costume e dell’arte del secondo ’900. «Ho cominciato con Christian Dior e ho tanto amato questo mestiere, ho portato le mie creazioni in tutto il mondo». Gli atelier di Jeanne Paquin e Schiaparelli, poi primo sarto da Dior, con cui lanciò il new look. Ancora ricordi: Cocteau, Visconti e i costumi di “Senso”, la sua maison, le creazioni pionieristiche, il successo internazionale, Jeanne Moreau, amore e musa, l’étoile Maya Plisetskaya che vestì in “Anna Karenina” per il Bolshoi.
Moda e teatro si intrecciano, amori inseparabili di un’intera vita. Nel suo Espace Cardin a Parigi, aperto nel ’71, ha prodotto mille spettacoli, senza soldi pubblici, ha lanciato artisti, ha sperimentato. Delle sue ultime produzioni, Casanova, Amleto e Dorian Gray, parla come di figli. «Abbiamo fatto le prove generali di Amleto sotto l’acqua - testimonia Setti - e Monsieur Cardin stava lì, con noi, a prendersi la pioggia. Il suo tratto è l’eleganza, in lui vivono il passato e il presente».

@boria_a

sabato 4 giugno 2016

LA MOSTRA

Un FiloRosso di gioielli di tessuto, tra Isola d'Istria e Muggia


Agatha Ruiz de la Prada e Isabella Bembo



Un “FiloRosso” di gioielli contemporanei lega, fino a domenica 5 giugno, Muggia e Isola d’Istria. Collane, anelli, spille, dove protagonista è il tessuto, creati in esclusiva per la manifestazione da artisti di vari paesi europei, e quest’anno anche americani e israeliani, sono ospitati a Palazzo Manzioli, sede della Comunità degli italiani del centro sloveno, e al Museo Carà di Muggia. È la quarta edizione della Biennale internazionale del gioiello contemporaneo (che ha avuto una prima vetrina nel dicembre scorso), curata da Isabella Bembo insieme a Sandra Kocjancic e Simonetta Cigolotti, promossa dal Comune di Muggia e dalla Provincia, nel 2015-2016 in sinergia con l’amministrazione di Isola.


Isola merita una puntata per ammirare, tra i settanta pezzi degli altri concorrenti, il gioiello vincitore della Biennale, la collana “Peter Pan” firmata dall’artista orafa francese Alix Tran, piccolo capolavoro di delicatezza e poesia, che ha messo subito d’accordo la giuria internazionale e la madrina della kermesse, la stilista spagnola Agatha Ruiz de la Prada, fan di “FiloRosso”, ai cui artisti ha aperto le sue boutique di Parigi, Madrid e Milano. Alix Tran, 29 anni ha realizzato un collare di lino bianco “invaso” da piccole mosche di rame, assiepate dove il tessuto cede, con un’allusione al tempo che scorre e alle ferite che lascia, su cui gli insetti si fermano.


Il col claudine dell'artista francese Alix Tran


A Palazzo Manzioli sono in vetrina anche le opere segnalate a “FiloRosso”: gli anelli dell’israeliana Sigal Meshorer, mutabili a piacere giocando con il tessuto di lino, la spilla della macedone Biljana Klekackoska, che recupera la tradizione della filigrana del suo paese per incorniciarvi parole d’amore scritte su seta, la collana di un’altra israeliana, Noga Harel, piccoli sacchetti di organza sospesi tra perle e coralli, che racchiudono fiori d’aglio, lo scultoreo anello-guanto in seta e argento della slovena Aleksandra Atanasovski, e il pendente della tedesca Heidemarie Herb, una chiave imprigionata in un pezzo di cotone striato di pigmento rosso, simbolo di dolori personali e universali. In questo spazio c’è anche l’artista tessile friulana Flavia Eleonora Michelutti, che propone una collana “reliquiario”, citazione della gioielleria vittoriana del lutto.

La collana dell'israeliana Noga Harel: coralli, perle, cristalli e sacchetti di organza con fiori d'aglio


 
Sébastian Carrè, premio Jeune créateur a Parigi nel 2015




 
Biljana Klekackoska



 
Il pendente della tedesca Heidemarie Herb



 Tre gli omaggi di FiloRosso. Al “Carà” di Muggia, l’artista tessile torinese Silvia Beccaria, in mostra anche alla Triennale di Milano, con le sue gorgiere di gomma e carta ispirate ai costumi di XVI e XVII secolo, e il croato Nenad Roban, docente all’Università di Zagabria, con bijoux ricavati da materiali poveri: cartone, filtri per il tè, plexiglas, legno di vite, anelli per le tende. Alla galleria “Drat” di Isola, invece, l’israeliana Vered Babai, per la prima volta in Italia: anelli e spille, d’argento, piume e fibre vegetali.


Anello-scultura della slovena Aleksandra Atanasovski

Patrizia e Nelly Bonati: Me&Te Me(tallo) & Te(ssuto)



@boria_a

mercoledì 1 giugno 2016

 IL LIBRO

Irene Cao, l'ero chick-lit che misura i nostri desideri (inespressi)



 
Irene Cao



Trilogia, duologia e ora, alla terza prova letteraria, una storia compiuta in un unico libro. E non è l'unica novità per Irene Cao, la scrittrice di Caneva, che, tra il 2013 e il 2014, ha mandato in fibrillazione l'ambiente letterario con le sue storie ero-soft, risposta italiana, meno hard e più harmony, alla torrida saga di catene e sottomissione dell'inglese E.L. James. Ora Irene punta a rimescolare un po’ le carte e ad affrancarsi dalla prevedibilità del genere, cambiando i dosaggi di una ricetta comunque vincente e con uno zoccolo duro di affezionate (e non solo, perché gli uomini negano ma leggiucchiano).
 
Dal 3 giugno 2016 sarà in libreria "Ogni tuo respiro" (Rizzoli, pagg 309 euro 16, che sarà presentato dall’autrice alla Lovat di Trieste il 23 giugno alle 18), vicenda d'amore e di ricerca - di se stessi, delle radici, del proprio posto nel mondo, e, quasi da ultimo, del partner - dove la pagina erotica, inevitabile per fidelizzare - è meno frequente ma almeno più verosimile.



"Ogni tuo respiro", terza prova letteraria di Irene Cao

Dopo la rapida confezione del secondo, doppio lavoro (Per tutti gli sbagli e Per tutto l'amore) sulla scia del successo della trilogia (Io ti guardo, Io ti sento, Io ti voglio, sempre Rizzoli, più di 400mila copie e traduzioni in molti paesi europei ed extra) e con l’urgenza di cavalcare, letteralmente, il tema, Irene Cao ha capito che gli amplessi distribuiti con regolarità ogni tot di pagine, come la prescrizione di un farmaco, rischiavano di trascinare i personaggi nel cliché, quasi prossimi al ridicolo: lei, sempre bella e con una carica erotica inesplosa di cui è inconsapevole, lui Mr Perfection, acrobatico animale da letto che la inizia ai piaceri della carne, peraltro molto ortodossi. (leggi anche "Trilogia",  " leggi anche " Duologia").

Tranquillizziamo le fan: l’eros c'è anche in "Ogni tuo respiro", ma la storia ne prescinde. Fa parte della fisiognomica dei personaggi: così, quando il primo regolarissimo rapporto coniugale tra la protagonista Bianca e Sebastiano, facoltoso grappaiolo nei dintorni di Bassano, è frettoloso e grezzo, contro il muro del bagno domestico, e lui ci si presenta subito "duro e urgente, come quando con la pala spinge la vinaccia dentro gli alambicchi", non tardiamo a capire che questo dorato matrimonio non andrà lontano. E che lui, lombrosianamente, è un fedifrago: già un po’ pingue, con i capelli diradati, concentrato solo sul suo pene e i suoi distillati.




Bianca ha le caratteristiche cui l’autrice ci ha abituato: artista - come la restauratrice Elena e l’interior designer Linda che l’hanno preceduta negli altri libri - questa volta la protagonista è un’insegnante di danza classica dolce ma coriacea, con un’ambizione da etoile seppellita per amore quando, appena diciannovenne e ammessa alla scuola di perfezionamento del Royal Ballet di Londra, rinuncia a tutto per il facoltoso Sebastiano. Ha fatto il contrario di quello che mamma Sara, un’ex hippy morta giovanissima e, per l’epoca, assai più trasgressiva della figlia, le aveva sussurrato prima di andarsene, “segui sempre i tuoi sogni”, confinandosi nella ricca e gretta provincia degli apericena, a disposizione dell’amato consorte.


Serve solo sbattere il naso contro l’evidenza, perchè le frustrazioni accumulate giorno dopo giorno, senza quasi registrarle, deflagrino dentro Bianca. E allora saranno il ricordo della madre, le sue lettere che custodiscono l’intimità di un’antica amicizia con Amalia in un’unica estate a Ibiza, il suo ciondolo-talismano, a portare la giovane donna lontano dal Veneto, sull’isola dove tutto è cominciato e dove, abbandonato il tutù per il corsetto educatamente fetish, libererà corpo e anima, trovando l’amore ma anche qualche peccatuccio di gioventù di cui non sapeva nulla e che sarà costretta a mettere nella giusta prospettiva dei suoi affetti.


Tra la “scopata senza cerniera”, che Erica Jong teorizzava 43 anni fa con il suo rivoluzionario “Paura di volare”, un anno dopo “Ultimo tango a Parigi”, e le autostrade delle possibilità accoppiative che Youporn spalanca ogni giorno ai naviganti, è passata un’era geologica di tabù abbattuti. Difficile che, quando la cronaca quotidiana è così generosa di ginnastiche sessuali di politici e religiosi, e la rete soddisfa a profusione ogni curiosità residua dei perver-nauti, sulla carta si possano suscitare con credibilità il brivido, lo stupore, figurarsi la curiosità della trasgressione. Che richiede una mente sofisticata, in chi scrive e in chi legge.


Sono tempi da eros politically correct, rassicurante e incline all’happy ending, annacquato tra i buoni sentimenti, un po’ scorri e getta, genere di conforto accessibile a tutti e a cui attingere senza rimorsi nè tantomeno pudori.
Come il lipstick index, che indica la profondità della crisi economica sulla base dell’aumento della vendita del rossetto, cosmetico consolatorio, economico, trasgenerazionale, anche questa morbida ero-lit, in cui Irene Cao si muove ormai con disinvoltura e semina emulatrici (leggi qui Sara Bilotti), misura il tasso di tutti i nostri altri desideri, destinati a rimanere inconfessati e soprattutto insoddisfatti.

@boria_a

L'INTERVISTA

L'eros noir di Sara Bilotti "sfida" il porno-soft di Irene Cao


Il primo libro della trilogia, L'oltraggio (Einaudi Stile Libero)

Due fratelli belli, ricchi, amanti perfetti, Alessandro ed Emanuele, l’uno più intellettuale, l’altro più sensuale. Due amiche cresciute insieme, Corinne ed Eleonora, legate da affetto ma anche da invidie e risentimenti antichi. Una tenuta lussuosa in Toscana in cui le coppie cambiano e gli amplessi girano come in un vaudeville. Una comune dei giorni nostri, in cui tutto si divide, ma tutti hanno qualcosa da nascondere.
 
“L’oltraggio” è il primo libro della nuova trilogia erotica italiana che va alla conquista del mercato (Einaudi Stile libero, pagg. 298, euro 9,00), minacciando di scalzare dal trono delle scrittrici ero-soft la pordenonese Irene Cao. Lo firma la napoletana Sara Bilotti, 43 anni, ex insegnante di danza classica, al debutto nel romanzo dopo una prima raccolta di racconti noir, “Nella carne”, pubblicata nel 2010. Sesso torrido, ma altrettanta attenzione alle zone d’ombra del cuore: questo mix, spiega Bilotti, è quello che nella sua trilogia fa la differenza. Ecco come ce la anticipa.

 
Ha letto le “Sfumature” di E. L. James? «Sì, ma non sono il mio genere. Di solito non leggo romanzi “rosa”, cerco piuttosto un mistero da scoprire. Se hanno avuto successo è perchè esiste una fascia grande di lettrici e lettori che vuole si parli di sesso e di quelle pulsioni che sono una parte autentica di noi stessi, ma che tendiamo a reprimere. Sono divertenti, ma diciamo che il lato oscuro di Mr. Grey non mi bastava».

 
E la trilogia di Irene Cao? «Ho letto il primo libro, “Io ti guardo”, poi mi è mancato il tempo. La sua scrittura mi è più affine, penso che noi autrici italiane riusciamo a dare maggiore profondità e senso alla ricerca su noi stessi che passa anche attraverso il corpo. Irene Cao mi è piaciuta, ma personalmente nei personaggi cerco sempre la contaminazione con un elemento diverso dal sesso, voglio capire che cosa c’è sotto la maschera».

 
La Cao è passata come la James italiana. Lei non ha paura di passare come l’anti-Cao? «Spero di no. Per quel poco che la conosco, è una persona deliziosa. Appartengo a un genere simile ma diverso, più appassionato al noir. Però condividere una fetta dei suoi lettori mi fa piacere, Irene ha avuto un successo pazzesco».

 
Il primo libro della trilogia si intitola “L’oltraggio”. Perchè? «Perchè uno dei protagonisti subisce un oltraggio alla bellezza che ogni essere umano porta in sè, un oltraggio che spezza, che divide l’identità e la porta su due strade diverse: quello che avresti potuto diventare e quello che diventi. L’oltraggio si ripercuote sugli altri, creando un mondo parallelo dove tutti recitano».

 
E i prossimi libri? «Saranno ”La colpa” e “Il perdono”. Che non significa necessariamente un lieto fine. Anche Eleonora ha un suo segreto e un suo danno da risolvere, quando toglie la maschera agli altri dovrà farlo anche a se stessa. Io non scrivo favole. Il finale non è mai definitivamente buono, positivo o negativo. C’è sempre una lettura più oscura, come nelle persone, nella vita».

 
In che cosa è diversa la sua scrittura da quella della James e della Cao? «È difficile parlare della propria scrittura. “L’oltraggio” non è il racconto dell’evoluzione di un rapporto di coppia, come nella James, ma la ricerca di identità da parte della protagonista, il cui corpo diventa un mezzo. Nella Cao c’è molta più introspezione e meno favoletta, in questo ci assomigliamo, ma la mia è una direzione diversa».

 
Come spiega il successo di questi libri erotici scritti da donne? «Forse hanno tirato fuori una frustrazione, il tentativo forzato di reprimersi. Personalmente riconosco i miei istinti, non solo quelli legati alla sessualità, ma anche quelli dell’odio, del rancore. Non li nascondo sotto una maschera, così li controllo. La famiglia del Mulino Bianco è pericolosa. È la finta indifferenza verso la nostra parte più istintiva, è la rappresentazione che castrando certi impulsi negativi li si nutre, li si concentra e li si inasprisce.

 
Secondo lei gli uomini leggono questi libri? «Più di quanto immaginiamo. Finora, però, nessuno di loro mi ha scritto. In rete, nei blog, ho avuto invece tante recensioni di donne, che hanno colto il mistero che è il cuore della mia ispirazione. Che hanno capito che anche in Eleonora c'è qualcosa di respingente. E si sono innamorate di Emanuele». 


Anche lei? «Io amo tutti i miei personaggi, anche negli aspetti negativi. Ma Emanuele è sul podio. È frutto dell’esperienza di più persone. Se esiste? Speriamo di sì». 

 
Tre libri un’esigenza sua o dell’editore? «Avevo una storia lunga da raccontare, ne abbiamo discusso e Stile Libero ha accettato la sfida. Perchè questa lo è. Erano entusiasti degli elementi che diversificano la mia dalle altre trilogie. Così ci siamo detti: proviamoci!».

 
Chi ha letto per primo il libro? «Severino Cesari e Rosella Pastorino della Einaudi. Il manoscritto due, tre amici. Non è mia abitudine far leggere i miei romanzi. Adesso lo sta leggendo mio padre... Nessun problema, ha una mente libera e aperta».
 

E i suoi figli? «Hanno dieci e dodici anni, ancora non è il momento, ma a tempo debito sì. Sono abituati da sempre a vedermi scrivere senza scopo e adesso sono incuriositi dalla mamma “scrittrice”di professione, che rilascia interviste...».
 
Il suo non è un ambiente proprio trasgessivo... «Per niente, vivo a Quarto, alla periferia di Napoli. Da adolescente era complicato. Sono stata educata alla libertà di pensiero e il paese era carico di regole e tradizioni abbastanza soffocanti. Io le ho rotte le regole, ma poi ho anche fatto un passo indietro, perchè non si cambia la testa delle persone. Perciò mi sono ritagliata uno spazio, un nido in un angolo della campagna».

 
Come hanno accolto il libro? «All’apparenza molto bene, anche chi non gradiva il mio modo di essere. Nel paese sono diventata un “personaggio”, gli equilibri sono cambianti. Prima, negli incontri, alle cene, venivo derisa. Non ho mai avuto paura di parlare di politica o di sesso a tavola, argomenti considerati da uomini, non mi stava bene che uomini e donne sedessero separatamente e ho preteso di bere vino nei bicchieri di vetro, non di carta, come quelli riservati alle donne. Siamo a questi livelli...».

 
Ha già in mente qualche nuovo progetto? «Beh, ho quindici romanzi nel cassetto, il primo l’ho scritto a 11 anni, era molto romantico, scoprivo l’altra metà del cielo, ma sempre con un piccolo mistero da svelare. I romanzi sono cresciuti con me e vorrei riprodurre il percorso della scrittura nella pubblicazione».

 
Ce n’è uno cui tiene in modo particolare? «”Schiavi”, dove ci sono molti elementi autobiografici. L’elemento erotico è meno preponderante, ma c’è sempre la caratteristica dei personaggi di sentire col corpo, più che con i sensi o con l’esperienza».

 
Lei è sposata? «Sì, ma mio marito odia la ribalta. È contento di quanto mi accade, ma si mette in ombra e mi chiede di non coinvolgerlo. Non sono sicura che leggerà il libro, non è stato educato alla lettura».

 
Magari presto sarà lui a rimanere a casa...  «Non ce lo vedo. Nel mio ambiente sarebbe una vera rivoluzione. Inaccettabile».

 
Eleonora le assomiglia?
«Nell’atteggiamento verso la disciplina. Ho una parte selvatica, istintiva, ma anche attrazione verso chi la sa praticare».
@boria_a



Sara Bilotti, 43 anni, scrittrice napoletana