domenica 31 luglio 2016

IL LIBRO


 Linuccia Saba contro Marta Marzotto con i riti voodoo


 
Marta Marzotto (foto Roberto Granata)


 
Linuccia Saba con il padre Umberto



La scandalosa, incendiaria relazione tra Marta Marzotto e Renato Guttuso, amore clandestino apertamente praticato per vent’anni, ebbe un’avversaria irriducibile: Linuccia Saba. La figlia del poeta triestino, amica della moglie di Guttuso, Mimise Dotti, non faceva mistero di detestare la contessa proletaria e di condannare la passione che la legava all’artista siciliano. Lo racconta, rivelando un aneddoto inedito, l’ultima biografia di Marta, fresca di stampa, “Smeraldi a colazione” (Cairo, pagg. 287, euro 16,00), scritta a quattro mani con la giornalista Laura Laurenzi, nel capitolo “Mimise è una strega”. Stratagemmi, bugie, diversivi: la storia dei due amanti, per quanto pubblica («tutti sapevano tutto: i nostri rispettivi coniugi, i miei figli, il Partito comunista, l’Italia intera»), viveva di fughe e di incontri, di complicità esterne e di astuzie, di dolori e rancori, da entrambe le parti. «Perchè mi hai dipinto grassa e meno bella?», chiedeva Marta. E Renato la blandiva: in questo modo la moglie, in qualche quadro, poteva vagamente riconoscersi e smettere di tormentarlo.




Maria Luisa Dotti, di otto anni più vecchia, era la compagna degli esordi poveri di Guttuso: una madre - si legge nel libro - più che una compagna o una moglie. Passeggiava ogni mattina e Marta scappava dallo studio prima che lei rientrasse. Ritornava nel pomeriggio e rimaneva fino al momento in cui, dal citofono interno, Mimise annunciava la cena. «Ecco la voce del padrone», commentava Guttuso rabbuiandosi.


Le amiche di Mimise, però, non chiudevano gli occhi. Erano feroci: Linuccia, compagna di Carlo Levi, e Laura Crispolti, moglie del critico d’arte Enrico, che con il marito aveva una galleria d’arte sopra il Caffè Greco a Roma e andava ospite dai Marzotto a Porto Ercole, in villa e in barca. «Mi odiavano - scrive Marta - al punto di fare addirittura dei riti voodoo, delle vere e proprie fatture, nella speranza che mi togliessi di mezzo».


Allude proprio a loro Giancaro Vigorelli, nell’introduzione al libro-catalogo sulla collezione d’arte di Marta Marzotto: «In qualche angolo buio del Caffè Greco alcune donne, a turno, trafiggevano stregonescamente una bambola di pezza che malamente assomigliava a Marta, e la seviziavano, le strappavano i capelli. E quando ne venne a conoscenza, Marta si piantò in faccia alle torturatrici col suo più bel sorriso: “Se proprio volete giocare con gli spilli, sono qui io”».


Quando Mimise morì, nella clinica Villa Margherita, Guttuso chiamò l’amante: «Marta, dove sei stata? Qui nessuno mi dice niente. Corri, stringo i denti fino a farmi male». Lei, da Porto Ercole, si precipita alla residenza di Palazzo del Grillo. Le chiavi non funzionavano più, la serratura era già stata cambiata.


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lunedì 18 luglio 2016

LA MOSTRA

A Trieste nel 1911 la prima donna in pantaloni




 
I primi pantaloni firmati da Paul Poiret





Era la fine di febbraio del 1911 quando un’avvenente signorina, proveniente da Vienna, scese all’Hotel de la Ville di Trieste, scortata da un uomo e con un misterioso baule al seguito. In quell’unico bagaglio era custodita una “bomba”, che, un paio di settimane prima, aveva mietuto le prime vittime a Parigi e a Vienna. Niente da stupirsi, quindi, che la bella forestiera arrivasse nella vecchia provincia dell’impero con un tanto di circospezione e accompagnata da uno chaperon, pronto a venire in suo soccorso in caso di pericolo. Che cosa nascondeva il bagaglio della giovane, tale Pepi Weisenhuber, di professione mannequin? Niente metallo, solo seta, ma ugualmente deflagrante.

La bomba in questione si chiama “jupe-culotte”, la prima gonna pantaloni e l’ultimo grido della moda, che all’esordio parigino, un paio di settimane prima, era stata sepolta da “risa ironiche” e fischi. Sorte ancora più amara per tre dame dell’aristocrazia di Vienna che, sfoggiando il nuovo capo a un ricevimento, si erano viste mettere alla porta senza tanti complimenti.
Questa gelida accoglienza aveva gettato nello sconforto le sartorie viennesi. Gli ordinativi di un certo numero di jupe-culottes erano già stati piazzati a Parigi e ora gli atelier temevano, dopo la reazione degli ambienti d’elite, lo scherno e il dileggio della pubblica via.


Ecco, dunque, spiegata la delicata missione a Trieste e la riservatezza che circondava l’arrivo in città della signorina Pepi e del suo accompagnatore, che altri non era se non il segretario della ditta Gustav Pollak und Bruder. Pepi doveva “testare” le reazioni ai pantaloni femminili a sufficiente distanza di sicurezza rispetto alla compassata e tradizionale Vienna. E per lei, che mai aveva visto il mare prima d’allora, alla comprensibile emozione si sommava la paura che a Trieste - come l’avevano messa in guardia - oltre che fischi e arance - avrebbe potuto rimediare anche un bel bagno nelle acque gelide del golfo.



Lo stile di Paul Poiret


Il gustoso resoconto del lancio della gonna pantalone è riportato, in forma anonima, nell’edizione del Piccolo del 1° marzo 1911. Pepi, in jupe-culotte di seta blu e scarpine francesi “seducentissime”, uscì dall’Hotel de la Ville all’ora del “listòn”, poco prima di mezzogiorno e si incamminò per il Molo San Carlo, che percorse due volte, tra “vivaci esclamazioni” e una curiosità “per lo più maschile”. All’imbocco della via Nuova e poi di via Cassa di Risparmio era già seguita da un codazzo di persone, tra commenti e risate. Nei pressi del caffè Urbanis il corteo si era trasformato in una vera e propria folla e la povera Pepi, temendo la malaparata, ripiegò così in fretta verso piazza Verdi che gli osservatori cominciarono a inseguirla correndo, senza però - precisa il giornalista - fare “atti sconvenienti”. Alla fine la modella, ormai convinta che la minaccia del bagno in mare fosse prossima a diventare realtà, trovò riparo al ristorante Dreher, mentre fuori un centinaio di persone, “tra cui, questa volta, molte signore”, continuava a commentare la nuova “mise”.


Il pezzo del Piccolo fu titolato “Con chiasso ma con successo”. Nel porto dell’Impero, dove le signore erano più libere e smaliziate che altrove, la gonna pantaloni venne registrata come “comoda e pratica” e il suo debutto, pur tra sorpresa, apprezzamenti stentorei e qualche ilarità, fu accolto positivamente. Toilette di “ottimo gusto”, sentenziò l’anonimo redattore.


Anche a questa cronaca di colore del Piccolo si è ispirata Raffaella Sgubin, sovrintendente del Museo della moda e delle arti applicate di Gorizia, per l’allestimento “Guerra e Moda. L’alba della donna moderna”, visitabile fino al 4 dicembre 2016 nella sede di Borgo Castello. Un percorso cronologico con diciotto abiti, riviste, fotografie, accessori, che copre un arco dal 1905 al 1925 e culmina, nella sala centrale, con le donne lavoratrici “al servizio della Patria”. Negli anni della prima guerra mondiale, i pantaloni non sono più un’eccentrica primizia modaiola, ma una necessità per le signore e signorine che entrano nelle fabbriche belliche, a contatto con sostanze tossiche o con macchinari pericolosi.



L'operaia, la crocerossina e la capostazione in mostra al Museo della Moda di Gorizia


«È un cambiamento epocale», spiega Sgubin. «Anche prima della guerra lo stilista Paul Poiret aveva introdotto i calzoni da harem per le donne e aveva abolito il corsetto. Ma Poiret non era interessato alla liberazione del corpo femminile, il suo era un discorso di stile, non “politico”. Si ispirava ad altre culture, all’Oriente, così come Mariano Fortuny con i suoi “delphos” guardava all’antica Grecia. Gli unici movimenti che bollavano il corsetto per motivi igienici erano la Rational Dress Society in ambito anglosassone e la Mode Reform in ambito tedesco, che si legava alla Secessione viennese. Restano però - puntualizza Sgubin - scelte estetiche di movimenti d’elite, come le jupe-culotte. 


Prendiamo Emily Flöte, la compagna di Klimt, che indossava camicioni con il punto vita rialzatissimo e colletti molto alti. Aveva una sartoria e provò, senza successo, a proporre questi capi alle sue clienti. Non andavano. I tempi non erano ancora maturi».

Matureranno di colpo negli anni del conflitto. E questo passaggio, questa rottura con i codici vestimentari del passato, è evidente nella mostra goriziana, che apre con gli ultimi sussulti della Belle Époque, con tailleur e abiti preziosi che, per la ricca signora, scandiscono le diverse occasioni della giornata.
Dietro l’angolo, nell’altra sala espositiva, il mondo 

si è rovesciato. Le donne combattono la loro guerra, crocerossine negli ospedali, capotreno nelle Ferrovie, con tanto di tascapane in pelle e tromba, entrano in fabbrica infilate nella tuta da lavoro, calzate di scarponcini e ghette, per comodità e sicurezza. Un collettino bianco triangolare a ingentilire l’operaia, un merlettino sul collo della ferroviera, sono i residui di un passato di decori a profusione che non ritornerà, meno che mai nel guardaroba. «Il pizzo, la scarpina col tacco a rocchetto che spunta dalla gonna spartana, sono dettagli rivelatori», dice Sgubin. «Pur nell’abbigliamento maschile c’è un dettaglio vezzoso, un tocco di eleganza femminile, anche per le donne impiegate nelle officine, per le lavavetri, le motocicliste». Oppure, come testimoniano le foto da “L’illustrazione italiana” in mostra, per le apprendiste conducenti tramviere, per le operaie ai torni in una fabbrica di spolette, per le addette alla saldatura autogena delle bombarde, per le prime “donne barbiere”.

Nella terza sala, “E la vita continua”, un abito da sposa color avorio, risalente circa al 1917, dalla linea morbida e il punto vita segnato. Una rarità - conferma Sgubin - perchè in quegli anni si andava all’altare soprattutto in tailleur: le licenze degli uomini erano corte, i soldi pochi, il senso di provvisorietà diffuso. Molte giovani spose sarebbero diventate, neanche il tempo della luna di miele, giovani vedove.



L'abito da sposa color avorio, anno 1917, in mostra a Gorizia


Furono gli anni dell’immane tragedia bellica, ma per le donne anche quelli di una nuova libertà nel vestire, una conquista formidabile, da cui non si tornerà più indietro. Lo testimoniano le fatture di Madame Elvira Minzi, premiata corsetteria triestina con negozio in via San Nicolò e salone in via Sanità: intorno al 1914 le signore pagano i busti in corone, dagli anni ’20 spendono in lire per i più moderni reggiseni, che sono riprodotti sulla rinnovata carta intestata del negozio, insieme alla guaina elasticizzata per snellire i fianchi.


Intorno agli anni Trenta tutto cambia ancora una volta. Le gonne si allungano, la moda è più composta. La società è in trasformazione, in Italia il regime irreggimenta anche il guardaroba femminile. Niente più abiti coperti di paillettes e boa di struzzo, per la ragazzina androgina che di notte si muove a tempo di charleston. La donna ritorna a essere prima di tutto fattrice e madre, i suoi fianchi l’elemento da enfatizzare, su cui si appoggia lo sguardo. Si torna indietro mentre si avanza verso un nuovo conflitto. Ma il busto, quello sì, la Grande guerra l’ha sepolto per sempre.

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mercoledì 6 luglio 2016

 MODA & MODI

La spilla punk torna a essere "di sicurezza"




 La spilla da balia di Vivienne Westwood, simbolo del punk e della trasgressione che infilzava il sistema, in questi giorni a Londra, ha riguadagnato il significato delle origini: serve a unire, non due pezzi di tessuto, ma le persone. L'idea è nata su twitter, dall'account "miss pommery 1926" (una signora americana, che si chiama Allison, vive a Londra e si definisce una casuale attivista anti-razzismo), dopo l'impennata nei reati xenofobi legata alla Brexit. La spilla, appuntata semplicemente su quello che si ha addosso, trasmette un messaggio preciso a quanti, dal giorno alla notte, si sono ritrovati "alien", forestieri (guardati con diffidenza, paura, fino a sincero odio, appunto come extraterrestri).
Con me, dice la spilla, sei al sicuro, sono al tuo fianco nel sostenere il tuo diritto a rimanere nel Regno Unito.

"Safety pin", appunto, spilla "di sicurezza". Quotidiano, banale, ordinario oggettino di pratica domestica o "rimedio" da borsetta, proprio per i casi in cui qualcosa si è "scucito", come in Gran Bretagna, che ancora una volta assume un formidabile valore comunicativo. Negli anni del punk, dei Sex Pistols e della Westwood, la spilla da balia urlava tutta la carica sovversiva di un movimento e di una musica, di un modo di vestire e di atteggiarsi, che puntava a scandalizzare, a spiazzare, a rovesciare i valori e i dogmi della società borghese. Significava rottura, irriverenza, anche oltraggio. Voleva disturbare, dare un taglio netto, segnare una cesura: di qua voi, autoreferenziali custodi dell'ordine costituito, di là noi, giovani, irruenti, disturbatori.




La spilla di sicurezza di Allison va in tutt'altra direzione. È stata scelta proprio perchè ognuno ne ha una in casa, non deve uscire per comprarla, è "neutra", senza coinvolgimenti politici o ideologici. Portarla sul bavero della giacca o del soprabito, dà una "sicurezza" a chi vive in Inghilterra da immigrato, proprio come Allison, che però è bianca, madrelingua inglese, e quindi avvantaggiata rispetto agli altri stranieri. Senza bisogno di alcuna parola, suggerisce a chi è vittima di attacchi xenofobi, o si sente indesiderato, che ha un alleato al suo fianco, anche solo per parlarne.


La spilla che le bambinaie usavano per fissare i pannolini pre-pampers e la spilla battagliera dei punk, si ritrovano: vogliono tenere insieme le persone (e il paese) con la provocazione dell'unità.

lunedì 4 luglio 2016

IL LIBRO

 Strade di donne a Trieste e Muggia, fotografate dalle donne


Strade dal nome di donna fotografate da donne. Strade intitolate a Cecilia de Rittmeyer, Sarah Davis, Kathleen Foreman Casali, ricche, colte, cosmopolite, ma soprattutto benefattrici, attente agli ultimi di Trieste, cui hanno lasciato i loro averi. Strade che ricordano semplici artigiane e commercianti, come la “fabra” Maria Toros che, alla morte del marito, intorno al 1850, continuò a lavorare il ferro nella bottega vicino piazza Goldoni. O la “venderigola” di frutta e verdura proveniente da Pirano, cui è dedicata la “Piranella” sul colle di San Giusto, via minuscola ma coriacea, capace di resistere agli attacchi della toponomastica maschile, indignata per l’omaggio importuno a una “femminetta”.
Strade di donne partigiane, Martina Bernetic, la prima slovena a ricevere quest’onore e proprio nel suo rione, San Giacomo, Ondina Peteani e Alma Vivoda, che si sono sacrificate per la libertà di tutti. O, donne che al lavoro hanno sacrificato tutto, gioventù e affetti, come Marianna Di Domenico, morta nel 2004 sotto un’inscatolatrice del pastificio Zara, dove intervenì, in un beffardo gioco del destino, il marito carabiniere.



L'intitolazione di un strada a Marianna Di Domenico, l'operaia morta al pastificio Zara di Muggia (foto Marisa Ulcigrai)


È una contabilità perdente quella della toponomastica al femminile: 43 strade “femmine”, tra Trieste e Muggia, oltre 700 quelle “maschie”. Un abisso, nonostante l’accelerata nelle intitolazioni degli ultimi sette anni, che ha rinforzato la “mappa” di genere con, tra le altre, l’attrice Ave Ninchi, la cantante Fedora Barbieri, la scrittrice Marisa Madieri, la pittrice Leonor Fini, la cestista Chiara Longo, le fotografe Wulz, la studentessa infoibata Norma Cossetto.


Giardino Leonor Fini nell'interpretazione di Marisa Ulcigrai


È stata quasi una sfida, allora, quella dell’associazione Fotografaredonna, che, con le sue professioniste, appassionate e neofite, ha letteralmente percorso tutte le strade femminili di Trieste e Muggia, interpretandole con l’obbiettivo. Questo lungo lavoro, preceduto da workshop di approfondimento storico, sulla foto contemporanea e sull’utilizzo del photoshop, è sfociato nel libro “#Fuori dove la parità non esiste” (La Mongolfiera libri, pagg. 176), firmato dalla presidente del sodalizio, Marisa Ulcigrai e da una delle fondatrici, Sandra Grego, con il coinvolgimento di molte storiche per le schede informative sulle protagoniste.
«Non una guida turistica», precisa subito Ulcigrai. Piuttosto un racconto per immagini, che, di volta in volta, si fa documentazione, suggestione, elaborazione, secondo la sensibilità e le preferenze di ciascuna fotografa. A loro si è aggiunta Paola Di Bello, professionista e docente, con la sua ”lettura” di via dell’Annunziata e di via Madonnina in una sequenza ininterrotta di ritratti, quasi cinematografica, della gente che ci passa.


 In principio furono Madonna e sante, tra Settecento e Ottocento. La prima strada “databile” è via Santa Teresa, anno 1887, mentre l’intitolazione “sospesa” è quella alla scrittrice Marica Nadlišek, approvata dalla giunta comunale di Trieste nel novembre 2015 e in attesa che sia individuata un’area verde nella zona di Strada di Guardiella.

L’approccio al lavoro di Fotografaredonna è partito dalla cronologia ricostruibile, poi si è sviluppato per affinità di temi. Via delle Monache, via Santa Maria Maggiore, della Madonnina, dell’Annunziata, le strade del culto mariano, tra scorci di paesaggio e sprazzi di spiritualità. In via della Madonna del mare i commercianti che resistono, nonostante la pedonalizzazione promessa e mai arrivata. Vicolo Santa Chiara, abbruttito dai graffiti, via Santa Caterina, colorata dalle stoffe in saldo dell’Emporio Istriano.


Calle delle Monache a Trieste (Marisa Ulcigrai)


Anche l’800 è secolo di intitolazioni spirituali, prima che il ’900 cominci ad aprirsi alle donne, omaggiando pubblicamente le benefattrici. Ecco, allora, nel libro, le donne al lavoro nel Mercato coperto, edificio donato da Sarah Davis per riparare le “venderigole”, ecco i giovani ipovedenti che imparano un mestiere all’istituto Rittmeyer, dono della baronessa Cécile.


Via Margherita nella foto è una geometria di cielo, perimetrata da cemento, viadotto e un ritaglio di verde. Lei era l’anconetana Margherita Maiocchi, sposa di Bartolomeo Ravasini di Momiano, morta nel 1880. Non ne sappiamo nulla, non abbiamo una sua foto, non fece nulla di eclatante, ma fu amata e ricordata: il terreno per una nuova strada lo donò all’amministrazione il figlio Angelo, purchè portasse il nome della mamma. Anche la rimessa dei tram della Società Triestina Tramway si chiamò “Margherita” e da lì, la sera del 1° ottobre 1990, uscirono tre mezzi con illuminazione interna, inaugurando, in qualche modo nel segno di una donna, la prima linea di tram elettrici.
Via Rita Rosani e via Laura (e Silvano) Petracco, partigiane: in una collettiva di scatti, Fotografaredonna le racconta attraverso il verde, i fiori, gli alberi, la libertà di spaziare con lo sguardo. Foto evocative per le artiste e le letterate: giardino Fedora Barbieri, col rosso denso di un sipario che cala sul palcoscenico, giardino Leonor Fini, attraversato dalla silhouette della pittrice di schiena, disegnata nel buio verso un punto luce, giardino Marisa Madieri, la scrittrice col brevetto di volo, parole e un pezzo di azzurro. Giardino Chiara Longo, cestista, insegnante, mamma, morta a quarantaquattro anni: un canestro di verde stagliato contro il cielo, il senso dello slancio, la proiezione verticale.



Giardino Marion e Wanda Wulz, interpretato da Nadia Sirca


Tecniche, interpretazioni, colori diversi. Sono tanti gli sguardi di fotografe donne che raccontano le strade delle donne. Strade in salita, come Erta Sant’Anna, che una madre percorre con la figlioletta, a tratti portandola in braccio, a tratti lasciandola libera di provare a camminare. Un’unica foto di cronaca, quella che cristallizza l’intitolazione a Marianna Di Domenico, l’operaia morta in fabbrica. In tutti i sensi, foto simbolo di un lungo cammino da compiere.

sabato 2 luglio 2016

 L'INTERVISTA

Angela e Luca Missoni vestono l'Orfeo in Giappone


Angela Missoni, direttore creativo di Missoni
 



Avrà i colori di Missoni “Japan Orfeo”, l’opera basata sulla favola in musica di Monteverdi che celebrerà il 150° anniversario della firma del primo trattato d’amicizia e commercio tra l’Italia e il Giappone con quattro rappresentazioni, il 7 e 8 ottobre 2016 al tempio Tsurugaoka Hachimango a Kamakura e il 12 e 13 ottobre 2016 al Metropolitan Concert Hall di Tokyo. «È un progetto curioso, particolare, che intreccia linguaggi diversi», anticipa Angela Missoni, direttore artistico del brand, che lavorerà ai costumi insieme al fratello Luca.

Dopo Valentino per “Traviata” e Pierre Cardin per Dorian Gray (alla Fenice di Venezia il  6 e 7 agosto) anche i Missoni si misurano quest’anno con l’opera, in un evento che coinvolge compagnie di teatro e danza giapponesi, ballerini di pizzica salentina e interpreti italiani di punta del repertorio barocco, per la regia di Stefano Vizioli e la direzione d’orchestra di Aaron Carpenè.

«Abbiamo un lungo rapporto col Giappone - racconta Angela - siamo stati la prima azienda italiana moderna a portarci il prêt-à-porter a metà degli anni ’70. Un amico ci ha messo in contatto col regista e per una sinergia fortunata i tempi della nostra collezione maschile erano compatibili con la realizzazione dei costumi, che sono un adattamento dalla moda Missoni all’opera. Per me è anche una piacevole occasione di tornare a collaborare con mio fratello Luca nella creazione di abiti, non ci capita spesso».

Tra l’opera di Monteverdi, la mostra al Fashion and Textile Museum di Londra dedicata all’arte di Ottavio Missoni e il “Missoni Baia”, gigantesco complesso residenziale a Miami, (57 piani di appartamenti di lusso vista oceano) firmato dall’architetto Hani Rashid, di cui Angela, questa volta con la madre Rosita, cura gli interni (ed è la prima volta che l’azienda affronta un progetto residenziale), i Missoni attraversano un momento di grande effervescenza, su tanti fronti (www.missonibaia.com).

Ma cominciamo a parlare con Angela proprio dei costumi del Japan Orfeo. (leggi anche Missoni a Londra)

Come saranno? «Danzatori e danzatrici hanno bisogno di capi che consentano il movimento e riempiano la scena. In realtà sono pezzi dalla nostra collezione estate 2016, che funziona con lo spirito dell’opera. Ci saranno gonne ampie, camicie grandi, voluminose, tutte stampate con i nostri colori».


È la sua prima opera? «Sì, la prima. Nel 1983 fa mio padre e mio madre disegnarono i costumi per la “Lucia di Lammermoor” alla Scala. Mia figlia Margherita era appena nata, mi ricordo che la allattavo e andai nel camerino di Pavarotti».


Com’è stata accolta la mostra londinese sul rapporto di suo padre Ottavio con l’arte e gli artisti? «È un grande successo, con un numero di visitatori sorprendente. Siamo molto felici perchè lì gli spazi sono ridotti, la mostra è un concentrato di quella allestita nel 2015 al Ma*Ga di Gallarate. È stata una sofferenza dover scegliere la quarantina di capi da esporre, com’era stata una sofferenza scegliere i 100 di Gallarate. Ma è comunque una selezione esplicativa di un mondo di temi affrontati».


Trieste, la città che suo padre tanto amava, è rimasta orfana... «Queste mostre non sono state pensieri nostri. Il Ma*Ga e Londra ci hanno invitati. Anzi, ci farebbe piacere se un museo di Trieste mettesse a disposizione i suoi spazi».


E il prossimo anno anche lei festeggia... «Vent’anni alla direzione creativa dell’azienda. Ho già in testa un progetto ben chiaro. È un miracolo che Missoni abbia mantenuto sia un posizionamento sia un’immagine così pulita e precisa in un mondo globale della moda e del lusso che, in questo lasso di tempo, si è totalmente trasformato».


Pochi giorni fa un marchio di origine triestina come Curiel è stato comprato dai cinesi, Mila Schön è da tempo in mano ai giapponesi. Voi resistete... «Non abbiamo nè prospettive nè interessi di vendita. E, per il momento, neanche di quotazione in Borsa. In futuro vedremo, valuteremo che finanziamenti ci vogliono. Oggi non c’è alcun progetto in corsa».

Siete un brand familiare arrivato alla terza generazione in azienda. C’è un segreto in questa continuità, che non è affatto scontata? «Non conosco le altre realtà, di certo nella nostra c’è una passione comune per la moda che passa soprattutto attraverso la linea femminile della famiglia. Abbiamo una condivisione di gusto e visione pur tra generazioni e identità diverse. Tutti sentono proprio il progetto e lo stile. Il brand va oltre il valore di riferimento della famiglia. Sia chi lavora in azienda sia gli altri partecipano e si rendono utili per la nostra storia e il nostro marchio».




Angela Missoni con le figlie Margherita e Teresa e, sotto, con Margherita e la mamma Rosita


Nell’ultima collezione uomo avete presentato un tessuto di 83 colori diversi creato sui telai storici di Sumirago. La direttrice del Ma*Ga, Emma Zanella, dice che il vostro archivio è un museo d’impresa. Che valore ha per voi la memoria? «Un grande valore. Ogni pezzo di stoffa, ogni documento viene salvato. Abbiamo migliorato i sistemi di catalogazione e reso tutto il materiale più fruibile per noi. Adesso ci piacerebbe realizzare un museo Missoni, sarebbe fantastico aprirlo anche al pubblico, abbiamo tanto da condividere col mondo. Chissà, magari ci riusciremo». 


Suo padre Ottavio come vi ha trasmesso il legame con Trieste? «Mio padre era un personaggio in tanti sensi. Non ci ha fatto pesare la guerra nè le case perse in Dalmazia, non ha idolatrato i suoi anni sportivi. Ci ha sempre lasciati liberi. Raccontava, ma i suoi racconti erano fluidi. Per noi Trieste è un punto di memorie e di ricordi, ma non è di più. Le mie radici e la mia vita sono qua, a Sumirago, i miei figli e i miei nipoti vivono qui. Quando sento pronunciare Trieste il sorriso mi arriva fino alle orecchie, così come quando mangio (e cucino) jota o prosciutto cotto. Piazza Unità mi emoziona sempre, la Dalmazia mi dà la pelle d’oca. Mi fa piacere che in famiglia ci sia questa multiculturalità, che si sappia che arriviamo da lì. Questo è per noi Trieste: la città dell’accoglienza».


Verso cosa va la moda Missoni oggi? «Sono riuscita a mantenere il marchio dov’è guardando sempre avanti, al futuro, al mondo com’è. Non spulcio l’archivio, ho una memoria mia che custodisco, che sfrutto, che impregna il mio lavoro, ma senza voltarmi indietro. Può capitare di fare un omaggio a qualcosa, mai di ripetere il passato, è nella mia natura».


Per lei è stato difficile raccogliere un testimone così pesante? «Non so se all’epoca fossi più incosciente o coraggiosa, o le due cose insieme. Ma ero supportata, è stata mia madre a chiedermi di assumere il suo ruolo. Stavo facendo la mia collezione e lei mi disse: “Quello che fai è quello che vorrei Missoni fosse oggi”. Partire così è stata una bella sicurezza, la fiducia di essere sulla strada giusta. Mio padre si mise a disposizione. “Tu sai quello che so fare, sono al tuo servizio”. Sono stati tutti e due molto speciali. E poi sono cresciuta con grande libertà, con senso critico, ho le spalle larghe, mi prendo molte responsabilità e sopporto uno stress elevato senza perdere la trebisonda. Questo mix, è probabile, ha fatto sì che ci sia riuscita...»


Vent’anni non sono pochi. «È vero, mi rendo conto di essere ormai un’”anziana stilista”. In vent’anni è cambiato un mondo, oggi sicuramente la moda sono molti mestieri insieme. E la comunicazione ha un valore eccezionale, l’aggiornamento digitale l’ha cambiata completamente. In vent’anni ho visto un capovolgimento radicale, epocale, ho imparato un alfabeto nuovo».


Crede nei talent di moda? «Sì, certo. Oggi il mercato è più grande, la moda è un’industria importante a tutti i livelli, ha la capacità di assorbire tante persone. Non tutti diventeranno teste di serie, non tutti arriveranno sino in fondo, al vestito finito, ma potranno essere impegnati in altre sfaccettature dell’industria, ci sono molte parti tecniche che hanno bisogno di professionalità, ricami, tessuti... Servono anche occhi creativi, che hanno la freschezza del contatto col mondo. L’importante è entrare in azienda con una cultura della moda».


Lei che ricordo conserva di suo padre? «Mi accompagnava all’asilo, ero la più piccola, con me era molto affettuoso. Poi il periodo lunghissimo delle vacanze in Dalmazia. E il suo modo particolare di educarci, senza divieti. A tredici anni avevo cominciato a fumare e lui se n’era accorto. Non mi disse nulla. Un giorno eravamo in auto insieme, me lo ricordo come fosse adesso, ogni particolare, com’ero vestita, che borsa avevo. “Mi accendi un sigaretta?”, mi chiese semplicemente».


Che cosa le piacerebbe fare in un prossimo futuro? «C’è un libro che manca, un libro sui Missoni, su tutti noi. Nel 2017 sono anche i 64 anni del nostro marchio. Speriamo che questo progetto si finalizzi presto».

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