venerdì 30 dicembre 2016

 LA MOSTRA

Le sete, i colori e i sogni di Roberto Capucci dentro Villa Manin



Roberto Capucci con l'abito "Cerchio" (foto Niccoli)


Quattrocentottanta abiti. Ventiduemila disegni, molti inediti. Diecimila illustrazioni. Fotografie, audiovisivi, un’imponente rassegna stampa. La vita e la storia di Roberto Capucci, 86 anni, stilista, artista, creatore di sogni, tra pochi mesi saranno racchiuse negli spazi di Villa Manin. La Fondazione che porta il suo nome si trasferisce da Roma a Passariano, negli edifici un tempo occupati dalla Scuola di restauro dietro l’esedra. Un archivio che ha un valore economico impressionante, intorno agli otto milioni di euro. Al di là dei numeri, però, il lascito che si assicura la dimora dogale ha un significato molto superiore. E non solo perchè l’archivio Capucci è inalienabile, riconosciuto dal ministero di particolare importanza culturale, ma perchè in quei chilometri di taffetà, sete e organze plissettate, nei bozzetti che il maestro continua a creare ogni giorno (arricchendo così la raccolta), negli abiti-scultura, nelle testimonianze delle mostre, delle sfilate, dei viaggi, è racchiusa la carriera di un creativo strordinario, al di là di tutte le definizioni, e un capitolo irripetibile della storia della moda italiana. Che Roberto Capucci, poco più che ventunenne, iniziò nel 1951, all’alba del made in Italy. Cinque anni dopo la stampa internazionale lo incoronava migliore stilista italiano, due anni dopo vinceva l’Oscar della moda per la sua linea "a scatola" insieme a Pierre Cardin e a James Galanos, scomparso nell'ottobre 2016.


Un abito di Capucci

 

L’operazione sull’archivio della Fondazione Capucci è iniziata nel 2014 e ha coinvolto l’artista in prima persona, l’assessore regionale alla cultura Gianni Torrenti, il direttore della Fondazione e nipote dello stilista, Enrico Minio Capucci, l’allora sovrintendente dei Musei goriziani e oggi direttore del Servizio musei e archivi storici dell’Erpac, Raffaella Sgubin, la direttrice regionale dell’assessorato alla Cultura, Anna del Bianco. Nei giorni scorsi è stata approvata la delibera di giunta che assegna gratuitamente alla Fondazione gli spazi di Villa Manin, come gratuitamente la Regione si è assicurata l’archivio, della cui catalogazione e digitalizzazione si farà carico.

L’adempimento burocratico è cronaca recente. Il rapporto di Roberto Capucci con il Friuli Venezia Giulia è nato però molto prima della decisione del trasferimento dei materiali, nel 2004, l’anno della grande mostra di 110 abiti promossa da Raffaella Sgubin a Palazzo Attems-Petzenstein, che lo stilista seguì e allestì personalmente, tornando poi molte volte a Gorizia per prendere parte alle conferenze e visitare le altre esposizioni che ai Musei provinciali si sono succedute negli anni. Le ultime trasferte in Friuli nei mesi scorsi, per i sopralluoghi negli ambienti di Villa Manin: già climatizzati, blindati, dotati di tavoli per il restauro dei tessuti, aspettano soltanto le architetture aeree e i disegni di Capucci. Oggi il patrimonio della Fondazione è distribuito tra Roma e il Museo Bardini di Firenze, che rimarrà comunque aperto e funzionante, in sinergia con il “cuore” friulano.



Uno dei disegni di Roberto Capucci



L'abito firmato da Roberto Capucci che Rita Levi Montalcini indossò alla cerimonia per il conferimento del Nobel


Il trasloco a Villa Manin inizierà nei primi mesi del 2017, come illustra l’assessore Torrenti. Prima il trasferimento dei macchinari della Scuola del restauro a Palazzo Alvares di Gorizia, sulla stessa strada che porta a villa Louise, per il cui rifacimento nel 2017 partirà la gara di progettazione con un intervento di 5 milioni di euro, mentre altri 4 arriveranno da fondi europei e saranno destinati all’avvio in quella sede dell’incubatore di imprese e design della moda.


Tra il 2017 e 2018 la Regione attiverà nuovamente a Palazzo Alvares il ciclo di formazione per il restauro della carta e, tra il 2018 e 2019, si completerà la lunga procedura per il riconoscimento ministeriale del corso in restauro dei tessuti, anch’esso da riaprire. «La raccolta della Fondazione Capucci è un eccezionale arricchimento per Villa Manin - dice Torrenti - e noi ci auguriamo che contagi l’intera residenza e ci costringa a rispondere a un’idea di eleganza forse un po’ trascurata. Vorremmo anche ampliare le collezioni del Museo della moda di Gorizia, estenderle oltre gli anni Venti. In regione i centri di interesse per la moda e il tessuto sono molti: Gorizia, con il museo e la Fondazione scuola merletti, Fagagna, Paularo con i suoi ricami, il restauro dei paramenti sacri al Seminario di Pordenone. Crediamo che la Fondazione Capucci sarà in grado di innescare un circolo virtuoso tra tutte queste realtà, una grande sinergia sul territorio, che magari porti alla nascita di nuove imprese manifatturiere della moda».


Tutto l’archivio Capucci dovrebbe essere sistemato entro l’estate. Poi, dall’autunno 2017, la collezione sarà esposta in una mostra di respiro internazionale, che sarà presentata in gennaio a Roma e coinvolgerà l’intera villa. «Non sarà un’antologica, ma vorrei che seguisse i temi della sua ispirazione», anticipa Enrico Minio, che cura il progetto espositivo, i cui dettagli verranno messi a punto insieme ad Antonio Giusa, a capo del Servizio promozione dell’Erpac. «Penso, per esempio - prosegue Minio - a uno spazio dove affiancare la marsina rossa di Capucci del 1992, il dipinto di Mozart con la marsina rossa, in arrivo da Vienna, e due lettere che il compositore indirizzò alla sua protettrice, la prima in cui le chiedeva come poter avere quel capo e, la seconda, di ringraziamento. Un attore le reciterà in tedesco e in italiano, con il sottofondo delle arie giovanili dell’artista».



La marsina firmata da Capucci nel 1992


I primi abiti dell’archivio risalgono al 1951, rifatti («perchè all’epoca - ricorda Minio - si disfavano, non si usava salvarli») sui cartoni originali e sotto la direzione di Roberto Capucci, a volte anche con gli stessi tessuti, fortunatamente conservati nei magazzini dello stilista. I primi originali risalgono al 1962, gli ultimi al 2012. Dei 22mila disegni in arrivo a Villa Manin, alcuni sono più “tecnici”, eseguiti da Capucci o dai suoi assistenti per le collezioni, altri sono schizzi, compresi gli inediti che il maestro ha realizzato agli inizi della carriera, un po’ ovunque, perfino sulle agende della banca. «Mio zio ha sempre dato grande importanza al disegno, ha studiato al liceo artistico e poi all’Accademia delle Belle Arti» testimonia Enrico Minio. «Per ogni collezione realizza fino a trecento disegni. Quando inizia non riesce a fermarsi, per lui disegnare è vivere».


Da ultimo, le diecimila illustrazioni. Abiti, ma anche costumi teatrali e altri soggetti. Ai costumi di Capucci sarà dedicato un articolo in uscita sul prossimo numero di FMR, mentre il giornalista Gianluca Bauzano è il curatore di un libro sullo stilista, con disegni e fotografie, edito dalla Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte. Di queste pubblicazioni si parlerà a Villa Manin, in un 2017 che sarà tutto sotto la stella Capucci.


Al trasferimento dell’archivio è legata infine un’importante iniziativa formativa. Si chiama “High Know How”, un master di sei mesi dedicato sia a chi vuole diventare designer sia a chi è già in attività. «Intendiamo insegnare come “costruire”, come “fare”, abiti e accessori - spiega Minio - in modo che gli stilisti possano dialogare efficacemente con i modellisti, e non finiscano per chiedere pezzi irrealizzabili».


 
Capucci a Palazzo Attems-Petzenstein per la sua mostra del 2004


Il master, grazie alla collaborazione con l’Università telematica UniNettuno, potrà essere svolto in parte online e darà crediti formativi ai partecipanti. L’idea è di attirare in regione studenti dagli Stati Uniti e dal Sud Est asiatico, mercati molto sensibili alle professioni della moda, sulla cui formazione “europea” investono sostegni e borse di studio. A Codroipo ci sono già gli spazi per ospitare questa scuola di alta sartoria, ma non è escluso che la sede possa essere Trieste, certamente più attrattiva per giovani che arrivano dall’altra parte del mondo. Magari quella bellissima e dimenticata Villa Stavropulos, sopra Grignano, che, per lascito modale nel testamento del mecenate Socrate a favore del Comune, deve essere destinata alla formazione di giovani artisti. E Capucci l’ha testimoniato lungo tutta la sua vita: arte e moda possono essere molto vicine, in alcuni grandi la stessa cosa.
@boria_a

lunedì 19 dicembre 2016

MODA & MODI

 Mi vesto da avocado


 


Bisestile fino all’ultimo questo 2016. Nemmeno l’oroscopo cromatico per il prossimo anno ci regala una gioia da mettere sotto l’albero e coccolare in attesa di tempi migliori. Diretto come un siluro è arrivato il verdetto di Pantone, l’indiscussa, e altrettanto sconosciuta ai più, autorità mondiale del colore, che sotto le feste di fine d’anno decreta la tinta più glam, con cui ci vestiremo, truccheremo, arrederemo la casa nei prossimi mesi. Insomma, la sfumatura che ci farà sentire al passo con i tempi, che dagli abiti esprimerà un umore e un atteggiamento con cui affrontare il nuovo anno.

Per il 2017 la previsione è sinistra. L’uomo Pantone ha detto “Greenery”, e se vi suona un po’ come “grocery” non avete sbagliato troppo, siamo sempre dalle parti delle verdure. Non un verde qualsiasi, però, sarebbe troppo generico e deludente per le milionate di fashioniste che restano ansiosamente appese al verbo di Pantone, diffuso dalla società americana dopo accurati studi e comparazioni delle tinte più gettonate, dalle passerelle all’arte.


Il “greenery” non è ombroso come uno spinacio o brillante come un pisello, ma è il verde percorso da una venatura di giallo dell’avocado. Delicatissimo, come questo frutto esotico. Pronto a tradire: a volte duro e crudo, a volte già un poco troppo morbido e sul punto di convertirsi in un antiestetico marrone. Il “greenery” non fa pensare a niente di rilassante,“sostenibile” o “ecofriendly”, ha piuttosto una punta diabolica e pungente. Un eccitante che può farci andare fuori controllo.

Anche nel 2016 Pantone non fu magnanimo. Puntò su “rosa quarzo” e “blu serenity”, due colori da guardaroba prenatal, tutti zucchero e promesse di armonia universale, di cui sulla strada si sono viste poche tracce e che ora penzolano (soprattutto i cappottini confetto) tra le occasioni dei saldi. Dovevano infonderci serenità, ma i colpi di scena sugli scenari internazionali, dalla Brexit a Trump, e il perdurare delle magagne globali, hanno spinto altre tinte: il rosso battagliero, il grigio corazza, il blu impenetrabile, il glitter che abbiamo indossato dai berretti alle scarpe, come se mandassimo strali.


Questo verde ancora tenero - spiegano i guru di Pantone - ci infonderà l’energia, la vitalità, il senso di rigenerazione di una nuova stagione che nasce. È un colore giovane e battagliero, ma si adatta agli altri, come dovrebbe essere il nostro spirito nell’affrontare i problemi. Superato il primo, saremo già a metà strada: uscire di casa di greenery vestite.

@boria_a
 

martedì 13 dicembre 2016

L'INTERVISTA

Ashley Bouder, neomanna sulle punte a Trieste


Ashley Bouder in scena (foto Massimo Danza)




Su Instagram e Twitter migliaia di follower hanno seguito giorno per giorno il diario della sua “spettacolare” gravidanza. L’hashtag scelto era #bouderbump, ma avrebbe funzionato altrettanto bene #wonderbump. Ashley Bouder, prima ballerina del New York City Ballet e mamma in attesa, non ha mai smesso le scarpette: sul palcoscenico si è esibita fino alla ventesima settimana, ma ci tiene a dire che ha danzato anche il giorno della scadenza, poco prima del lungo e laborioso travaglio che ha portato alla nascita di Violet Storm de Florio, il 4 maggio scorso.

Quando era incinta di quattro mesi e la pancia appena appena cominciava a farsi notare, sostituì una collega infortunata per due rappresentazioni dello “Schiaccianoci” di Ciaikovskij a New York. E in questo titolo, ma con un allestimento tutto italiano, la vedremo protagonista da mercoledì 14 a domenica 18 dicembre 2016  sul palcoscenico del Teatro Verdi di Trieste, in coppia con Andrew Veyette, lo stesso partner che l’ha accompagnata al ritorno in scena dopo la maternità. La regia e la coreografia dello spettacolo triestino sono di Amedeo Amodio, le scene e i costumi originali di Emanuele Luzzati, mentre del Teatro San Carlo di Napoli arrivano Anbeta Toromani e Alessandro Macario, la coppia di danzatori che si alternerà con quella americana nei ruoli principali.



"Lo schiaccianoci" con Ashley Bouder (foto Massimo Danza)


Del racconto di Hoffmann, di cui quest’anno si celebra il bicentenario dalla pubblicazione, Amodio recupera le ombre, gli aspetti magici e fiabeschi, in una lettura del testo che, nel contrasto con le tinte brillanti della tavolozza di Luzzati, rende ancora più sfumato il confine tra realtà e fantasia. Sul palco trentasette danzatori, un trampoliere e le ombre ideate da Teatro Gioco Vita e realizzate dalla Compagnia Asina dell’Isola, a dirigere l’Orchestra del Verdi il maestro Alessandro Ferrari.

Ashley Bouder, 32 anni, ha i capelli corti e una spiccata attitudine social. Nei suoi account le immagini di lei in sala prove, in sala trucco e sul palco, si alternano a quelle della bambina, co-protagonista nel diario virtuale della mamma da quando era un esserino di pochi centimetri. «Mi manca moltissimo - confessa la ballerina, appena arrivata a Trieste due giorni prima del debutto - ma la rivedrò presto. Mio marito e Violet Storm mi raggiungeranno a Palermo, dove ballerò lo “Schiaccianoci” durante le vacanze di Natale. Ancora una settimana e saremo tutti insieme».


Empatica sul palcoscenico e in rete, dove con grande spontaneità divide con i fan i successi professionali, le opinioni politiche e qualche pagina di privato, Ashley non nasconde i timori che l’hanno accompagnata durante i nove mesi: «Certo che ero spaventata. Avevo paura di perdere qualcosa della mia tecnica e della mia capacità di saltare, ma non è successo. La prima volta che ho danzato dopo il parto non ero così veloce come in passato, ma non mi sono preoccupata e, a poco a poco, tutto è tornato a posto. La cosa più difficile da recuperare è stata proprio la velocità».
 

Nove ore ogni giorno al New York City Ballet, mentre la piccola è all’asilo. E un’agenda già piena di impegni. Dopo lo Schiaccianoci, a febbraio ballerà “La bella addormentata” nella compagnia newyorkese e poi si esibirà in due date con un progetto di danza indipendente che porta il suo nome e coinvolge diversi artisti. «Come combino i miei ruoli? Mi organizzo bene. Per fortuna - racconta Ashley - la bambina è tranquilla, dorme di notte, piange poco. Mio marito ed io non siamo nervosi, a casa tutto fila liscio, ma ho scoperto che la maternità mi ha reso più calma anche in palcoscenico. Non mi preoccupo più come prima di tutto quello che mi succede, non spingo troppo, danzo in maniera più libera e mi diverto di più».
 

Il nome Violet Storm, dunque, ha poco a che fare col carattere della neonata. «In realtà - spiega la ballerina - l’abbiamo chiamata “storm” (tempesta) per tre ragioni diverse: la bambina è nata il 4 maggio, nel giorno di Star Wars, di cui mio marito è un grande fan. Lui poi ha un secondo nome, “rainbow”, arcobaleno, che si combina bene con la tempesta. Terzo, durante il travaglio e al momento del parto New York era sotto una bufera di pioggia e vento. Violet, invece, ricorda il mio colore preferito ed è un omaggio a Violette Verdy, la danzatrice che per me è un idolo, morta tre mesi prima della nascita di mia figlia».
@boria_a

sabato 10 dicembre 2016

IL LIBRO

Che strazio dirsi addio al tempo dei social


 



Che strazio lasciarsi ai tempi della rete. Nessun taglio netto, nessuna definitiva sparizione dell’oggetto del desiderio dal nostro panorama fisico, oltre che sentimentale, nessun telefono muto a dirti che la storia è finita. Se la virtualità moltiplica gli amici immaginari, e ci fa sentire meno soli e più popolari, ha il tremendo svantaggio di dilatare all’infinito il processo della separazione. Con un clic sui social network dell’ex (o sui profili degli amici più stretti, perchè le impostazioni privacy aperte di certi esibizionisti sono un rifugio per gli abbandonati in cerca di rassicurazioni) ci si può illudere che la storia sia ancora in un limbo, che possa essere ricucita, ripresa per i capelli.


Ester Viola


Finchè, non si sa quando, è proprio la rete a darci la mazzata, a tradimento ci notifica il tradimento. Prima solo un mezzo sospetto, poi uno dietro l’altro i dettagli convalidanti: uno sfarfallio di cuori Instagram nel profilo di una biondina sconosciuta, la prima foto insieme e via postando ogni passaggio della nuova coppia. Se dieci anni fa le pene d’amore potevano perfino guarire prima grazie all’ignoranza (nostra) e al silenzio (dei pochi mezzi di “connessione” esistenti), oggi Facebook o Instagram rendono lo stalkeraggio virtuale una tentazione irresistibile.


Lui e i suoi status (i suoi cuori, se non più il suo cuore), sono sempre a portata di tastiera e la paranoia di monitorare foto, condivisioni e like schizza alle stelle. Meglio sapere, che immaginare. Del resto, «lasciarsi non è mai quando ci si lascia: è una cosa che succede quando non puoi più negare che il tuo ex si è innamorato di un’altra». In questo i social sono carnefici. E non è un bel momento quando scopri che Mark Zuckerberg comincia a parlare proprio dei fatti tuoi. Cioè, a inchiodarti all’evidenza.

Impossibile non ritrovarsi nel fulminante, corrosivo, brutalmente reale “L’amore è eterno finchè non risponde” (Einaudi I Coralli, pagg. 218, euro 17,00) dell’esordiente napoletana Ester Viola, che, nella vita, fa lo stesso mestiere della protagonista del libro, Olivia Marni: l’avvocato divorzista. Non è questione di età: a tutte è capitato di toccare il fondo, nella preistoria virtuale fissare per ore il telefono muto, nell’era 2.0 dei sentimenti fissare il profilo di lui sui social. Perchè, Ester e Olivia lo sanno bene, «si lasciano i ricchi, si lasciano quelli che non avrebbero i soldi per lasciarsi, si lasciano gli innamorati, si lasciano persino quelli che si erano messi insieme per non lasciarsi soli. Si lasciano tutti, è solo questione di quando».


E non importa se Olivia pianifica la fine dei matrimoni altrui e ha dimestichezza con le categorie dei “lasciati” (vanno al divorzio come a una guerra) e dei “lascianti” (hanno fretta e sono magnanimi, perchè già felicemente riaccoppiati), quando - appunto - succede a lei di perdere il quasi medico Dario, ricco sfaccendato aspirante scrittore e neppure bello, l’esperienza non serve a nulla. 
Si attacca alle telefonate, perchè «se un uomo non ti ama, sparisce. Se invece scrive o telefona significa qualcosa, deve significare qualcosa. No?».

Poi, quando le chiamate si diradano, compulsa i social, fino alla terribile scoperta: l’altra ha un nome, è bella come Kate Moss nel 1998 e non c’è una sua foto una, nemmeno nelle pagine virtuali delle migliori amiche, dove non sia venuta bene. Peggio: il giorno dopo San Valentino, nella nuova immagine del profilo, la “biondina” sfoggia un anello che rastrella cinquantasei cuori in tre minuti e commenti deliziati zeppi di punti esclamativi. Il resto è la contabilità dell’immutabile ossessione amorosa. Che nell’era social significa percorrere instancabilmente la rete, intrufolarsi nelle bacheche, alla ricerca delle evidenze della felicità altrui e di quelle del proprio abbruttimento. Non consolano le amiche nè il sushi a buon mercato, si finisce per chiudersi in casa, col frigorifero vuoto a chiedersi: «Nei film fanno mai vedere cosa succede durante il decorso di un cuore spezzato? Niente, non succede niente, ecco la risposta».

È questo il fondo? si arrovella Olivia. No, il fondo è quando lui telefona perchè gli serve una chiave usb dimenticata a casa tua con la seconda stesura del suo romanzo (“buttagliela - dice l’amica razionale, Viola - fai un favore a tutti e due”) e ti rendi conto che non è un pretesto per richiamarti. Il resto lo farà il tempo, medicina efficace anche quando i sentimenti corrono veloci sui clic. E certamente una nuova storia, dove finisci con l’essere tu la biondina da pedinare sui social. In fondo, per qualcuna, la vita è sempre quello che succede tra un “Me la farò passare anche stavolta” e l’altro.

@boria_a

mercoledì 7 dicembre 2016

MODA & MODI

Il fascino di vestirsi da vecchia



Amal Clooney in Yves Saint Laurent di William vintage
 

 Che cosa metto per una prima senza rischiare il doppione con altre ospiti? La risposta è vintage. Amal Clooney in un lungo Yves Saint Laurent nero della boutique "William vintage" di Londra (appena sbarcata online: www.williamvintage.com) ha affascinato alla premiere di "Ave, Cesare!" all'ultima Berlinale. Certo, quando a farlo è una come lei, o un'ex first lady alla Michelle Obama, che scelse un pizzo nero di Norman Norell (stilista americano all'apice intorno agli anni Sessanta) per un concerto benefico a Washington nel 2010, sembra tutto facile e naturale. Scegliere abiti fascinosi nel loro non essere nè nuovi nè attuali, presumibilmente indossati, fatti su misura per un'estranea o comunque da lei acquistati, perchè anche le boutique del vintage più chic si riforniscono dai privati.

Ma quando siamo noi a doverlo fare, cercando con pazienza in un negozio dove convivono pezzi d'autore e comune seconda mano, cominciano i dubbi. E le diffidenze: chissà chi l'ha messo, dov'è stato conservato, a contatto di che... E soprattutto: mi farà impressione mettermi addosso qualcosa che potrebbe appartenere a chi non c'è più? Il capo di cui eredi disinteressate hanno deciso di liberarsi?


Prima di tutto, prendetela con calma. Il vintage è selettivo, richiede cura, ricerca, disinteresse per la serialità. È una piccola conquista, ci vogliono tempo e spirito d'osservazione per disintossicarsi dal bombardamento della moda industriale. E un'avvertenza: non parliamo del riciclato della passata stagione, ma di pezzi che hanno una loro età, confezione, qualità di materiali, sartorialità.
È meglio cominciare con un accessorio, una borsa da sera, una pochette, un foulard, un paio di guanti con cui imparare a divertirsi. 


Soprabiti e giacche sono il passo successivo, basta non essere compulsive e pensare a come abbinarli e integrarli nel proprio guardaroba per evitare l'effetto costume. Se trovate l'abito da sera perfetto non avrete la minima esitazione: saranno i bottoni nascosti, le stecche dei bustini, i ferma reggiseno sulle spalle e i tasselli di grosgrain per segnare la vita a scegliere per voi. "Lo scarto di una può fare la felicità di un'altra" diceva Sarah Jessica Parker in Sex&TheCity, dove il suo guardaroba era pieno di firme di grido: nella battuta, per inciso, alludeva agli uomini, ma funziona allo stesso modo con i vestiti. Oggi, nella nuova serie "Divorce", che ha appena debuttato in Italia, la Parker preferisce decisamente il vintage. In fondo, non è questione di età, ma di maturità e di conoscersi bene.