sabato 23 dicembre 2017

IL LIBRO

 I segreti di un interminabile inverno



Che fine ha fatto Nicola, sparito da casa a sei anni? Dalla prima all’ultima riga del secondo romanzo dello sceneggiatore Alex Boschetti, “Un interminabile inverno” (Edizioni Alphabeta Verlag, pagg. 276, euro 14,00), il lettore sa con certezza che questa domanda, che percorre sottotraccia ogni pagina, dovrà per forza trovare una risposta. Anche se la storia sembra prendere un’altra direzione, concentrandosi non sulla scomparsa del bambino, ma sulla devastazione che ha provocato. Anche se Nicola non è una presenza incombente, non è il centro di questo noir, affilato e nitido come gli squarci di Alto Adige in cui in parte è ambientato. Non ci sono tracce, un corpo, la richiesta di un riscatto. L’autore nemmeno lo descrive, Nicola, lo evoca solo nello sguardo del padre, immobile sulla strada, verso la finestra della cameretta, o nell’assurda sensazione di avvertire il respiro del piccolo alle sue spalle.


Alex Boschetti



E invece. C’è un ispettore che lo cerca da due anni. Una madre e una sorella adolescente, che provano a ricominciare da quel che resta della famiglia implosa. E soprattutto lui, il protagonista, Albert Kleim, un tempo brillante docente universitario e mattatore di salotti televisivi, che la scomparsa del figlio ha trascinato a fondo, in una spirale distruttiva di stordimenti alcolici tra Bologna, dove vive, e l’Alto Adige, terra natale, in cui a volte si rifugia.


Suo figlio, per lui esiste da qualche parte e piangerlo significherebbe accettare un epilogo. Significherebbe arrendersi, come ha fatto sua moglie Martina, artista, che ha scritto “morto”, “tot” in tedesco, sotto le decine di ritratti fatti a Nicola, prima di accettare la fine del figlio e del matrimonio, prima di finire a letto con uno degli amici d’infanzia di Albert, Giorgio, pure lui docente nella stessa facoltà. Quando li scopre, la rabbia nasce dal fatto che lei voglia in qualche modo tracciare una riga, segnare un prima e un dopo: “assassina” le urla, perchè ha tradito quel bambino da tenere in vita a costo di annientarsi.
Albert no: ha dato di matto sul piccolo schermo a sentir nominare il figlio tra le cronache di nera, ha distrutto la sua immagine di opinionista piacione, ha perso famiglia e cattedra, e ora vivacchia scrivendo libri per un barone della facoltà, trascinandosi tra infelicità, sarcasmo e bevute, sbandando in un dolore perenne di cui crede di avere l’esclusiva, di cui non ammette altra forma che non sia la sua.


Cosa gli è rimasto, oltre alla madre, smarrita nella sua demenza? Gli amici di Bolzano, salvo Giorgio, il cui tradimento brucia più di quello della moglie: Kurt, fisicamente il più fragile e vittima della brutalità paterna, diventato un famoso artista a New York, e Peter, arricchitosi con le grappe, rustico e sanguigno.
Il libro si apre proprio con loro, ragazzini italiani e tedeschi che si azzuffano nella neve, stabilendo ruoli e rapporti di forza che, invariati, rimarranno gli stessi per tutta la vita. Giorgio il carismatico, Albert l’irrequieto, Kurt il resiliente, Peter il generoso. 


L’Alto Adige della loro infanzia non è quello del turismo d’elite, alberghi a cinque stelle con saune e bagni di fieno, ma una terra imprigionata nella neve con i suoi riti arcaici e brutali, violenta con gli animali e con gli uomini. I bambini giocano, si scontrano, bevono il sangue delle vacche appena uccise con un colpo di pistola in fronte, condividono segreti che cementano il gruppo e mettono al riparo i suoi componenti da qualsiasi attacco esterno, fosse anche dei propri familiari più stretti. Un patto più forte di qualsiasi altra relazione, salvifico o mortifero.

Sono proprio gli amici gli unici puntelli di Albert nel suo lento deragliamento. Perchè quello che Alex Boschetti descrive con efficacia è un tessuto di amicizie e di alleanze maschili, dal quale le donne sono escluse, o relegate a figure di contorno. In questi rapporti finiscono per rimanere avviluppati anche l’ispettore che indaga sulla sparizione di Nicola e il pediatra del bambino, che si accanisce a voler salvare il padre. Caratteri ben delineati e tutt’altro che comprimari.


L’epilogo, a saperlo intuire, è già lì, in quelle prime pagine sospese in uno spazio senza tempo, quando ciascuno dei quattro amici ha siglato un patto che lo inseguirà ovunque, non importa quanto lontano dagli altri lo porti il destino. Abile nel tenere costante la tensione (seppure con una scelta un po’ televisiva nella resa dei conti finale) Boschetti ci consegna una soluzione imprevedibile. Disseppellire il passato, a volte è l’unico modo di sopravvivere al presente.

@boria_a

lunedì 18 dicembre 2017

MODA & MODI

Il tempo imprigionato nei gioielli





Da quindici anni Tomoko Tokuda ha a che fare col tempo. Quello degli altri e il suo. Ha cominciato con una scatola di orologi rotti trovata su una bancarella, è rimasta affascinata dalla loro bellezza, e da allora non ha mai smesso di smontarli pezzo per pezzo, di studiarli, di lavorarli e assemblarli in accessori gioiello. Collane, orecchini, bracciali, anelli, spille, gemelli, che hanno imprigionato il tempo di altre persone, le loro storie e i loro momenti, e in qualche modo ne conservano la patina. E che a questo tempo, sconosciuto e lontano, aggiungono quello della designer, rimasta sempre fedele alla prima intuizione: dei vecchi orologi non più funzionanti si può recuperare tutto. «Passo del tempo a guardarli - racconta Tomoko Tokuda, giapponese, una laurea in Storia dell’arte a Grenoble e oggi un atelier a Milano - e ogni volta scopro nuove forme e possibili combinazioni. Prima, per esempio, utilizzavo tutto l’ingranaggio com’era, oggi lo smonto e i singoli elementi diventano a loro volta protagonisti dei pezzi».





Il tempo, che Tomoko maneggia ogni giorno, e per i tanti giorni richiesti a confezionare ciascun accessorio, le ha insegnato tanto. Innanzitutto a non temere le imitazioni, che sembrano uguali ma sono tradite dai dettagli. E, invece di cambiare la sua fonte di ispirazione, ha cercato di impreziosirla, di distinguerla, virando verso il gioiello. Le nuove collezioni - due ogni anno, con circa una sessantina di elementi - utilizzano un rivestimento in oro per evitare lo scolorimento da usura. Ogni quadrante è ricoperto di resina, che lo cristallizza, in modo che i numeri non si perdano, smarrendo l’idea stessa di questi oggetti. Minuscoli Swarovski spuntano tra le lancette e i quadranti si combinano con pietre semipreziose come la giada rossa, l’onice, il cristallo di rocca, il quarzo, l’agata, la madreperla, l’avventurina. Le tonalità con cui dipingere ogni più piccolo meccanismo sono create dalla designer, che non ama i colori seriali.



Anche pendoli e sveglie passano tra le sue mani e ritrovano vita e funzione. Dei primi recupera la cassetta per farne espositori, delle seconde i meccanismi. La “pancia” della sveglia va a suo marito Daisuke, che condivide l’atelier con le sue composizioni floreali: non conterrà più ingranaggi ma fiori stabilizzati.





Da vedere: www.tomokotokuda.com; Atelier Tokuda, via Romolo Gessi 6 Milano; Bardot, bardotrieste.blogspot.com via Madonna del Mare Trieste.

venerdì 8 dicembre 2017

MODA & MODI 

Simone Vera Bath, gli anelli del Trono di spade






Simone Vera Bath le ha definite “fedone”. Un accrescitivo che non ha tanto a che fare con la dimensione delle sue fedi, certo molto più grandi del normale, ma con la loro matericità. In bronzo, argento, oro, semplici o punteggiate di pietre, avvolgono le dita come un anello d’altri tempi, un ornamento da “trono di spade”, forte e ferrigno. Elegante, ma con un qualcosa di barbaro.

La materia è il tratto distintivo della designer, che dice di non credere nella perfezione, preferisce far convivere nei suoi pezzi la sorpresa dell’irregolarità. Tutti gli anelli - il suo accessorio distintivo - si impongono per la consistenza e la sicurezza delle forme, circolari o quadrate, anche se l’ispirazione spazia in direzioni diversissime. Dall’arte classica e dalla mitologia, dal cinema sci-fi, dal mondo animale e vegetale per finire con le città che ama, escono anelli importanti, “birdsnakes”, ovvero bestie d’invenzione dagli occhi luminosi, grandi calle con un cuore di ametista, “friends”, che sono piccole verette da aggiungere a volontà, e ancora bande larghe incise con segni misteriosi, e una versione aggiornata e trasformata degli anelli di fidanzamento, che s’illuminano di cristalli di rocca o di altre pietre, preziose o semipreziose, a richiesta.









La mano della scultrice si vede anche negli accessori più delicati, gli anelli decorati con angioletti o con i simboli di Parigi, Berlino, New York, il gusto del design minimale nei bracciali quadrati, o a forma di cuore, dove il cuore, sul polso, non è più riconoscibile, diventa un’onda e perde ogni leziosità. La determinazione con cui Simone maneggia i materiali la porta naturalmente a disegnare pezzi che incrociano e superano i generi, come gli anelli con i minuscoli teschi o i bracciali di cuoio, dove la chiusura ha la forma di una coda di balena.



Simone Vera Bath


Citrini, topazi, quarzi, cristalli di rocca sono alcune delle pietre utilizzate, tutte sostituibili con scelte più impegnative. Ma la preziosità del monile e già tutta nel disegno, nell’equilibro tra la luce della pietra e l’importanza del castone, che richiama il lavoro di un fabbro, sintesi di potenza e delicatezza. Da vedere su: www.simoneverabath.com e, per tutto dicembre 2017, da Giada a Trieste, www.giadatrieste.com

@boria_a

lunedì 4 dicembre 2017

IL LIBRO

L'anteprima del caso Weinstein nei diari di Mary Astor 





Un produttore che pratica i casting per via orizzontale di questi giorni non fa proprio notizia. Dopo lo scandalo planetario di Weinstein e compagni, il celebre “sofà” hollywoodiano, di cui scrissero nel 1991 gli sceneggiatori inglesi Alan Selwyn e Derek Ford, oggi sostituito, anche a casa nostra, da più raffinati ma altrettanto spicci pedaggi sessuali, è un po’ venuto a noia per eccesso di star e dettagli. Per una coincidenza singolare, il delizioso “I diari bollenti di Mary Astor” di Edward Sorel, appena pubblicato da Adelphi (pagg. 169, euro 20,00), arriva in libreria proprio nel momento in cui le colonne di giornali e riviste sono colonizzate dalla contabilità dei predatori e dagli outing delle prede, femmine e maschi, che, seppure con un certo ritardo, li accusano di molestie varie (tutto il contrario di quanto, nell’anonimato, dichiarava nel libro di Selwyn e Ford, un’attrice passata per la via orizzontale: «Non c’è afrodisiaco più forte al mondo di un uomo che può realizzare un sogno. Non credo che molte di noi siano state trascinate verso il sofà mentre scalciavano e urlavano...»).

Insomma, il libro di Sorel correva il rischio di essere stritolato dalla contingenza. Perchè temi e ambienti, seppure vintage, sono quelli della cronaca odierna: una Hollywood affamata di vergini, un’attrice esordiente, poi diventata famosa, letteralmente stesa a diciassette anni da un seduttore seriale come John Barrymore, quarantunenne mito dello schermo, genitori ciechi, quando non solleciti nello spingere la prole tra le braccia di orchi potenti, alcol e additivi vari a condire incontri e festini, particolari scabrosi sulle prestazioni.


La storia (e le illustrazioni) di Sorel - uno dei padri della grafica americana, con all’attivo decine di copertine per il New Yorker, oltre a tante collaborazioni per riviste celebri - sono, al contrario, il candido, ironico, affettuoso ed elegantissimo omaggio di un ultraottuagenario alla star dei suoi sogni di ragazzo, Mary Astor (che comincià col muto, passò ai noir e vinse pure un Oscar al fianco di Bette Davis in “La grande menzogna” del ’41).



Mary Astor


L’attrice, nel 1936, mentre ironicamente girava “Infedeltà”, fu al centro di uno scandalo finito in tribunale, quando il secondo marito, ormai ex, per sottrarle la figlioletta, la accusò di indegnità morale sventolando alla stampa i suoi diari, con la minuziosa registrazione degli amanti e della qualità della loro ginnastica sessuale, peraltro compilati mentre il matrimonio era ancora in piedi.


Ma dentro la cronaca di questo vecchio processo, popolato di antesignani di Weinstein, c’è un’altra storia vera, molto più affascinante. Nel 1965, quando Sorel aveva 36 anni e pubblicava vignette contro il Vietnam sulla rivista “Ramparts”, si trasferì con la seconda moglie in un cadente appartamento dell’Upper East Side a New York. Fu lì, togliendo il linoleum della cucina, che scoprì uno strato di giornali ingialliti, utilizzati per pareggiare le assi di legno. Erano vecchie copie del Daily News e del Daily Mirror, tutti della stessa annata, il 1936, e tutti con titoli a caratteri cubitali sullo scandalo a luci rosse dei diari di Mary Astor, zeppi di nomi e dettagli pruriginosi. Come le “ore d’estasi” che le regalava il più importante commediografo di Hollywood dell’epoca, George S. Kaufman, sciupafemmine fobico e pieno di tic ma, soprattutto, sposatissimo (nella coppia più indissolubile che esista, quella dove non si va a letto insieme ma si è utili l’uno all’altro).



Edward Sorel


Dalla casuale scoperta dei giornali marci, Sorel ripiomba nell’incantesimo di ragazzo. E prima di scrivere di Mary, che vide per la prima volta a dieci anni nel “Prigioniero di Zenda”, con la costanza e la dedizione di un innamorato fedele, vuole sapere tutto, ma davvero tutto, di lei: ricostruisce la sua infanzia, raccoglie notizie su quella piccola bellissima, al secolo Lucile Vasconcellos Langhanke, che voleva sposarsi e “fare bambini”, ma che papà Otto e mamma Helen, immigrati dalla Germania, vedono subito come una formidabile macchina per fare soldi e spingono, se non proprio sopra, almeno in prossimità di più di un sofà. Sorel legge cronache, vede film, divora biografie di Kaufman e l’autobiografia di lei.


Cinquant’anni dopo dà alle stampe la vita illustrata del suo mito, che morì nell’87 a 81 anni, dopo tre mariti, un’unica figlia e quaranta bisnipoti, tanti film dimenticabili, la bottiglia e l’oblio. Soprattutto le restituisce un po’ di luce, dopo le luci rosse, schierandosi sempre dalla sua parte. Non era una star e aveva una bellezza aristocratica più che da armadietti maschili, ma era disarmante e non smemorata. Dei suoi anni di attrice, scrive: «Sessualmente non mi controllavo. Bevevo troppo, e a tarda sera finivo per trovare qualcuno “molto attraente”. Salvo svegliarmi il mattino dopo con una sola domanda in testa: perchè? Perchè?».

lunedì 27 novembre 2017

IL LIBRO

Un'intelligenza bestiale? Ce l'hanno gli animali






Siamo davvero la specie animale più intelligente sulla faccia della terra? Possiamo infallibilmente attestarci al top di un’ipotetica scala di valore grazie alle nostre competenze artistiche, scientifiche, tecnologiche, o perchè siamo capaci di altruismo e cooperazione con i nostri simili? Studi scientifici, ma spesso la semplice osservazione di alcuni comportamenti animali, fanno vacillare questa certezza.

Cacatua che costruiscono bastoncini per avvicinare il cibo fuori dalla loro portata, un passerotto infallibile nel riconoscere il suo nido in una fila di tegole identiche, api che si danno al ballo per segnalare alle compagne la presenza e la posizione di una fonte di cibo, un tasso capace di superare ostacoli e aprire chiavistelli per evadere dal recinto, prendendosi gioco del fallimento dei suoi custodi. In sintesi: l’intelligenza delle bestie è spesso bestiale.
A spiegarlo, in “Animali” (Mondadori, euro 16, pagg. 169), sono Cinzia Chiandetti ed Eleonora Degano, che uniscono esperienza accademica e giornalistica in un interessante e curioso volumetto, scientificamente poderoso, ma adatto a lettori di qualsiasi formazione. Chiandetti è ricercatrice nel Dipartimento di Scienze della vita dell’Università di Trieste e docente, tra gli altri insegnamenti, di Cognizione animale. Degano, biologa, ha studiato giornalismo scientifico alla Sissa.



 
Eleonora Degano


Cinzia Chiandetti

Dottoressa Chiandetti, la superiorità umana è in crisi? «Vero. Tutti noi abbiamo in mente una graduatoria intuitiva delle specie animali. Le ordiniamo su una scala: dalle più semplici, come i paguri, alle più complesse come i primati non umani, e noi torreggiamo sul gradino più alto. A questa graduatoria strutturale corrisponde la classifica di intelligenza, per cui non siamo propensi ad attribuire sofisticate capacità mentali agli insetti che posizioniamo sui gradini più bassi, ma riteniamo molto dotati intellettualmente i delfini che sono in alto sulla scala. Eppure, ciascuna specie ha affinato delle abilità specifiche che la rendono adatta ad affrontare al meglio le sfide della propria nicchia ecologica. Come a dire che ciascuna specie è molto intelligente a modo suo».


Gli umani si distinguono per la capacità di pianificare il futuro. Gli animali ce l’hanno? «Diversi studi condotti in laboratorio, dunque in modo controllato, hanno recentemente risposto a questa domanda: varie specie di primati non umani e qualche specie di uccelli, ad esempio, hanno superato i test di pianificazione. Si è visto che possono intenzionalmente conservare uno strumento che servirà in futuro o fare scorte del cibo che troveranno a giorni alterni, così da variare la dieta. Non ci sono altri modi di interpretare questi comportamenti se non facendo riferimento alla capacità di pianificazione. Quindi è una capacità che non ci distingue, no».


Noi tradiamo spesso sentimenti ed emozioni con le espressioni del viso. Vale lo stesso per le bestie? «I volti sono una fonte ricchissima di informazioni e anche altre specie si avvalgono di questi segnali per capire ad esempio se iniziare un’interazione o se sia meglio scappare. Per quanto riguarda le emozioni primarie (paura, rabbia, felicità…) c’è molta continuità tra le specie e spesso possiamo leggere correttamente le emozioni degli altri animali. Ma alle volte rischiamo di fraintendere le esternazioni di altre specie perché tendiamo ad interpretarle sulla base della nostra espressività. Una scimmia che ci mostri i denti non significa che ci stia sorridendo. Per i cavalli, ad esempio, sono importanti anche le orecchie; posizioni diverse veicolano significati differenti».


Gli animali di una stessa specie sono in grado di riconoscersi tra di loro? «Certamente. Anche tra le vespe o le pecore possiamo trovare individui molto diversi tra loro. A noi possono sembrare tutte identiche, invece ciascuna ha un muso un po’ diverso e tra loro si riconoscono. Riconoscere i diversi individui significa associare un’identità e poter ragionare sulle gerarchie. Laddove per sopravvivere è necessaria questa capacità, c’è anche la possibilità per gli individui di riconoscersi. Altre specie sfruttano un’altra modalità, quella acustica. Gli elefanti marini, ad esempio, si riconoscono sulla base di richiami distintivi per tono e ritmo».


Sanno contare? «Oltre a saper scegliere la collezione di elementi che ne contiene di più (come a dire che tutti sappiamo scegliere il vassoio sul quale troviamo più pasticcini), molte specie animali hanno dimostrato di saper eseguire semplici calcoli precisi su poche unità. D’altro canto basta pensare a una situazione naturalistica per comprendere il significato di questa capacità: se in una grotta sono entrati due predatori e ne è uscito solo uno, ci fidiamo ad entrare per ripararci dal freddo oppure non è un luogo sicuro perché un predatore è rimasto al suo interno?».


La rete ci fa scoprire insospettabili capacità negli animali: voi citate l’esempio dell’elefante che balla… «Sì, le osservazioni aneddotiche sono da sempre un’ottima occasione per ragionare a fondo su un certo fenomeno. Una volta visto il video - diventato in poche ore virale - di un esemplare di cacatua che si muoveva a ritmo con la musica, i ricercatori hanno avuto l’obbligo di studiare a fondo, in modo controllato, se il movimento era appreso per condizionamento oppure spontaneo e se i movimenti erano davvero sincroni con il ritmo musicale. Per fare questo, si studiano esemplari della stessa specie: si compiono analisi matematiche dei movimenti del corpo a seguito di modifiche del ritmo, presentato più lento o più veloce di quello originario. Proprio in questo modo sono state scoperte quattordici specie di uccelli capaci di ‘ballare’ unitamente a una specie di elefante». 



C’è poi la cornacchia che fa snowboard… «La video registrazione di un corvo che sale su un dischetto di plastica e scivola ripetutamente dalla sommità del tetto innevato non può che essere interpretata come ‘gioco’. Nel libro discutiamo su quali sono le caratteristiche che un comportamento deve avere per essere classificato, in questo caso, come gioco. Avere dei criteri condivisi ci aiuta a interpretare ciò che osserviamo. Non possiamo dire nulla sull’esperienza qualitativa (cosa prova il corvo, si sta divertendo?), ma apparentemente quello è un comportamento ludico, che ha comunque la sua rilevanza visto che è occasione di apprendimento su come funzionano le cose…».


Su un punto siamo in difficoltà: la memoria. Molte razze ci battono? «Ci sono almeno due esempi che ci creano imbarazzo, sì. Il primo è il caso della memoria per i luoghi delle specie di uccelli che nascondono provviste per la stagione rigida: possono recuperare migliaia di semi mentre noi dovremmo per forza avvalerci almeno di una mappa in cui abbiamo indicato i luoghi di nascondimento. Il secondo è il caso della memoria fotografica degli scimpanzé, che possono catturare la posizione di 9 elementi in pochi millisecondi e ripeterla correttamente subito dopo, mentre noi non abbiamo visto che qualcuno di questi dettagli. In questi casi siamo davvero i peggiori, ma in fondo queste super memorie non ci servono. È questo il principio che regola somiglianze e differenze tra le specie».


C’è il senso della strategia politica tra gli animali? «Anche in questo non siamo davvero unici: se prendiamo gruppi di primati non umani, questi possono creare coalizioni per spodestare l’individuo alfa, magari riottoso, a favore di un individuo più mite. O mediare una pacificazione portandosi appresso un cucciolo: una vera e propria strumentalizzazione».


In sostanza: in che cosa si differenziano le nostre menti? «Nel libro descriviamo un insieme di capacità di base largamente condiviso tra gli organismi. Su queste capacità si fonderebbero le successive occasioni di apprendimento e specializzazione. Nonostante vi siano cervelli macroscopicamente diversi (per dimensioni e organizzazione, da quello di un bombo grande qualche millimetro, a quello degli uccelli organizzato a nuclei), osserviamo una notevole continuità funzionale. Eppure, ciascuna specie eccelle in qualcosa di diverso: noi siamo unici per il linguaggio, le seppie per il mimetismo, i pipistrelli per l’ecolocalizzazione, e gli esempi possono andare avanti ad oltranza».


Qual è il rischio di umanizzare troppo gli animali? «Il rischio risiede nel perdere di vista le necessità tipiche delle singole specie e, così facendo, arrecare dei danni o del malessere all’animale. D’altro canto, è altrettanto nocivo descrivere comportamenti in modo neutro offuscandone il significato. Penso al bacio di pacificazione tra alcune scimmie: descriverlo come un contatto delle labbra anziché un bacio, ci fa perdere il valore di questo atto. E d’altro canto, studiare se in seguito al bacio riprendono interazioni amichevoli tra i due individui è possibile… e alcuni ricercatori lo hanno dimostrato. Ci vuole un’osservazione attenta e critica».

@boria_a

sabato 18 novembre 2017

IL LIBRO

Paolo Rumiz e la Regina del silenzio


 


Una favola fatta per essere letta ad alta voce. E accompagnata, in sottofondo, da pagine di Grieg, Dvorák, Wagner, Beethoven, Mendelssohn, Mahler, Sibelius, Stravinskij. Perchè ne “La regina del silenzio” - il libro appena uscito di Paolo Rumiz (La Nave di Teseo), che sarà presentato dal giornalista il 19 novembre, alle 19.30, alla Galleria d’arte moderna di Milano nell’ambito di Bookcity, insieme a Moni Ovadia - parole e suoni sono i protagonisti.

Il Piccolo l’ha raccontato in anticipo un mese fa, in occasione della chiacchierata dell’autore a Gorizia, nella rassegna delle 18.03: “La Regina del Silenzio” è piena della musica che Paolo Rumiz ha frequentato assiduamente negli ultimi tre anni, ascoltando i giovani artisti della European Spirit of Youth Orchestra, i loro sogni e la loro passione, e accordando la sua voce di lettore a quella degli strumenti nei concerti in giro per l’Italia.



Paolo Rumiz


Ma nel racconto, che ha il ritmo e le suggestioni delle saghe nordiche, c’è anche il ricordo dell’amico Alfredo Lacosegliaz, scomparso un anno fa, il musicista che ha anticipato a Trieste l’interesse per i suoni balcanici e le contaminazioni con l’Oriente, e che ha composto la partitura per i reading de “La cotogna di Istanbul”, condividendo con lo scrittore chiacchierate, confronti e altri palcoscenici. È lui, in questa favola per grandi e piccoli, a suggerire il personaggio del bardo Tahir, suonatore della tambùriza, che nelle prime pagine accompagna con la sua melodia la morte dell’eroe Vadim. È lui, con codino biondo e baffi spioventi, uomo delle montagne con il fisico possente di un dalmata, che suona per Mila, la figlioletta di Vadim ancora nella pancia della mamma, in modo che impari la musica prima di nascere, come per lui aveva fatto suo nonno.


Quando Mila vede la luce, il popolo dei Burjaki, tiranneggiato dal malvagio re Urdal, vive nell’imposizione del silenzio: non si può suonare, cantare, modulare la voce. Da ogni parola sono cancellate le vocali per svuotarle di ogni musicalità e renderle scure e ferrigne. Quando anche Eco, il mago che suscita i suoni della terra, che genera rimandi e risposte sonore, viene fatto prigioniero, la grande landa (che Rumiz immagina al di là dei Carpazi, dove si stendono Ucraina, Bielorussia, Polonia) sprofonda nella cupezza.
Mila, però, ha conosciuto la musica prima che fosse vietata. Il bardo Tahir, col suo strumento gelosamente custodito e nascosto, suonava per lei, facendo della pancia di sua madre Tassìa una cassa armonica. L’uomo e la nascitura erano separati solo da una sottile membrana e, tra i due, le note creavano un flusso, una comunione indissolubile. Così, quando nacque, Mila non pianse ma cantò e continuò a farlo al di là di ogni divieto, privilegiando l’armonia alle parole, perchè la prigionia di Eco impediva alla sua fragile voce di diffondersi e suscitare la collera dei tiranni.


La musica come ponte tra i popoli, come strumento di dialogo e comprensione: questo è il messaggio della favola. E come Tahir-Lacosegliaz, anche la protagonista è stata ispirata da un incontro, quello con la violinista quindicenne Alexsandra Latinovic, serba, che Rumiz ha conosciuto nella giovane orchestra dallo “spirito europeo”, diretta da Igor Coretti-Kuret. Sarà Mila-Alexsandra a scendere il fiume Limantra (come il Limentra dove la famiglia Guccini ha il mulino...) e poi a risalire la Montagna Nera in cerca di Tahir. Insieme a lui, e a un “esercito” di musicisti, sconfiggerà senza combattere i signori del silenzio, annichiliti dalla potenza di suoni che non conoscono.


Li si vede in copertina, nell’illustrazione firmata da Cosimo Miorelli, figlio di Moreno, fondatore di Stazione Topolò. Le “cornici” dei capitoli sono invece del calligrafo Pietro Porro. Tutti, dice Rumiz, “uomini di confine”. Che, i confini, conoscono l’importanza di cancellarli, anche nei cuori.
@boria_a

martedì 14 novembre 2017

IL LIBRO

Bambine ribelli, con ago e ali


 


Piccole donne con grandi sogni. E la volontà, la fantasia, la grinta per realizzarli. Coco Chanel, Agatha Christie, Frida Kahlo, Amelia Earhart fin dall’infanzia hanno intuito che cosa avrebbero voluto essere e fare da grandi. Bambine ribelli, ciascuna a modo suo. Chanel, in collegio, giocava con ago e filo, tra le occhiute suore che diffidavano di quell’orfanella diversa dalle altre. Agatha Christie, nel suo lettino, leggeva fino a tardi e, per ogni storia, inventava un finale diverso.

La piccola Frida Kahlo, con la sua gamba menomata, immaginava un mondo di colori esplosivi, inimitabile come lei. Amelia Earhart allargava le braccia per farsi crescere un paio d’ali e volare con la fantasia oltre ogni limite, in alto nel cielo.
Una grande stilista, rispettosa del corpo delle donne. Una infaticabile creatrice di gialli, tra i più letti di tutti i tempi. Un’artista che, costretta nel candore di un letto, riempie la tela dei toni accesi dell’amore e del dolore. La più famosa pilota del Ventesimo secolo, la prima donna ad ammirare, tutta sola in mezzo alle nuvole, l’Oceano Pacifico.


Vite e storie straordinarie. Che oggi una preziosa collana, “Piccole donne, Grandi sogni”, ideata da Maria Isabel Sánchez Vegara e pubblicata da Fabbri Editori (16 euro a volumetto), racconta alle bambine, e non solo, a credere in se stesse e a lottare per i propri desideri. Diverse, e ugualmente poetiche, le illustratrici per ogni libro: Ana Albero gioca con il logo dalle C intrecciate, con le righe, i tailleur e le lunghe collane che, ancor oggi, suggeriscono il guardaroba morbido e raffinato di madamoiselle Coco. Elisa Munsó disegna il mondo di Agatha Christie tutto in bianco e nero, con un unico filo rosso a legare la scrittrice (crocerossina da giovane, quindi abituata a maneggiare veleni...) ai suoi celebri investigatori, Poirot e Miss Marple, spesso alle prese con strane intossicazioni. Gee Fan Eng ha una matita ispirata, che intinge in colori pastosi, per tratteggiare il Messico di Frida e la passione che la legò a un altro pittore, Diego Rivera. Infine Mariadiamantes che, con delicatezza, insegue nei cieli la sete di avventura di Amelia e la sua misteriosa scomparsa, nel 1937, mentre tenta l’impresa di volare attorno al mondo.


Il racconto è minimo, con una piccola biografia finale. Protagoniste le splendide tavole, per sognare e ispirare le future donne.

@a_boria

lunedì 13 novembre 2017

IL LIBRO

 Due anime nelle notti di Marsiglia




«Nella vera notte buia dell’anima sono sempre le tre del mattino». Le parole di Scott Fitzgerald fanno da guida a un padre e un figlio che non si sono mai conosciuti davvero. E che trovano un’inaspettata, straordinaria occasione di farlo a Marsiglia, lontano da casa e dai loro rispettivi ruoli, quando la città da esplorare, la necessità di stare svegli, l’intimità del buio, li spinge, prima con la timidezza di chi procede a tentoni, poi sempre più fiduciosi, come su un terreno noto ma dimenticato, ad aprirsi il cuore. A conoscersi, dunque, e a riconoscersi, prima che sia troppo tardi.

Si chiama “prova da scatenamento”, una procedura oggi bandita dalla deontologia medica, ma che nei primi anni ’80, quand’è ambientato l’ultimo libro di Gianrico Carofiglio, “Le tre del mattino” (Einaudi, pagg. 165, euro 16,50), ancora si utilizzava. Chi deve affrontarla è il liceale Antonio, che soffre fin da bambino di una forma di epilessia idiopatica, di cui cioè non si conosce la causa. La malattia è stata tenuta sotto controllo grazie ai farmaci e alle terapie di un luminare, il professor Henri Gastaut di Marsiglia che, prima di dichiarare Antonio guarito, decide di sottoporlo allo “scatenamento”: due giorni e due notti senza sonno e senza le sue quotidiane medicine, con l’unico obbligo di una pasticca ogni otto ore, presumibilmente anfetamina, per evitare di dormire.



Gianrico Carofiglio


È da anni che col padre, docente di matematica all’Università, Antonio non trascorre ininterrottamente un tempo così lungo. Da quando i genitori si separarono e nella sua testa confusa di bambino assegnò le rispettive colpe: il padre sicuramente scappato con una studentessa, come un suo collega, la madre troppo arrendevole e civile nell’accettare la situazione.


Comincia così, nella sconosciuta Marsiglia, un breve, progressivo e profondo incontro tra due anime che si svelano con pudore e, man mano che le ore passano, si scoprono assetate l’una dell’altra e del tempo comune perso. Un bambino va a trovare il padre nel suo ufficio all’ateneo: lo scopre angusto - ma come? lui, che ha contatti con scienziati importanti del mondo - e ne rimane deluso. Il padre ricorda quel lontano episodio, Antonio si sorprende, capisce quanto poco sappia del genitore che ora gli cammina al fianco, con cui beve vino e va per locali, a far trascorrere la lunga veglia forzata («forse, semplicemente, notavo quello che diceva e il modo in cui lo diceva, dunque mi sembrava di scoprire qualcosa che in realtà era sempre stato lì...»).


Conoscenza reciproca, che per il più giovane è una sorta di iniziazione (il bicchiere di rosso non annacquato, il negozio porno, l’amore completo) ma prima ancora un’alfabetizzazione affettiva. Nel locale jazz dove entrano in quell’interminabile notte-giorno-notte, il pianista invita qualcuno del pubblico a prendere il suo posto e il professore, spinto da Antonio, («sarei contento di sentirti suonare...»), vince le sue titubanze e accetta. Davanti agli occhi del ragazzo, l’uomo diventa un’altra persona («era tutto così estraneo alla mia immagine di lui, così misterioso»), come diverso gli è parso fin da subito il suo linguaggio, che si misura con i passi di un’intimità più profonda. Alla fine Antonio applaude. «Continuai a farlo finchè non fui sicuro che mi avesse visto, perchè cominciavo a capire che esistono gli equivoci e non volevo che ce ne fossero in quel momento».


Negli anni a venire Antonio avrebbe ascoltato tanta musica e appreso termini di cui allora non sapeva nulla. Ma «tutto quello - poco o molto - che capisco davvero del jazz lo imparai quella notte». Sul palco, nel buio, non ha mai visto così chiaramente suo padre, vulnerabile e scoperto, col suo talento ormai alle spalle, come quella donna elusiva e bellissima, sua madre, mai sostituita.


Il romanzo si legge d’un fiato e d’un fiato passano le quarantott’ore di educazione sentimentale, anche se spesso il registro sussurrato si inceppa in dialoghi senza spontaneità, troppo pedagogici per essere convincenti fino in fondo (gli aneddoti sui matematici, le spiegazioni musicali, date ed etimologie di verbi, il resoconto della “prima volta”...): scambi da docente a discente, più che da padre a figlio con abissi di estraneità da recuperare.


Uno studio all’Università, la frase di un matematico scritta sul muro: Antonio adulto è tornato dove andò bambino a trovare il padre. Perchè in quelle confuse e tese nottate marsigliesi, ormai lontane, in lui ha conosciuto, o riconosciuto, anche se stesso.

@boria_a

mercoledì 8 novembre 2017

MODA & MODI

 Quell'accessorio è un pezzo di legno. O di cemento


"Northlands" di Lodovica Fusco (foto Nika Furlani)






È una pazza scommessa quella di prendere cemento e silicone per riprodurre la natura? No, se l’idea di fondo è realizzare un oggetto interamente a mano, una copia perfetta, senza innesti esterni. Sembra una contraddizione. Ma Lodovica Fusco, giovane designer triestina che firma il brand COLLANEvrosi (www.collanevrosi.it), ha provato a farlo. Rovesciando il percorso, partendo cioè dalla natura per ottenere accessori che di naturale non hanno nulla ma che sembrano pezzi di natura.

Incomprensibile? Cominciamo dall’ispirazione. Un viaggio in Scandinavia e il rapporto stretto tra uomo e ambiente circostante, che influenza l’architettura, il design, l’arte. E i colori: bianchi che non sono tali ma si disperdono in venature di grigio, verdi acquosi al confine con gli azzurri, lilla, grigi più ferrosi, blu.


La collezione “Northlands” nasce così, dalla voglia di restituire negli oggetti le emozioni dei paesaggi. Prima la ricerca degli elementi da riprodurre: pietre, rami, cortecce. Poi un laborioso processo, che comincia con la costruzione dello stampo, ottenuto rovesciando gomma siliconata sopra i reperti naturali e aspettando pazientemente che si asciughi. Una volta costruito il modello, la designer ci posiziona dentro i pezzi di ottone che servono a sostenere gli anelli e le collane e a infilare gli orecchini. A questo punto la colata di cemento a presa rapida mescolata ai colori ad acqua, che inglobano la polvere grigia.










Ne esce una palette di nuove tinte incredibilmente convincente: un lilla rarefatto e aereo, un azzurro stinto, un’indefinibile sfumatura polverosa che potrebbe essere quella di un legno secco o di un muro grezzo. Ma l’operazione non è finita: servono almeno altri tre giorni perchè l’oggetto si secchi e possa essere estratto e lasciato all’aria, prima della pulizia finale. Il metallo viene limato e piegato per gli orecchini e le spille, mentre anelli e ciondoli sono montati su legno di betulla, a sua volta tagliato, scartavetrato, messo a mollo in acqua e infine modellato e trattato con impregnanti e vernici. Il procedimento sembra artificioso, ma il risultato sorprende: rami, fiori, pietre da portare al collo e al dito. Il grigio del cemento lascia traccia di sè in ogni colore, che non è mai lo stesso, perchè anche il meteo lo influenza e lo modifica. Tutto quello che è stato “rubato” alla natura, in qualche modo ci ritorna.



Da vedere: Combinè, piazza Barbacan, Trieste. www.collanevrosi.it

martedì 31 ottobre 2017

L'INTERVISTA

Irene Brin, la prima blogger raccontata dal nipote




 
Irene Brin a Bordighera



Fu Leo Longanesi a trovarle il soprannome: Irene Brin. Al secolo era Maria Vittoria Rossi, classe 1911, l’antesignana di tutto le giornaliste di costume. All’epoca si chiamavano “cani schiacciati”, quegli articoletti di cronaca mondana snobbati dalle penne maschili: lei li trasformò in fulminanti e raffinatissimi ritratti umani e sociali. “Brinate”, appunto, come si dirà poi nelle redazioni: pezzi brevi, colti, graffianti.

Irene Brin è stata una delle protagoniste del giornalismo del secolo scorso. Si occupò non solo di costume, ma di arte e moda per “Omnibus”, “Il Borghese”, “La Settimana Incom”, “Il Corriere della Sera”. Corrispondente italiana di Harper’s Bazaar, dettò legge in fatto di stile e firmò come “Contessa Clara” il più celebre galateo italiano.


Ma Irene Brin è stata molto più di una cronista di sfilate e salotti, di un’insegnante di buone maniere. Traduttrice di decine di autori, scrittrice, con il marito Gaspero del Corso fondò a Roma L’Obelisco, la galleria che per prima aprì le porte agli esponenti delle avanguardie e fu punto di riferimento per il dibattito artistico e culturale degli anni ’50. Fu anche corrispondente di guerra: il suo “Olga a Belgrado”, del ’43, documenta l’occupazione italiana nei Balcani, dove aveva seguito, per tre anni, il marito ufficiale: racconti dalla parte delle popolazioni locali, che il fascismo non apprezzò.


Intellettuale a tutto tondo, spirito libero e inquieto, è un personaggio controverso e sfuggente, tutto da riscoprire. Oggi un’occasione per farlo è il prezioso volume, “Il mondo - Scritti 1920-1965” curato da Flavia Piccinni per Edizioni Atlantide (pagg. 314, euro 30), che raccoglie una selezione di pensieri, articoli, racconti di Irene Brin, pubblicati a partire dal ’44.
Ma chi era davvero Maria Vittoria Rossi? Pochi sanno che Mariù - come la chiamavano in casa, il suo primo nom de plume - era figlia di Maria Pia Luzzatto, colta e poliglotta ebrea goriziana, nata a Vienna, e di Vincenzo Rossi, generale del regio esercito, di famiglia ligure. Sua nonna era la triestina Adele Ara, che visse nell’omonima villa di via Monte Cengio, e si sposò a Trieste con l’ingegner Emilio Luzzatto, anche lui triestino: delle loro nozze restano i documenti secondo il rito ebraico.






«Chi era mia zia? La prima blogger italiana» sintetizza il nipote, Vincent Torre, figlio della sorella Franca, fisico e docente alla Sissa. Che così racconta la sua straordinaria zia.


 
Vincent Torre, fisico alla Sissa di Trieste


 

In che ambiente è cresciuta Irene Brin? «Irene passò la giovinezza in mezzo ai problemi e alla vicissitudini della famiglia paterna. Suo padre, Vincenzo Rossi, era generale di Corpo d’armata, suo zio, Francesco, fu uno dei fondatori del Partito socialista nel 1892. Entrambi vissero in prima persona le vicende drammatiche di quel periodo e trasmisero a Irene le loro passioni, le angosce, le traversie passate. Mio nonno Vincenzo era a capo della brigata Roma a Caporetto, che dopo la disfatta fu accusata da Cadorna di tradimento. Questa tragedia lo devastò e per i successivi vent’anni cercò di riabilitare il suo nome e quello dei suoi uomini. Ci riuscì e gli fu addirittura proposto di diventare senatore, purchè si iscrivesse al partito fascista. Lui rifiutò».

E Francesco? «Era molto battagliero, fu arrestato e mandato al confino. Divenne sindaco di Bordighera e fu eletto in Parlamento, ma durante il ventennio fascista gli bruciarono la casa e fu costretto a fuggire sui tetti. Così lasciò la politica. Irene ha respirato in casa questi ideali democratici e socialisti e con dolore ha assistito alla loro sconfitta. L’atmosfera della sua giovinezza non è stata frivola e svagata, tutt’altro. E credo che il suo atteggiamento apolitico e la scelta di occuparsi di arte e letteratura siano proprio legati alla volontà di non rivivere i contrasti ideologici che avevano condizionato la sua gioventù. Dopo l’8 settembre Irene dice: “riiniziamo la mia vita”».


Questo atteggiamento ha influito su di lei? «Zia Irene e zio Gaspero mi hanno insegnato ad avere autonomia intellettuale, a essere un libero pensatore. Le donne spiccavano nella nostra famiglia. E c’era una forte componente ebraica, ma aperta, laica e democratica. Annina Torre, la mia zia paterna, aveva fondato Amnesty International negli anni ’50. Lei mi diceva che, essendo noi ebrei, dovevamo difendere i prigionieri palestinesi politici nelle prigioni di Israele. Mia mamma Franca mi ripeteva: “hai lo spirito di contraddizione giudaico che hai preso da tuo padre”. Era questa l’eredità familiare, vicina all’ebreo errante, all’ebreo bastian contrario». 


Cosa ricorda dell’atmosfera dell’Obelisco? «Irene e Gaspero ospitarono le mostre più importanti di quegli anni. Lì cominciarono a esporre Burri, Afro, Mirko. Per la prima volta si videro a Roma, Toulouse-Lautrec, Magritte, Matta, Dalì, Rauschenberg. La galleria era punto di incontro di Bacon, Kandinsky, di Calder, che fece un ritratto a mio zio Gaspero e lui ricambiò. Dai dieci anni in poi, in quella galleria ho formato il mio gusto. E nel loro appartamento, a Palazzo Torlonia, con i Modigliani e i Klee alle pareti. Ma anche nei viaggi che con Irene e Gaspero ho fatto a Parigi, Londra, Lisbona. Mi hanno insegnato a essere una buona guida in qualsiasi museo del mondo. Tra il ’58 e il ’62 molti pittori lasciarono l’Obelisco e, secondo le indicazioni di partito, si spostarono nelle gallerie di sinistra. Irene era invisa perchè troppo intelligente e snob, troppo fuori dal coro».


Lei accompagnava sua zia durante le sfilate parigine.. «Sì, ma mi lasciava in un museo: ritornava dopo un paio d’ore e mi interrogava sui quadri, che dovevo riconoscere da lontano. Irene e Gaspero avevano “gusto” e una grande intuizione per il nuovo. Dicevano che un’opera o un libro erano “belli”, ma non mi spiegavano il perchè. All’epoca non apprezzavo questo atteggiamento. La mia è la generazione del ’68, li rimproveravo di non essere impegnati. Invece era la loro forza e particolarità: non essere schierati, politically correct, non uniformarsi a pensieri o dettami di altri. Volevano vivere in modo intelligente e colto, ma non ideologico. Ho capito dopo che sono stati lungimiranti».


A Irene piaceva la moda? «La svagava, ne era affascinata. Mia zia era una donna profondamente infelice. Aveva un’emotività, una sensibilità e una sessualità molto complicate. Anche quando eravamo in vacanza insieme, a Sasso di Bordighera, stava tranquilla per quattro o cinque giorni, poi arrivava la tempesta. Solo in quei momenti d’ira era spontanea, per il resto non perdeva mai il controllo. L’aveva imparato fin da piccola, i rapporti con padre e madre erano condizionati dai ruoli, sempre disciplinati. Quando Irene è morta, a Sasso, nel ’69, ad appena 58 anni, abbiamo pensato che la malattia fosse quasi un suicidio, che fosse logorata dalla sua complessità».



Una foto inedita di Irene Brin


Con lei che rapporto aveva? «Era sempre molto affettuosa. Quando stava per morire mi ha dato una specie di addio, mi ha fatto una dichiarazione d’amore: il commiato da un giovane è un segno di grandezza. Ero il figlio che non aveva avuto e mi considero il suo erede emotivo e spirituale».


Avete mai litigato? «Avevo sedici anni, ero a Genova, e con un amico andai a trovare Ezra Pound che aveva casa a Rapallo. Eravamo infatuati di Brecht e volevamo fare un mix di letture di questi due autori così diversi. Naturalmente lui disse di no. Quando mia zia lo seppe scoppiò il finimondo, mi accusò di fornicare con il nemico».


Lei ha ritrovato un inedito di Irene Brin... «In un cassettone della casa di Sasso c’era un piccolo faldone con alcuni dattiloscritti tra cui questo “Le perle di Jutta” (che uscirà nel 2018 per Atlantide). Su una fascetta, con un disegno, aveva scritto “Premio Viareggio”, forse si aspettava un riconoscimento importante. Nel racconto dice: «Nessuno ascolta mai il cuore degli altri”. Era un donna forte ma fragile. Prima di sposare Gaspero, nel ’36-’37, ebbe un grande amore per Carlo Roddolo, amico di Montanelli, che morì in Etiopia. In casa abbiamo ritrovato tutte le lettere di lui, molto appassionate. C’era anche una lettera di lei mai spedita, sofisticata nel linguaggio e nei contenuti. Il suo coinvolgimento con gli uomini era intenso, ma la sua sessualità resta un grande mistero».


Come ricorda sua zia? «Non l’ho mai vista sciatta, sempre impeccabile e in controllo di sè. Era la sua forza e la sua debolezza. E snob. Aveva una trousse disegnata da Dalì, le sembrava una cosa meravigliosa. Ma il suo snobismo era autentico, non una posa. Perchè era infelice? Come Gaspero, non aveva capito che cosa desiderava e non era riuscita a ottenerlo».


Perchè riscoprire Irene Brin? «Perchè era una mente libera. Per la sua modernità. Per l’eleganza della sua scrittura, riflesso della sua personalità».

@boria_a

giovedì 26 ottobre 2017

MODA & MODI

 Ferri e uncinetto per gioielli in 3D


Si è trasferita a Londra con un paio di ferri da maglia e un nome nuovo, facile da pronunciare e ricordare: Nodo.
Nella capitale della creatività,ma anche della fast fashion e delle catene dell’accessorio seriale e impersonale, Sara Bellinato (o Sara Pinna, come ama farsi chiamare quando non vuole scoprirsi troppo), di San Vito al Tagliamento (Pordenone), nel 2015 lancia il suo piccolo brand: collane, orecchini, bracciali in fibre di prima qualità o materiali riciclati da scarti di produzioni industriali. Sara racconta di essere cresciuta in un piccolo gineceo, al ritmo dei lavori tradizionali femminili: la mamma sferruzzava, la nonna lavorava a macchina, la zia confezionava calzettoni di lana per la nipote. Suoni e tecniche che si è portata dentro e che ha recuperato negli anni di studio all’Accademia di Belle arti di Bologna, dove ha cominciato a sperimentare come attualizzarli e trasformarli in una linea con una cifra caratterizzante.


Debutta a Trieste col nome di VerdeOlivia, facendosi conoscere con un rapido passaparola tra amiche, che ospitano i suoi lavori in casa o in qualche negozio: le prime collane di tessuto, sempre coloratissime, sono giochi di nodi che cambiano forma e dimensione a seconda di come si indossano e si modellano.
Crea anche piccoli cappellini, virgole di tessuto che si arricciano sulla testa.


Poi il trasferimento in Inghilterra e un marchio nuovo di zecca, che coincide con il lancio della prima collezione, Cut-Out, tutt’ora la sua linea distintiva. Il jersey scartato dalle industrie tessili viene lavorato all’uncinetto e riconvertito in gioielli tessili “poveri”, ma di grande consistenza e teatralità, merito anche della palette colour blocking. Le collane sono il pezzo forte: lunghe o simil-gorgiere dove la tecnica dell’uncinetto consente alla fibra di assumere spessore e plasticità.





Sara è partita dai nodi. E i nodi ritornano nella collezione Doodle, che armonizza l’artigianalità alla tridimensionalità dei gioielli contemporanei: ne esce una fibra fatta di grovigli, materia prima per collane e orecchini senza peso. Eterea la piccola serie Lunar, creazioni a due mani con la designer e orafa Jessica Tonioli, corregionale: anelli, orecchini, collane di metallo ossidato e lana mohair lavorata a maglia, in equilibro tra geometrico e organico, razionale e gestuale.


 
Lunar



Infine, Mediterraneo: ancora due anime, fibra e metallo, per rivisitare in chiave minimal la gioielleria delle popolazioni che hanno abitato il Mediterraneo, fenici, greci, egizi.




Mediterraneo


Sono pezzi “slow”, unici, dove l’imperfezione del fatto a mano è un valore aggiunto. Da vedere
su: wearenodo.com; Stilemisto concept store, Trieste;  Giada gioielleria contemporanea Trieste, www.giadatrieste.com

@boria_a

domenica 22 ottobre 2017

IL LIBRO

Quel terremoto che ti obbliga a crescere



Il trasferimento da Roma a Los Angeles al seguito della sua squinternata famiglia, l’impatto con un ambiente alieno e squallido, lontano anni luce dalla mecca glam del cinema, le amicizie freak, la scoperta del sesso, l’iniziazione alle droghe, il ritorno per una vacanza in Italia, dopo il primo anno di scuola americana, in un’isola delle Eolie ruvida e feroce come il quartiere ghetto di Van Nuys dov’è andata a vivere. Sono tanti i terremoti nella vita della diciassettenne Eugenia, alter ego di Chiara Barzini (quarti artistici nobilissimi: trisnonno e bisnonno sono i celebri giornalisti Luigi Barzini Sr e Jr, la zia è la top model Benedetta Barzini), che esordisce alla scrittura in inglese con “Thinghs that happened before the earthquake”, da lei stessa tradotto insieme a Francesco Pacifico e pubblicato da Mondadori col titolo di “Terremoto” (pagg. 332, euro 19,00), in un travaso tra lingua madre e seconda lingua che fornisce anche un codice per addentrarsi nelle pagine. Questo romanzo di formazione, crudo e diretto, in America ha catturato l’attenzione di Gerry Howard, editore di David Forster Wallace.

Chiara Barzini


Eugenia-Chiara arriva a Los Angeles nella primavera del 1992, quando la megalopoli è avvolta nel fumo dei Riots, gli scontri a sfondo razziale, che cancellano la sua distesa inestinguibile di luci e la lasciano «offuscata» e «coperta di cicatrici» (la città «come una celebrità dopo uno scadalo, supplicava di essere lascita in pace»). Due anni dopo, nel gennaio ’94, Los Angeles è sconvolta dal terremoto, e pochi mesi dopo la famiglia di Eugenia rimpatria, mentre lei decide di frequentare l’Università negli Usa.

Due sconquassi veri, che circoscrivono temporalmente il romanzo, dentro i quali l’autrice racconta la permanenza americana della famiglia, tanto bella e perfetta nella pubblicità televisiva della carne Manzotin, di cui è stata realmente protagonista, quanto scombinata nella vita vera: il padre regista velleitario e disorganizzato, la madre segretaria-cuoca-tuttofare, entrambi concentrati su loro stessi e disinteressati ai figli, Eugenia e il fratello Timoteo coinvolti nel pazzo progetto di un film da girare a Los Angeles, tra dubbi collaboratori, la casa trasformata in set, soldi che spariscono, il miraggio di reclutare Johnny Depp. E tutti i punti fermi che si dissolvono sotto il sole della spellacchiata San Fernando Valley, sede delle società cinematografiche, tra comuni di hippie fuori tempo massimo e catene di cibo spazzatura, dove non ci si sposta che in auto perchè a piedi daresti nell’occhio e non arriveresti da nessuna parte. L’America finta e cattiva, con la maschera dei pupazzi di Disneyland, sotto i cui costumi Cenerentola fuma erba con la pipa e Topolino è un poliziotto travestito a caccia di tossici imbucati tra le famiglie.

Eugenia, invece, cerca disordinatamente una strada, la sua strada, senza puntelli. La scuola è gigantesca e, se non trovi l’aula giusta, vieni caricato su una macchina da golf rastrella-ritardatari e confinata tra le minoranze razziali. Infila una galleria di mostri: il nativo americano malato di cancro con cui perde la verginità, nei fumi dell’erba con una spolverata di peyote, lo studente persiano con cui fa brutto sesso, che viene freddato in un centro commerciale, infine Henry, l’amico senza un orecchio, nel cui negozio di scalcagnate memorabilia hollywoodiane comincia a cambiare vestiti e pelle. Abiti vintage e reperti di vecchi film, un tentativo di rifugiarsi in un passato meno squallido e disperante.
Infine Deva, la bellissima compagna di scuola, figlia di un vecchio rocker etilista, che con i figli usa il pugno di ferro: Eugenia segue il fratello nella loro casa-baracca, ma finisce a letto con lei e scopre finalmente il piacere fisico, dopo tanti amplessi asciutti e un po’ disgustosi. Anche Deva, però, sparisce.

Los Angeles, la città del “luminoso invisibile”. Quello che più convince e cattura nel libro è proprio questo, la capacità dell’autrice di materializzare la desertificazione fisica e umana del paesaggio, mettendola in corrispondenza con lo spaesamento della protagonista. E non c’è differenza tra la San Fernando Valley e l’isola più appartata delle Eolie della parentesi italiana di vacanza: dopo i grandi spazi che inghiottono, un’enclave preistorica priva di presenze umane. Qui o là Eugenia cresce sola. Nel buio, sulle brandine dell’isola, con il fratello fa il gioco di chi buttare dalla torre tra le fiamme: nonne, animali domestici, genitori e amici. «Qualcuno doveva sempre finire nel fosso e, se fossimo riusciti a trovare la strada tra due opzioni dilanianti, avremmo saputo affrontare i vicoli ciechi della vita».
@boria_a

mercoledì 18 ottobre 2017

IL LIBRO

Paolo Rumiz e la regina, da leggere e ascoltare 


Il bozzetto per la copertina del libro firmato da Cosimo Miorelli


Una favola piena di suoni contro la violenza del silenzio e del troppo rumore. Un invito ad ascoltare se stessi e gli altri e a non farsi tiranneggiare dal frastuono che ci assedia. È l’ultima avventura letteraria di Paolo Rumiz, che sarà in libreria il 16 novembre 2017 edita da La Nave di Teseo. S’intitola “La Regina del Silenzio” e l’autore ne darà qualche anticipazione giovedì 19 ottobre, a Gorizia, nella sala Apt, ospite della rassegna “Il libro delle 18.03”, in dialogo con la giornalista Martina Vocci.


Paolo Rumiz


Il libro è dedicato all’amico musicista triestino Alfredo Lacosegliaz, scomparso un anno fa, l’artista che anticipò l’interesse per la musica balcanica e le contaminazioni con i suoni che venivano dall’Oriente: su di lui e il suo codino grigio è modellato uno dei protagonisti della storia, il bardo Tahir, discendente di un popolo guerriero che canta la nostalgia e con la sua tambùriza seduce uomini e animali.
«Questa favola - racconta Rumiz - è stata scritta in due settimane, ma è nata oralmente, ascoltando le storie degli altri, raccogliendo briciole in giro per il mondo, rubando racconti. È una storia fatta per essere letta ad alta voce. Io ascolto sempre il suono di quello che scrivo. La letteratura può sopravvivere solo se immette più oralità nella scrittura».


“La Regina del Silenzio” ha avuto una gestazione lunga, forse inconsapevole nel suo stesso autore. Comincia a sedimentare circa otto anni fa, quando la musica è entrata fortemente nella vita di Paolo Rumiz. L’amicizia con Lacosegliaz, poi con Riccardo Muti, che gli suggerisce la forma della ballata per “La cotogna di Istanbul”, il romanzo-canzone pubblicato nel 2010, più volte riscritto e collaudato nelle letture in pubblico, di cui sta per uscire ora la versione definitiva in spagnolo. Infine, l’incontro con Igor Coretti-Kuret e con la sua European Spirit of Youth Orchestra, il complesso di novanta giovanissimi musicisti, di paesi diversi, che ogni anno si scioglie e l’anno dopo rinasce, con altri talenti in erba, sconosciuti gli uni agli altri. «Per me incontare quest’orchestra è stata un’epifania - dice Rumiz - ha fatto entrare l’armonia nella mia vita. Condividere i problemi dei ragazzi, ascoltarli, rispondere alle loro domande, mi ha dato una grande lezione di gioia. Abbiamo collaborato per tre anni, l’ultimo con una vera e propria tournée in tutta Italia, da Trento a Matera, dove ho visto giovani che provengono dalle pianure sconfinate dell’est Europa paralizzati dalla bellezza del luogo, dall’emozione di suonare su un burrone abitato».


Il libro è fortemente legato a quest’esperienza, voluto per sostenere la Youth Orchestra, «che le istituzioni - si rammarica Rumiz - ignorano completamente». Ciascuno dei venti capitoli di cui si compone la favola è accompagnato dal suggerimento di un brano da ascoltare - Grieg, Dvorák, Wagner, Beethoven, Mendelssohn, Mahler, Sibelius, Stravinskij, solo per citare alcuni autori - e più della metà di queste pagine sono state eseguite nei concerti della European Spirit of Youth Orchestra, dove Rumiz si affiancava con la lettura.


La protagonista della “Regina del Silenzio” è Mila, una bimba che nasce quando suo padre, il guerriero Vadim, è già morto, ucciso in uno scontro con il bisonte dalle corna avvelenate della regina Ubidaga, la tiranna che ha imposto il silenzio degli strumenti e la cancellazione delle vocali, per schiavizzare un popolo privandolo di gioia e armonia. Ma Mila, quando era nella pancia della mamma, ha ascoltato la musica prima che fosse bandita, ha imparato la melodia della tambùrica di Tahir, il bardo che ha accompagnato con le sue note il momento del trapasso del padre. Mila vive nella proibizione della musica, ma sente dentro di sè la nostalgia di qualcosa che ha conosciuto e che la rende inquieta. Finchè il nonno Lev rompe l’omertà, raccontandole del bardo che ha suonato per sua madre incinta di lei, e la giovane decide di andare a cercarlo: insieme libereranno Eco, fatto prigioniero dalla tiranna, e restituiranno sonorità al paese. Lungo il cammino Mila incontra un maestro di violino e lei, che non ha mai suonato, ma per sei anni, prima di profferire parola, si è concentrata sull’ascolto di ogni suono intorno a sè, subito riesce a far vibrare le corde con l’archetto e a restituire la magia dei fruscii, degli scrosci, dei mormorii, dei sussurri che ha assimilato.



La violinista Aleksandra Latinovic


«La protagonista - racconta Rumiz - l’ha ispirata una giovane dell’orchestra, il primo violino Aleksandra Latinovic, quindici anni, serba. Anche lei non ha parlato fino ai cinque anni, ma ha fatto vibrare le corde del suo strumento prima delle vocali. È questo il segreto: nell’orchestra si insegna non a “performare” ma ad ascoltare, se stessi innanzitutto, poi gli altri. E quando torni a casa sei molto diverso da come sei arrivato».


Il libro, ci tiene a dire Rumiz, è frutto di una collaborazione tra “uomini di confine”. L’amico Piero Porro, calligrafo, ha creato le “cornici” dei capitoli in un alfabeto runico un po’ “latineggiante”, più vicino a noi, mentre la copertina e le illustrazioni sono firmate da Cosimo Miorelli, figlio di Moreno, fondatore del festival Stazione Topolò. «Cosimo - prosegue lo scrittore - che ora vive a Berlino, è cresciuto artisticamente a Topolò, dove ha visto arrivare artisti da tutta Europa. Da piccolo si è seduto sulle ginocchia di Peter Handke, ha respirato l’ambiente favolistico vicino alla frontiera. Gli ho chiesto di ispirarsi alle illustrazioni di due volumetti della sagra finnica Kalevala, che mi erano stati regalati da un amico di Monika Bulaj, durante il nostro viaggio, dalla Finlandia all’Ucraina, nel 2008, da cui è nato il mio libro “Trans Europa Express”. Ne abbiamo discusso e i disegni sono nati dai nostri dialoghi. Sulla copertina ci sono i musicisti che entrano nel regno del silenzio, illuminati da fiaccole, e lasciano stupefatti i soldati, che dopo tanti anni di silenzio sono incapaci di combattere».
 

Sulla copertina Miorelli ha disegnato anche la mappa del paese immaginario dove è ambientata la favola. È la terra dei Burjaki, la grande pianura oltre i Carpazi dove si stendono l’Ucraina, la Bielorussia, la Polonia. E dove, in assenza della cassa di risonanza naturale delle montagne, i popoli sono costretti a cantare per non deprimersi. Il Mare del Nord è il Baltico, Negroponto il Mar Nero, Ramadania un paese arabo d’oriente.
 

Quanto alla scelta dell’editore, Rumiz precisa che l’idea del libro è nata in un ristorante triestino insieme a Elisabetta Sgarbi. Lui le racconta dell’orchestra giovanile che gli sta a cuore, lei si dà da fare per sostenerla e suggerisce l’idea della fiaba. E così, con la Nave di Teseo, lo scrittore-camminatore firma la sua prima storia di pura invenzione. «Se non fossi diventato nonno - conclude Rumiz - questa macchina fiabesca forse non si sarebbe messa in moto». Per addormentare i suoi figli, quando gli veniva sonno e non sapeva più cosa inventare, scandiva i numeri col ritmo del verso. Ma dai due nipotini, non può permettersi di essere colto narrativamente impreparato.
@boria_a

mercoledì 11 ottobre 2017

IL LIBRO


L'unica verità possibile in una Perugia noir




Una Perugia notturna, popolata di ombre umane e di segreti. Una città colta e cosmopolita, dietro la cui facciata si nascondono traffici indicibili. Solide famiglie borghesi, ingessate nel loro benessere e nella loro reputazione, che nascondono desideri, pulsioni, vizi, debolezze. La scrittrice Carla Mocavero (prolifica: ha firmato molti romanzi, saggi, libri per ragazzi), nata a Perugia ma ormai a Trieste da molti anni, ha deciso di tornare a casa, letterariamente, con il suo ultimo libro, “L’unica verità possibile” (Morlacchi Editore, pagg. 163, euro 10,00), che presenta alla libreria Minerva di Trieste, venerdì 13 ottobre 2017 alle 18, in dialogo con Cristina Benussi.


Carla Carloni Mocavero


La Perugia in cui Mocavero conduce il lettore non è il salotto patinato di provincia, con il suo tran tran ipocrita e pasciuto, le bellezze artistiche, la storia e le Madonne sorridenti ad ogni angolo, in cui l’immagine da flyer turistico la congela. L’omicidio della studentessa Meredith Kercher ne ha scoperchiato le fragilità ed è in questo territorio in ombra, indebolito da nuovi innesti sociali ancora non integrati e aggredito silenziosamente dalla criminalità, che l’autrice ambienta il suo noir. Una storia che tiene insieme l’affetto per la città natale, com’è rimasta cristallizzata nel ricordo, con uno sguardo disincantato sulla Perugia di oggi, trasformata e per certi versi estranea e irriconoscibile.


Al centro della vicenda, una famiglia dell’alta borghesia e una strada, entrambe specchi di queste contraddizioni. Vittorio, vicedirettore di banca, inappuntabile nell’abbigliamento e nel carattere, sua moglie Francesca, dedita alla parrocchia e alle cene eleganti per pochi intimi, un figlio brillante e algido, chirurgo pediatrico in ascesa, una figlia liceale. La strada è quella stretta e buia che si infila tra le case eleganti della buona società. Ed è su questo vicolo che, da una finestra, Vittorio si affaccia ogni notte, a spiare le coppiette che si appartano in un angolo appena illuminato. Una perdonabile trasgressione in una vita ordinata e compassata, ma sufficiente a riaccendergli i sensi, a recuperare la passione annacquata nella deriva domestica, a riandare all’intimità con la moglie. Francesca fa finta di dormire, e invece sa, si arrovella ma non parla, in uno schema consueto. E alla finestra finisce per affacciarsi anche lei.


È quello che Vittorio, una notte, vedrà di sfuggita nella cantina del palazzo di fronte, abitato da ricchi conoscenti, l’episodio che scatena il meccanismo distruttivo. C’è un gruppetto di bambini con una donna, la tuttofoare storpia della parrocchia. Che ci fa lì? E che succede nei sotterranei del palazzo di quel noto avvocato, curatore fallimentare, sui cui conti, riempiti e svuotati con troppa facilità, si è già appuntata l’attenzione di Vittorio?


Senza addentrarsi nell’intreccio, per non “spoilerare” la trama, basta dire che quella visione notturna cambierà la vita di tutti i personaggi. Farà deflagrare i silenzi nella famiglia e porterà alla luce traffici innominabili, che coinvolgono la Perugia bene e professionisti all’apparenza cristallini. La provincia tranquilla e impettita si sgretola a ogni pagina, divorata dall’avidità, dalle ambizioni, dalle ipocrisie. E il finale è aperto e poco assolutorio. “L’unica verità possibile” - ancor più inquietante se a suggerirla è un religioso - a volte è la verità “addomesticata”, per salvare la faccia. E la facciata, appunto, della propria rispettabilità.