martedì 28 febbraio 2017

MODA & MODI

Le passerelle, le ecografie, le ipocrisie


Grinko in passerella con il compagno Filippo Cocchetti e le figlie Emma e Sophia


 Il corpo umano come un lenzuolo su cui scrivere, prendere posizione, esprimere opinioni. La moda vuol parlare, letteralmente, non soltanto attraverso il puro abito. Non è una novità. Periodicamente sulle passerelle sfilano collezioni piene di parole: slogan, esclamazioni, versi poetici e versetti religiosi. Ma nelle sfilate di questi giorni, da New York a Milano, qualcosa è cambiato, un'onda rimbalza.

Dagli “smack” e “wow” di appena due anni fa, siamo passati a “misery”, “fever”, al “don't give up”, non mollare. Moschino ha ricoperto le donne della scritta “fragile” e il suo designer Jeremy Scott come sempre si diverte a provocare: c’è qualcuno che le donne le considera più o meno pacchi e lui le veste come tali. O forse è proprio sul “fragile” che questa volta ci invita a focalizzare. Ci sentiamo davvero così? Pronti ad andare in pezzi? L’incertezza (anche nel gusto) è globale, la moda ne approfitta.
 

Negli Stati Uniti i designer democratici hanno preso di petto il presidente Trump. E molto del “lettering” sui vestiti inchioda le sue politiche: "we are all human beings", siamo tutti esseri umani dice il brand Creatures of Comfort. “We need leaders”, rilancia Public School, un inequivocabile “abbiamo bisogno di leader”. Prabal Gurung, più volte scelto da Michelle Obama in occasioni pubbliche, risponde alle pussy del presidente (le olgettine d’oltreoceano) con “the future is female”, il futuro è donna, e “stronger than fear”, più forte della paura. Come agli Oscar l’indignazione genuina verso The Donald si mescola alla promozione, all’eco mediatica di una protesta che monta 
planetaria. 


Creatures of Comfort

 
Public School



Donatella Versace preferisce parteciparvi con parole pacate e universali: amore, lealtà, coraggio. Angela Missoni fa indossare alle modelle il berretto rosa, il pussypower hat, contro chi vuole ridurre le donne in un recinto, professionale o sessuale che sia. 


Destabilizzante il georgiano Grinko, che ha chiuso la sfilata milanese insieme al futuro marito e alle loro gemelline appena nate da una fecondazione eterologa. Lo slogan è dirompente, “love gives life”, l’amore dà la vita, ogni tipo di amore, senza pregiudizi. Sfilano i nomi delle neonate, le loro ecografie stampate su velluti e sete. Bastava questo a trasmettere il messaggio. Perchè qualsiasi bambino, arcobaleno o no, ha diritto alla delicatezza, prima ancora che alla riservatezza. E non c'è causa o passerella degne di toglierglielo.
@boria_a

lunedì 27 febbraio 2017

IL LIBRO

Louboutin si è ispirato a Filippo d'Orléans




Le suole rosse di Louboutin? Hanno un precedente illustre, addirittura di sangue blu. Una leggenda vuole che sia stato Filippo d’Orléans, fratello di Luigi XIV e come lui basso di statura, a lanciare la moda dei tacchi rossi, nata a Versailles tra il 1670 e il 1680. Pare che il principe fosse finito con i piedi sopra sangue di bue, imbrattandosi le scarpe. Accidente più che trend, fatto sta che l’espressione “talons rouges” è sopravvissuta fino agli inizi del XX secolo per designare l’aristocrazia o i nuovi ricchi che scimmiottavano la nobiltà dell’Ancient Régime.

Colore per eccellenza, il rosso. Per millenni in Occidente l’unico degno di questo nome. Non che non esistessero altre tinte, ma dovettero aspettare a lungo prima di avere un posto rilevante nella produzione, nei codici sociali e nei sistemi di pensiero. Ce lo racconta lo storico Michel Pastoureau nel quarto volume della sua affascinante storia dei colori pubblicata in Italia da Ponte alle Grazie: “Rosso” (pagg. 215, euro 32,00), che segue i precedenti “Blu”, “Nero” e “Verde” e si concluderà con il saggio dedicato al giallo (www.ponteallegrazie.it)





Pericoloso indossare il total look rosso nella Roma imperiale. Le stoffe tinte di porpora, secondo gli insegnamenti mutuati da Greci, Egizi e Fenici, erano appannaggio di sacerdoti, magistrati, comandanti militari. Monocolore poteva essere solo l’imperatore, che aveva autorità assoluta ed essenza divina. Lo sperimentò sulla sua pelle il povero figlio del re di Numidia Giuba II, un fashionista piuttosto sfrontato, che - racconta Svetonio - sotto il regno di Caligola si presentò a Roma vestito di porpora dalla testa ai piedi, e fu arrestato e giustiziato.(leggi anche"Diabolico verde")


In età imperiale il rosso era comunque la tinta degli arricchiti (spesso succede anche alle Louboutin...), mentre i “vecchi romani” preferivano il bianco o il nero. Diverso discorso per le signore, che si coprivano di gioielli e amuleti con rubini, granate, diaspro e cornalina, paste di vetro, pezzi di cinabro o di corallo, per catturare gli occhi altrui e favorire la buona sorte. Anche gli uomini non disdegnavano gioielli e talismani, soprattutto con rubini, pietra rossa per antonomasia, ritenuta capace di suscitare ardore sessuale e allontanare serpenti e scorpioni.

In auge per tutto il Medioevo, per papi e imperatori, il rosso cade in disgrazia con la Riforma protestante. Per le nuove morali propagate dalle leggi suntuarie, è tinta vistosa, costosa, indecente, depravata. Un colore pericoloso. Il buon cristiano la evita ora che anche il Pontefice privilegia il bianco. Il colpo di grazia arriva dalla scienza. Quando nel 1666 Isaac Newton scopre lo spettro, ovvero la nuova classificazione che è ancor oggi alla base della fisica e della chimica dei colori, il rosso non si colloca più al centro della scala cromatica, come nell’antichità e nel medioevo, bensì a uno degli estremi.


 Nell’epoca luterana è particolarmente avversato, come colore della Roma papista, assimilata alla grande meretrice di Babilonia citata nell’Apocalisse. Nel 1558 Calvino lo mette al bando per legge, proibendone l’uso nel vestiario sia agli uomini che alle donne.

Resta intatta, però, la sua forza sul piano simbolico. Il rosso è aristocratico, anche per il costo delle tinture. I “tacchi rossi” di Filippo di Francia nacquero da uno spiacevole incidente, ma dilagarono in tutte le corti europee. E il rosso da favola? Non può che essere quello di Cappuccetto, nota soprattutto per la versione di Perrault (1697) e dei fratelli Grimm (1812), anche se le attestazioni scritte più antiche risalgono all’anno mille. Sul rosso di quel cappuccetto (forse una mantellina, o una cuffia, o un semplice lembo di stoffa...) le interpretazioni si sprecano: colore della crudeltà e del sangue versato; colore usato in campagna per vestire i bambini, in modo da sorvegliarli più facilmente; colore dello Spirito Santo, perchè le testimonanze scritte più antiche collocano la fiaba del giorno di Pentecoste; colore protettivo contro le forze del male. Sul piano psicanalitico, una controversa spiegazione: il rosso del cappuccetto ha una forte connotazione sessuale. E la bambina, in realtà adolescente pubere, avrebbe una gran voglia di finire a letto col lupo.




Cappuccetto Rosso



Dalla rivoluzione francese in poi, lungo il Novecento corre un filo rosso politico. Il legame con i partiti o i gruppi politici di sinistra ed estrema sinistra, domina la storia di questo colore per un secolo e mezzo, relegando in secondo piano tutti gli altri suoi campi simbolici: infanzia, amore, passione, bellezza, piacere, erotismo, potere, giustizia.


Oggi, negli abiti, preferiamo la discrezione del blu, spesso cediamo all’ostico verde. Il rosso non è più il nostro prediletto, ma rimane un formidabile strumento di seduzione. Studi scientifici lo dimostrano: la “woman in red” ha più appeal. Anche se il rosso finisce sotto le scarpe.

@boria_a

venerdì 24 febbraio 2017

L'INTERVISTA

Il cronista e l'ex camorrista raccontano l'Italia sepolta dai rifiuti (e i rifiuti sepolti)








Nunzio Perrella, camorrista pentito, è un nome che ai più non dice niente. Quando venne arrestato, nel ’92, decise di diventare collaboratore di giustizia. E cominciò a parlare. Non del traffico d’armi e droga, i reati che gli venivano imputati, ma del gigantesco sistema del traffico di rifiuti in Italia. Interrogatori fiume che scoperchiarono un calderone infernale: luoghi, nomi, aziende, politici, imprenditori, camorra. Connivenze coscienti, compiacenze politiche, interessi a tutti i livelli, truffe, falsificazioni.

È in quel momento che Perrella avrebbe dovuto diventare noto a tutti, perchè per primo parlava della “munnezza” connection. Non è stato così. Ventidue anni dopo, pagato il suo conto con la giustizia e uscito dal programma di protezione, Nunzio Perrella è un uomo libero e molto arrabbiato. Perchè quelle sue rivelazioni, così dettagliate, avrebbero dovuto far saltare un business consolidato di scempio del territorio e attentato alla salute pubblica, che invece ha continuato a esistere e prosperare. Come se nulla fosse successo. Come se niente fosse stato detto.


È in questo momento che l’ex camorrista Perrella incontra Paolo Coltro, giornalista in pensione con una lunga carriera nel gruppo Finegil. Si conoscono, si parlano per un anno - anzi, Perrella parla e Coltro domanda - e la storia di due decenni prima torna fuori. E diventa un libro, “Oltre Gomorra. I rifiuti d’Italia” (CentoAutori, pagg.255, euro 15). Non un saggio, ma un resoconto spietato, sconfortante, chirurgico del peggiore stupro dell’ambiente del secolo. Il quadro di un’Italia, tutta, che si muove, vive, lavora su un mare di rifiuti tossici: intombati ovunque. E per questo, in tante regioni, si muore.



Nunzio Perrella, camorrista pentito
 
Paolo Coltro


Coltro, com’è avvenuto il suo incontro con Nunzio Perrella?
«Perrella ha vissuto e lavorato molti anni nel Nord Italia. Quando ha finito il suo percorso e pagato il suo debito, nel 2014, dopo ventiquattro anni tra galera e domiciliari, ha visto che nel frattempo non era successo niente. Era incazzato nero e cercava qualcuno per raccontare la sua storia. Ci siamo visti per un anno: parlava in napoletano stretto, io registravo, prendevo appunti, mi documentavo. Il suo nome non è quello di un camorrista famoso, non ne sarebbe uscita una biografia. Quello che raccontava, invece, era giornalisticamente interessante perchè ti portava in altri territori, scopriva altre magagne. Questo a me interessava: cercare di capire perchè, dopo la sua denuncia, per vent’anni tutto è rimasto come prima».


Che impressione le ha fatto Perrella? «È un uomo che appartiene a un mondo in cui si ragiona in un modo che neanche ci immaginiamo. Non ha istruzione, forse l’unico libro che ha letto è quello che abbiamo firmato insieme. La prima volta che ci siamo incontrati, a Vicenza, è arrivato con un guardaspalle, un omone che ha detto essere suo nipote, con strani rigonfiamenti sotto le ascelle. Poi ci siamo visti da soli, nei baretti di periferia: non raccontava balle, lo sapevo, ma io dovevo verificare tutto, documentare. Nel libro c’è una parte sulla sua biografia che mi è piaciuto scrivere. Ma Perrella è un ex delinquente praticamente sconosciuto, diventa interessante se lo guardiamo sotto il profilo dell’uomo che ha rivelato qualcosa che poteva essere una bomba e invece così non è avvenuto».


È vero che è stato il primo a far entrare la camorra nel business dei rifiuti? «Lui faceva impermeabilizzazioni e lavorava in subappalto per la Soavi Asfalti di Vicenza. Quella ditta riciclava di tutto, anche oli esausti che adoperava per fare sottofondi stradali pasticciati, la cosiddetta “pastina”. Di solito li smaltivano i dipendenti, un paio di fusti al colpo. Ma una volta ce n’erano troppi e chiesero a Perrella di portarli a Napoli».


Così venne fuori tutto... «Gli si aprì un altro mondo. I cinquanta fusti non glieli accettarono, perchè nelle discariche entrava solo il materiale degli imprenditori del Nord che erano in affari con i proprietari del sito. Un fiume di denaro che nessuno voleva spartire con altri. La camorra non ne sapeva niente, Perrella scoprì il giro e ce la fece entrare, obbligando i proprietari delle discariche ad accettare anche il suo smaltimento. Lui però voleva fare le cose legali, occuparsi solo del trasporto, perchè già con quello si guadagnava moltissimo. Pensiamo a un rifiuto che parte come “speciale” o “tossico” ed entra in un meccanismo di cambi di bolle e falsificazioni, per cui alla fine viene declassificato, diventa rifiuto normale: smaltirlo costa meno, nelle discariche si butta di tutto, e i guadagni sono altissimi».


Poi però lo presero. «Per traffico d’armi e droga. Fu allora, nel ’92, che cominciò a parlare con i magistrati del traffico dei rifiuti e diventò collaboratore di giustizia. Decine di ore di registrazione, più di cento pagine di verbali: Perrella fa i nomi di oltre duecento aziende coinvolte, elenca circostanze, località, metodi di smaltimento. C’era tutto». 


Sembra incredibile che la camorra ignorasse questo traffico... «Il business era tra gli imprenditori del Nord e quelli del sud che gestivano le discariche. Anzi, gli imprenditori al Nord avevano fatto tutto da soli, all’inizio, riempiendo Lombardia, Veneto, Liguria, Emilia, Toscana. Anche il Friuli Venezia Giulia: Perrella parlò di pezzi di strade in Carnia sotto cui c’erano i rifiuti. Quando il Nord fu strapieno, si cominciò a mandare i camion a Sud. E adesso ripartono verso Nord, in un traffico quasi incontrollabile. Eppure dopo l’inchiesta Adelphi, tutta basata sulle dichiarazioni di Perrella, vennero accolte solo dieci su ventuno richieste di rinvio a giudizio, il processo del ’93 si concluse con solo sei condanne per abuso d’ufficio e corruzione, non per associazione mafiosa e, all’appello del ’99, la prescrizione cancellò tutto. Non c’erano norme penali per colpire i reati ambientali e, in mezzo, connivenze politiche, incapacità, ritardi della magistratura».


Quand’è che inquinare diventa reato? «Dopo vent’anni di proposte di legge, nel maggio 2015 viene approvato l’articolo 452 bis del codice penale, reato di inquinamento ambientale, che funziona fino a un certo punto. Per capire come mai c’è voluto tutto questo tempo, basta andare a vedere gli interventi dei partiti in sede di commissione legislativa. Forza Italia continuava a mettere emendamenti per fare gli interessi degli imprenditori... è lì che si annida lo scandalo. La legge poi prevede il “ravvedimento operoso”, che il procuratore Gianfranco Amendola ha definito un’istigazione a delinquere. Ovvero, se chi ha inquinato si offre di mettere tutto a posto, gli si affida la bonifica, un’ulteriore fonte di guadagno».


Nei giorni scorsi sono morti otto bambini nella Terra dei fuochi...
«Questo fa notizia, certo. Ma bisogna risalire alle cause del meccanismo. Il ministro Lorenzin ha detto: “Sono 64 ettari...” Scherziamo? Lì è inquinato tutto. Perchè non ci sono controlli? Percgè la Campania non ha un Registro tumori? Perrella ha raccontato che vicino Napoli, in zona Licola, le case sono state costruite sopra un buco con gli scarti dell’Italsider di Bagnoli e delle ceneri dell’Eni. Il materiale era stato portato dai camion, venti al giorno, per mesi, passando davanti a Carabinieri e Finanza. E loro dov’erano? A chi comprava si faceva sottoscrivere un atto in cui dichiarava di essere a conoscenza di tutto, per evitare cause successive. In questo quartiere oggi abitano professionisti, la borghesia. Si fanno i carotaggi nel terreno, ma cinquecento metri più in là, altrimenti salta il palco. Questo è l’intento del libro: dimostrare che basta che qualcuno, in uno dei segmenti del processo di smaltimento, non faccia il suo dovere, non veda, e tutto va a remengo».



Discarica portata alla luce nella Terra dei fuochi


La magistratura è chiamata in causa? «Prendiamo la discarica Pitelli a La Spezia, proprio sopra il Golfo dei poeti. Il primo a parlare di come la gestiva il suo patrón, Orazio Duvia, è stato proprio Perrella. Si arriva al rinvio a giudizio del 2003 per disastro ambientale e una sfilza di altri reati. L’invaso è definito “imbonificabile”, al punto che anche il ministero dell’Ambiente vuol costituirsi parte civile, ma il magistrato respinge. Dopo otto anni di processo, gran parte dei reati è prescritta. Resta il disastro ambientale, all’epoca sanzionato da contravvenzione, ma in cinquecento righe di motivazione il giudice si addentra nella legge per dire che il reato non sussiste. Tutti assolti. Certo, avrà ragione in punta di diritto, ma va contro la realtà, il senso comune. Ci sono anche queste antinomie, questi paradossi».


Com’è la situazione dalle nostre parti? «Come fai a scoperchiare la terza corsia, da Verona a Venezia? Là sotto c’è di tutto. Come sotto l’A31, Valdastico sud Vicenza-Rovigo. E il parcheggio dell’aeroporto di Venezia, pieno di una sostanza fatta di rifiuti, chi lo toglie? Forse qualche sospetto lo deve far venire anche il passante di Mestre... Speriamo che si salvino la Pedemontana, da Treviso a Vicenza, e la terza corsia tra Venezia e Trieste. Pensiamo ai parcheggi enormi dei centri commerciali: l’industriale riceve una certa somma e dice solo “fate una bella buca...”. Poi, sopra, si butta l’asfalto».

@boria_a

giovedì 16 febbraio 2017

L'INTERVISTA

Laura Boldrini: "Le parole lanciate in Rete fanno ancora più male" 


Laura Boldrini




La ferita provocata da una parola non guarisce. È un proverbio vecchio, ma più che mai attuale nell’epoca della comunicazione 2.0. Lo sa bene Laura Boldrini, che in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne ha postato sul suo profilo Facebook, e ha reso pubblica, una selezione delle oscenità che ogni giorno le arrivano via web. Ma anche un hashtag apparentemente innocuo, #sgonfialaBoldrini, diventando virale può trasformarsi in arma.
Sarà proprio la presidente della Camera dei deputati l’ospite più importante della prima giornata di Parole O_Stili, l’evento che, il 17 e 18 febbraio alla Stazione Marittima di Trieste, rifletterà sulla violenza verbale, l’odio, il pregiudizio, il razzismo, l’aggressività in rete, chiamando a raccolta giornalisti, comunicatori, politici, influencer.


I lavori inizieranno alle 16.30, in seduta plenaria, per la presentazione del “Manifesto della comunicazione non-ostile”, nel corso della quale Laura Boldrini sarà intervistata dalla giornalista Anna Masera. Domani, dalle 9, in panel distinti e con diversi relatori, si affronteranno temi quali le “bufale”, gli algoritmi, il giornalismo, il rapporto tra giovani e social media, gli affari e la politica, ma anche il turismo e lo sport nel web.


Per la presidente Boldrini la giornata triestina comincerà già questa mattina, alle 11, con una visita ai bambini e agli operatori della Fondazione Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin. Alle 12, alla Scuola interpreti di via Filzi, si incontrerà con i rappresentanti politici ed economici della comunità slovena. Nel pomeriggio il dibattito sul peso delle parole lanciate in Rete, spesso tutt’altro che leggero e virtuale. Ecco che cosa ci ha anticipato su questi temi.


Presidente Boldrini, quali sono le parole “ostili” della Rete? «Le parole che feriscono e fanno male sono quelle violente, quelle d’odio, quelle prive di ogni motivazione e dettate da rabbia e rancore».


Perché “virtualmente” ci si sente impuniti e si diventa più aggressivi? «Si crede che la rete sia una “terra di nessuno” mentre c’è sempre un destinatario che riceve gli insulti e la violenza. La libertà di un individuo finisce nel momento in cui va a ledere la libertà di qualcun altro a essere rispettato. Credo che sia arrivato il tempo delle responsabilità per tutti. Per chi utilizza le piattaforme ma anche per chi le gestisce e, dunque, ospita e tollera certi comportamenti, peraltro vietati dalle leggi del nostro Stato».
Lei ha intrapreso una battaglia contro le “bufale”. Quali sono gli effetti più pericolosi di una notizia falsa?
«Ritengo che essere informati correttamente sia un diritto, essere disinformati, invece, un pericolo. Le bufale non sono goliardate ma provocano danni reali alle persone. Basti pensare a quelle sui vaccini pediatrici, sulle cure mediche improvvisate o alle truffe online».


Perché Facebook è così lento nella rimozione dei contenuti offensivi? Lei ha scritto a Zuckerberg... «Facebook, insieme agli altri colossi della Rete, ha firmato un codice di condotta contro "la diffusione dell'illecito incitamento all'odio in Europa". La prima verifica semestrale dice che risulta cancellato appena il 28% dei contenuti segnalati come discriminatori o razzisti. Una media che si ricava dal 50% di Germania e Francia e dal misero 4% italiano. Forse tutto questo avviene anche perché Facebook, nonostante i suoi 28 milioni di utenti in Italia, non ha ancora aperto un ufficio operativo nel nostro Paese».


La libertà di espressione in rete può essere messa a rischio da interventi “censori”? «Dobbiamo chiarirci sul significato della parola censura: io penso che censurare vuol dire nascondere la verità. E il diritto alla libertà di espressione vada inteso nella maniera più estensiva possibile, purché non ci si spinga, in nome di questo, oltre il rispetto della libertà altrui. La violenza e l’odio in rete non hanno nulla a che vedere con la libertà di espressione. Sono due ambiti assolutamente distinti da non sovrapporre in alcun modo».


Non dovrebbe essere compito di Parlamento e Governo prendere iniziative legislative su temi così delicati?«Credo che prima di adottare soluzioni legislative bisogna dare ai cittadini l’opportunità di prendere coscienza del problema e fornire loro gli strumenti per agire. Per questo l’appello #bastabufale non propone nuove leggi. La risposta, inoltre, non può essere affidata né ad “autorità pubbliche anti-bufale” né, tantomeno, a “tribunali del popolo”, come qualcuno ha prospettato. Io sono per la terza via: ripartire dalle scuole e dall’università, insistere sulla formazione, affinché i giovani sappiano distinguere una fonte attendibile da una che non lo è, sviluppando senso critico e cultura della verifica. Inoltre come lei saprà a livello parlamentare io ho intrapreso più di un’iniziativa. Il 28 luglio 2014 ho istituito una Commissione Internet, composta da deputati ed esperti, che ha elaborato una Carta dei Diritti e dei Doveri in Internet e adesso sta per iniziare un tour nelle scuole italiane per formare docenti e ragazzi a un uso consapevole e responsabile della Rete. E lo scorso 10 maggio ho istituito un Commissione contro l’odio che voluto dedicare a Jo Cox, la deputata britannica uccisa da un estremista a causa dell’odio politico».


Lei ha incontrato il vicepresidente di Facebook per l’Europa. Che proposte tecniche gli ha fatto? «Il principio di fondo delle proposte fatte ai vertici di Facebook è che i cittadini non possono essere lasciati soli e in balia di chi vuole avvelenare i pozzi della rete svilendo le enormi potenzialità che io vedo nei social network, sia dal punto di vista culturale che relazionale ed economico».


La Disney ha appena preso le distanze dal re di Youtube, lo svedese PewdiePie, con cui collaborava, perché ha postato video antisemiti. I colossi cominciano a muoversi?«Spero che quello che stiamo facendo possa servire proprio a questo».


A Trieste si approverà un Manifesto per il linguaggio “non ostile” in rete. A suo avviso quale deve essere il punto fondamentale di questa Carta? «Il Manifesto contro la comunicazione ostile è un’ottima iniziativa, che ha tutto il mio sostegno. Penso che la nascita di una comunità virtuale che propone una cultura alternativa a quella dell’odio è un fatto estremamente positivo. Dimostra che il web stesso può sviluppare anticorpi per reagire e contrastare il fenomeno dell’hate speech».
 

Lei incontrerà la comunità slovena a Trieste. Quali i temi di cui discuterete?«Mi fa piacere questo incontro, perché so che si tratta di una comunità molto dinamica e fortemente integrata nel tessuto economico e sociale della regione. Parleremo delle iniziative che hanno in corso, del loro ruolo di “ponte” fra le culture, della rete associativa a cui hanno dato vita. Cittadinanza attiva, ciò di cui la democrazia ha un gran bisogno». 

Che cosa significa oggi tutelare le comunità etniche in un mondo sempre più globale?«Significa che in democrazia le minoranze sono un valore aggiunto e come tali vanno considerate anche a livello legislativo. Il nostro Paese può essere orgoglioso delle leggi che riconoscono e tutelano le minoranze linguistiche. In Italia queste leggi non sono una concessione che lo Stato fa a “realtà estranee” presenti sul nostro territorio, ma sono atti attraverso i quali la Repubblica accoglie pienamente nel suo seno migliaia di cittadini italiani che hanno un proprio bagaglio culturale, una propria tradizione, una propria espressione linguistica. Cittadini di una comunità, aperti al tempo stesso all’Europa e al mondo. Il contrario delle spinte ultranazionaliste che di questi tempi si fanno sentire minacciose».

@boria_a

sabato 11 febbraio 2017

MODA & MODI

 Sentirsi addosso gli occhi della Ferragni




Il peggior incubo di San Valentino? Scartare il pacco regalo e vedersi scrutare dall'occhione cigliato del logo di Chiara Ferragni. Vanno in coppia: uno è sgranato, come quelli di lei medesima, l'altro è chiuso. L'effetto è un po' inquietante, soprattutto se piazzati sulle t-shirt bianche e sulle felpine all'altezza dei capezzoli. Un indicatore infallibile del target al quale questi prodotti sono indirizzati: ragazzine prepuberi o anoressiche, che non corrono il rischio di vedersi il seno vampirizzato dal brand della fashion blogger più famosa del mondo, appena salita in cattedra ad Harvard a spiegare agli studenti di marketing i segreti del suo impero commerciale.

In fatto di design, la fantasia della "blonde salad" non va molto più in là dei suoi bulbi oculari. Glitter a vagonate su qualsiasi superficie commerciabile - scarpe, magliette, zaini, giacchette, cover per il cellulare, berretti- una profusione di stelline e labbra rosso fuoco, l’immancabile sfarfallio di cuoricini che aggancia la generazione dei “mi piace”. Un mondo mieloso e ammiccante, un upgrade di hello kitty (lei sì micetta iconica).
Eppure - l'ha dichiarato la stessa Ferragni - con le sue "collezioni", soprattutto di scarpe, guadagna molto di più che con il blog, valutato una non disprezzabile cifra intorno agli otto milioni di dollari.


Come si spiega? Quale leva del desiderio promuove un’intera linea di calzature - dalle ballerine ai moonboot, passando per espadrillas e scarpe da ginnastica - uniformemente spalmate di brillantini e indistinguibili (se non per il prezzo) da quelle che si pescano nei cestoni di un qualsiasi supermercato? Perchè volersi mettere sulle spalle, sborsando minimo quattrocento euro, uno zainetto ordinarissimo, con un occhio impallato e uno chiuso? O un paio di stivali che lo stesso globo azzurro lo piazzano all’altezza dell’articolazione del ginocchio?


Si dirà: potere della firma di una millennial regina dei social. Un logo ipertrofico e confortante, per insicure, tamarre, nuove ricche. Pezzi banali, dal design inesistente, che non richiedono spregiudicatezza di abbinamenti ma sono subito riconoscibili. Simboli facili - la stella, il cuore, le ciglia da eroina manga - per piacere alla dodicenne che tormenta la madre come all’universitaria attenta alle “influencer”. E la piattezza , l'assenza di profondità e prospettiva delle immagini di Instagram che, come effetto perverso, contaminano il gusto.

@boria_a

sabato 4 febbraio 2017

IL LIBRO

Dentro un nido di soldi e tanti vizi



Un debutto letterario a 55 anni. Una storia ambientata nella New York dei piani alti, ricca, annoiata, viziosa, con velleità artistiche. Personaggi già pronti per essere trasferiti dalla carta a uno schermo, grande o piccolo che sia: il cocainomane brillante, l’antiquario gay, la scrittrice promettente ma inesplosa, la mamma di famiglia chioccia e un po’ scialba. Una trama accattivante, che ribolle di sviluppi, la penna incisiva di una copywriter.


Cynthia D'Aprix Sweeney


“Il nido”, primo libro dell’americana Cynthia D’Aprix Sweeney, ha insomma tutti gli ingredienti giusti per scalare le classifiche di vendita ed essere trattato con sufficienza dai critici, come puntualmente è avvenuto. Caratteri poco sfaccettati, senza nugoli di disperazioni o perversioni da districare, alla Franzen o alla Roth per intenderci, trama che va giù come un cocktail ghiacciato, nessun pugno allo stomaco, finale compiacente, assolutorio.
Tutto vero, o almeno in parte. Eppure il romanzo, che ora esce in Italia (Frassinelli, pagg. 358, euro 19,00) “fidelizza” il lettore fino alla fine, a dispetto di quell’albero genealogico all’interno della copertina, che inibisce sempre, fa paventare chissà quali garbugli, e qui è soprattutto inutile: i personaggi non sfuggono e ci viene facile, dopo qualche pagina, seguirne i pur zigzaganti percorsi. 

Perchè allora “Il nido” si legge d’un fiato? Sarà il contesto, che tocca in tutti qualche corda, a diversi livelli: la famiglia disfunzionale. O il tema: fino a che punto il denaro riesce a distruggere i nostri legami? O l’attacco, che è un trailer ben montato: rimorchio di una cameriera, sesso in una Porsche a velocità sostenuta, occhi del conducente (sposatissimo e sballatissimo) che si velano, schianto, buio.




Cos’è il nido? Legami, affetti, accudimento, mutualità. Per i quattro fratelli Plumb è altro e molto di più. Un fondo fiduciario che il padre defunto ha costituito per loro e su cui potranno mettere le mani quando la più piccola, Melody, la mamma iperprotettiva che “monitora” la posizione delle figlie gemelle con una app da stalker, avrà compiuto quarant’anni. Ma ognuno di loro ha fatto proprio quello contro cui il padre li aveva messi in guardia (don’t count the chicken before they hatch, non contare i pulcini prima che buchino l’uovo...): e invece i suoi, di "pulcini, si sono indebitati, hanno ipotecato beni, si sono levati sfizi e preoccupazioni, hanno costruito il futuro su un denaro di là da venire.


Quando però, dai rottami di quella Porsche comprata in leasing, la cameriera diciannovenne che prima del botto armeggiava nei pantaloni di Leo, esce con un piede da amputare, è chiaro che il “nido” s’involerà: dovrà servire a risarcire la ragazza mutilata e a distribuire in giro qualche incentivo per non distruggere la reputazione del rampollo Plumb, spedito in un centro di disintossicazione. La mamma dei quattro, ex vedova Plumb riaccasatasi appena smessi i vestiti del lutto (e forse proprio per questo), paga subito. Non le par vero di rimpolpare il suo esangue senso materno dando al primogenito una seconda chance e di allontanare possibili pettegolezzi dagli affari del secondo marito.


La storia prende le mosse da qui, dal polverizzarsi di quell’aspettativa economica che fa emergere le patologie nei rapporti. Dalla rottura del nido che rivela silenzi, bugie, piccole e grandi infedeltà, espedienti. Quella zona grigia dove ognuno ha vissuto con la calcolatrice in mano, unito ai fratelli solo dalla sua fetta di lascito. Ma i tradimenti vanno più in là del “nido”. Jack, sposato con un uomo che l’ha salvato da promiscuità e Aids, ha taciuto le nozze ai consanguinei e al partner i debiti e un tentativo di truffa per sanarli. Bea, la scrittrice di un unico libro di successo, si è ingrigita nel tentativo di ripetersi, “sistemata” comunque nell’appartamento che le ha lasciato il grande amore defunto, di cui i parenti non sanno nulla. L’incolore Melody, tutta assorbita dal futuro della prole, si trova a gestire un sogno infranto e un outing inaspettato. Alla fine, l’infingardo Leo, traditore seriale e sanguisuga, è il meno ipocrita: il suo “sono nella merda” non è nè confessione nè preghiera, solo l’offerta all’interlocutrice di turno di un modo elegante per svignarsela.


Cosa resta del “nido” se i soldi sono finiti? Il rifugio negli affetti più prossimi, sembra suggerire l’autrice. Finale fin troppo prevedibile per non prestarsi a futuri sviluppi. Spunta una nuova generazione, con tutta l’eredità e il corredo genetico dei Plumb.

@boria_a

mercoledì 1 febbraio 2017

L'INTERVISTA

Marina Calculli: "Giulio Regeni vittima della realpolitik"





Marina Calculli




Marina Calculli, studiosa di relazioni internazionali del Medio Oriente, ha vissuto per sei anni da ricercatrice all’estero, tra Siria, Libano ed Egitto. L’esperienza che stava facendo Giulio Regeni la conosce bene, e la sua morte barbara la tocca nel profondo. Quel video che lo riprende per l’ultima volta vivo - dice - è la testimonianza agghiacciante di un divario culturale: da una parte il venditore ambulante che non capisce il meccanismo dei fondi destinati alla ricerca, che pensa allo stereotipo dell’occidentale con tanti soldi, dall’altra Giulio, un ragazzo pulito, genuino, onesto, che si offre di cercare comunque un modo per aiutarlo.

«Ma per quanto gigantesco sia l’equivoco sui fondi - puntualizza Calculli - il vero colpevole è lo Stato egiziano. Le spie si espellono, non si torturano. Nel dibattito italiano, purtroppo, si colpevolizza la vittima e si finisce per giustificare Al-Sisi in nome di una realpolitik da bar. Si dice che Al-Sisi garantisce la lotta ai terroristi, dimenticando che questa sua lotta è a tutti i dissidenti, a tutti gli oppositori del suo regime che vengono incarcerati con accuse di terrorismo. La sua debolezza genera isteria».

Marina Calculli, attualmente assegnista di ricerca all’Università l’Orientale di Napoli e ricercatrice al Middle East Centre dell’Università di Oxford, è la curatrice, insieme al giornalista e scrittore Shady Hamadi, di “Esilio siriano. Migrazioni e responsabilità politiche” (Guerini e Associati, pagg. 190, euro 18,50): una raccolta di contributi di autori diversi sul duplice dramma del popolo siriano, il distacco forzato dalla propria terra e la perdita dello spazio pubblico in cui esercitare il diritto di cittadinanza. Un volume che analizza soprattutto il carattere “politico” della condizione di esule, cominciato ben prima della guerra del 2011 e articolato in diverse forme di fuga, sopravvivenza e resistenza al regime degli Assad.





Dottoressa Calculli, verrà mai a galla la verità sul caso Regeni? «Non verrà e non ne abbiamo bisogno. È tutto chiaro. Al Sisi è ben consapevole che le tecniche di tortura sono una firma, un marchio, portano a una responsabilità ben precisa. La verità è stata offesa e vilipesa anche dall'atteggiamento sciatto nel confezionare finte verità: il movente della gelosia, l’incidente, fino al sacrificio da parte dello Stato di cinque egiziani per creare l’illusione di aver trovato i colpevoli. E noi? Abbiamo ritirato l'ambasciatore, ma non abbiamo fatto grandi pressioni. E il giorno dopo è arrivata la Francia con contratti su sicurezza ed energia. Una realpolitik plateale. L'Egitto può fare a meno dell'Italia, ci sono altri paesi con cui fare affari. Il regime non ha nessun incentivo a chiedere scusa nè ad ammettere le torture sistematiche che tutti i giorni si compiono nelle carceri, una realtà che conosciamo bene ma che è rimasta sottaciuta per interessi politici».


L'Unione Europea ha lasciato sola l'Italia? «L'Ue ha fatto mozioni individuali, ma non ha preso misure unitarie. Nel 2013 Obama disse ad Assad che l'uso di armi chimiche era la linea rossa, dopodiché ci sarebbero stati i bombardamenti. Quando però si seppe che le armi chimiche erano state usate nelle campagne intorno a Damasco, a sorpresa saltò fuori un accordo tra il regime e la comunità internazionale: Assad avrebbe dovuto consegnare alla Nato tutte le armi chimiche del paese. Kerry ringraziò, ma in seguito ci fu l’evidenza di altri attacchi. Questo è il punto: se non ci sono sanzioni efficaci, non c'è neanche l’incentivo a comportarsi meglio. E questo indebolisce tutti per quanto riguarda i diritti umani. È un falso mito che il passaporto europeo ci metta al sicuro. Il caso di Giulio ha messo in luce la vulnerabilità cui gli occidentali sono esposti in certi paesi, che è la vulnerabilità di tutti i cittadini di quei paesi».





E l'Università? «Ma che cosa avrebbe potuto e dovuto fare? Cambridge ha sostenuto la ricerca della verità in tutte le sue manifestazioni. Che cosa può fare un’Università in un contesto dove ci sono responsabilità politiche gravissime, che in altre epoche avrebbero messo a repentaglio le relazioni tra i paesi? Quello che faceva Giulio non era eccezionale, la sua ricerca non era né strana né anomala, molti ne hanno fatte di simili per anni. Cambridge non l'ha mandato allo sbaraglio. Se lo pensassimo, metteremmo in discussione tutta la politica della ricerca. Quello che è eccezionale, invece, è la modalità della tortura». 


L'Europa continua a considerare Al Sisi il minor male necessario? «I processi di transizione democratica sono lunghi. Dopo le dimissioni di Mubarak si era creato nel paese un momento di pluralismo, con l'emergere di varie forze democratiche. Ma, mentre Turchia e Paesi del Golfo arrivavano in Egitto con programmi di training elettorale e fiumi di soldi, l'Unione Europea ha subito abbandonato i rivoluzionari, che avevano invece bisogno di appoggio esterno e di legittimazione. Appena eletto Morsi, l’Ue gli ha stretto la mano perché confermasse gli accordi di Camp David, poi, quando è stato deposto dal colpo di Stato, ha accettato Al-Sisi, senza chiedersi nemmeno come era arrivato al potere. L'Europa avrebbe dovuto sostenere quelle organizzazioni che potevano essere un bilanciamento contro i regimi, stringere legami con gli attori della società. Oggi le disuguaglianze si sono esacerbate e la disoccupazione è cresciuta, è un'illusione pensare che il regime sia stabile e che sia una garanzia per noi».


Tolleriamo i regimi in cambio del controllo sulle partenze dei migranti. Funziona? «No, perché si affronta il problema da un punto di vista sbagliato. Noi pensiamo che il pugno forte risolva la situazione interna e renda le nostre frontiere più sicure. In realtà più cresce il pugno del regime, più cresce l'opposizione interna e questo porta a ciclici momenti di caos con conseguente aumento delle migrazioni».


A Bruxelles si pensa a una linea di sbarramento di navi davanti alla Libia, con la partecipazione di soldati europei... «Cominciamo dai numeri. I paesi dell’Est Europa, che si oppongono alla redistribuzione, hanno poche unità di migranti ogni centomila abitanti. Nel caso dei siriani, tutti i ventotto membri dell’Unione europea ne hanno accolti meno del solo Libano, che ha 4 milioni di abitanti ed è grande quanto l’Abruzzo.. Lì sì che il paese è cambiato demograficamente, ma il Libano è tutto sommato stabile. Al contrario, in Europa si è costruita una retorica dell’emergenza, della crisi, da fronteggiare con le navi. Ancora una volta, invece di guardare la luna, ci si fissa sul dito che la indica. La risposta sul piano della sicurezza non è quella giusta rispetto al Sud del mondo che esplode. I muri non possono fermare la storia, serve un approccio più lungimirante in una dinamica globale».


Veniamo al libro. Avete scelto la parola “esilio” per un motivo preciso. Quale? «Perchè ridà dignità ai migranti, ai rifugiati, ai profughi, agli sfollati. Questi termini sono entrati nel lessico comune, ma come categorie fuorvianti per stigmatizzare i soggetti cui si riferiscono. Per noi il problema sono i barconi, ma i barconi sono più forti di qualsiasi muro per chi non ha niente da perdere e tutto da rischiare. Se non si risolvono i problemi a monte non si possono dare risposte alle migrazioni».


Anche i termini “migranti” e “rifugiati” non sono la stessa cosa... «Certo e per due ragioni. Innanzitutto bisogna evitare la retorica dell’accoglienza indiscriminata, altrimenti si adotta una categoria di analisi che è quella della compassione. Ma qual è la sostenibilità della compassione? Il problema migranti non si affronta con la retorica, ma con politiche di gestione dell’accoglienza. La seconda ragione riguarda le responsabilità politiche che abbiamo verso i rifugiati. I paesi europei alzano muri e stringono accordi con la Turchia: così facendo violano sistematicamente la Convenzione di Ginevra».


La crisi economica in Italia fa crescere populismo e xenofobia. Quali risposte dare? «Il populismo è una spia ciclica di un qualcosa che non va nel corpo sociale, da affrontare in modo consapevole. All’origine c’è la diseguaglianza che cresce sempre di più anche nei paesi occidentali e che è il motivo fondamentale della paura dei migranti. Sono necessarie politiche economiche diverse, che diano risposte a quanti cadono sotto la soglia di povertà, mentre gli Stati rinunciano ad esercitarle e sono sempre più ancillari nei confronti dei potentati economici. Il neo-liberismo ha fallito la sua promessa: non ha portato più ricchezza per tutti, ma l’ha concentrata in un numero ancora più ristretto di colossi».


Gli italiani sono diventati più razzisti? «Sì, ma il razzismo è una spia. Non è un problema culturale, bensì socio-economico».


Il presidente Trump impedisce l’ingresso agli immigrati di alcuni paesi. Che reazioni possiamo aspettarci dal mondo arabo? «Intanto Iran e Iraq hanno già risposto ricambiando la cortesia. È estremamente pericoloso l'impatto culturale che la decisione di Trump potrà avere sulle percezioni dei musulmani. L’odio e la stigmatizzazione collettiva non possono che generare odio e contro-stigmatizzazione. Non a caso a esultare sono stati i gruppi jihadisti che capitalizzano su toni da scontro di civiltà. Questa decisione comunque lascerà un impatto negativo, anche se i giudici dovessero fermare in pochi giorni la decisione di Trump».

@boria_a