mercoledì 29 marzo 2017

LA MOSTRA

Il foulard in vetta com'è chic





Il foulard più famoso della storia dell’alpinismo è a piccoli disegni bordeaux, bianco e blu, con la sigla G.L.M. ricamata a mano su un angolo. Le cifre stanno per George Leigh Mallory e quel quadrato di seta avvolge le lettere che a lui inviava la moglie Ruth, indirizzandole presso “British Trage agent, Yalung, Tibet”. Era il primo maggio 1999, a 8290 metri di altitudine, sotto il Grand Couloir sul versante nord dell’Everest, quando le missive uscirono dal fazzoletto ripiegato con precisione. Un ritrovamento importantissimo, che diede a Conrad Anker e agli altri componenti della spedizione guidata da Eric Simonson - nove americani, due britannici e un tedesco - la certezza che quello era il corpo di Mallory, l’alpinista inglese che l’8 giugno 1924, insieme al compagno Andrew Irvine, aveva tentato, e fallito, la conquista del tetto del mondo. Un fazzoletto che custodiva, a cent’anni quasi di distanza, legami, affetti e intimità, un ritaglio di stoffa epico e insieme domestico, diventato segnale e simbolo.

Di quel foulard narra lo stesso Anker in “The lost explorer. Finding Mallory on Mount Everest”. E la stessa scena è descritta, con meno documenti ma molta più partecipazione emotiva, dalla canadese Tanis Rideout nella biografia di Mallory “Above all things”, che in italiano è diventata “Ti scriverò dai confini del cielo” (edita da Piemme nel 2014): “Sul sacco a pelo dispose quel che avrebbe preso. Sarebbe stata la summa del suo viaggio. Una scatoletta di fiammiferi con il cigno, una di pezzi di carne secca, le forbicine per le unghie nella custodia di pelle, una spilla da balia... Un tubetto di gel di petrolio. Le lettere ricevute da casa, avvolte in un fazzoletto rosso e blu. Passò il pollice sulle iniziali ricamate da Ruth, ma era congelato e non ne sentì il rilievo».


I foulard più celebri arrivati in vetta sono raccontati dal giornalista Maurizio Bono, caporedattore di “D”, il femminile di Repubblica, nel saggio introduttivo del prezioso volume “Foulard delle montagne” (Priuli & Verlucca, pagg. 156, 170 immagini, euro 29,50), edito a corredo della mostra visitabile al Museo nazionale della Montagna di Torino fino al 28 maggio 2017 (www.museomontagna. org). L’allestimento propone settanta foulard, selezionati dai curatori Aldo Audisio, Laura Gallo e Cristina Natta-Soleri, dalla raccolta di oltre 170 a tema montano che costituiscono la collezione del Museo, alcuni, in seta, firmati da griffe come Chanel, Hermès, Prada, Givenchy, Gucci, Céline, Krizia, Burberrys, Ralph Lauren, altri più semplici, souvenir in cotone, lana, materiali sintetici, altri ancora commemorativi dei Giochi Olimpici.





Da comune pezzo di stoffa, diffuso in tutte le culture del mondo e nato per scopi pratici, di decoro e protezione, ad accessorio icona, elemento distintivo, must have del XX secolo. Dalle stalle alle stelle, dal mondo contadino a Hollywood: l’ascesa del fazzoletto nell’immaginario femminile del Novecento è legata soprattutto a film e attrici, come annotano nei loro saggi in catalogo Sofia Gnoli e Silvia Vacirica.


“Il foulard sta alla donna come la cravatta sta all’uomo e il modo in cui si annoda esprime la vostra personalità” ammoniva monsieur Christian Dior. Elsie de Wolfe, attrice, arredatrice, oggi diremmo “influencer” americana, lo portava legato a un lato del mento. La regina Elisabetta, che lo sostituisce ai cappellini nelle occasioni meno formali o quando va in vacanza nelle brume delle sue tenute, lo annoda al centro, proprio come Jackie Kennedy, che lo preferiva di gran lunga ai cappelli. Christine Lagarde ama variare: appoggiato sulle spalle, arrotolato intorno al collo, fermato con un nodo lento o più serrato, buttato da un lato a mo’ di scialle.


 
Christine Lagarde, foulard creativo


 

La liaison tra cinema e foulard è lunga, da Gloria Swanson a Sarah Jessica Parker, ma è negli anni ’50, con Audrey Hepburn e Grace Kelly, che il fazzoletto diventa feticcio. Audrey, principessa sbarazzina in “Vacanze romane”, se lo ritrova annodato al collo troppo magro, per volere della costumista Edith Head, mentre sull’iconico little black dress di “Colazione da Tiffany”, il foulard è avvitato al cappello a falde larghe. Fuori dal set l’attrice lo porta alla “babushka”, legato sotto il mento secondo la tradizione contadina: nel giorno delle sue seconde nozze ne fa un’acconciatura da sposa.


Audrey Hepburn il giorno delle seconde nozze con il fazzoletto alla "babuska"


Audrey e il suo irrinunciabile foulard
Intorno al cappello a falda larga in "Colazione da Tiffany"

Grace Kelly, che ha "brandizzato" col suo nome borse e fogge, non poteva che sfoggiarlo “alla Kelly”: avvolto sulla testa, incrociato sotto il mento e legato dietro. Nel 1966 la maison Gucci omaggia la principessa di Monaco in visita a Milano col foulard “Flora”, disegnato dall’illustratore Vittorio Accornero. Oggi ne esistono settanta versioni a tema floreale e vegetale, di cui cinque della serie firmata da Accornero sono incluse nella collezione del Museo della Montagna: “Funghi” (’67), “Slitta” (71), “Agrifoglio” (’73) e “Fiori delle Alpi” (’80).


Imprese alpinistiche e moda, cinema e cronaca, sport e storia. I “Foulard delle montagne”, in mostra e catalogo, sono un viaggio curioso e ricco di rimandi. E per tornare al fazzoletto in vetta da cui tutto è partito, non si può dimenticare Mary Varale, che diventa famosa nel 1933 per la prima ascensione allo Spigolo Giallo della Piccola di Lavaredo, insieme a Emilio Comici e Renato Zanutti. Una foto storica la ritrae con Riccardo Cassin, due anni prima, sulle Tre Cime di Lavaredo: entrambi in pantaloni alla zuava e canottiera, lei con la mano sulla spalla di lui e un ciuffo di capelli che sfugge al foulard legato come a bandana.



Mary Varale con Riccardo Cassin


Tra il 1924 e il 1935 Mary realizza 217 ascensioni, in cordata e in solitaria. Ma quando il Coni, su proposta del Cai, le nega la medaglia al valore atletico per la salita alla via diretta alla parete sud ovest del Cimon della Pala, e non la assegna neanche ai suoi compagni, “colpevoli” di aver arrampicato legati a una donna, il 20 luglio 1935 si dimette dalla sezione di Belluno, con una lettera furibonda: «In questa compagnia di ipocriti e di buffoni io non posso più stare...». Per le donne e contro la “fascistizzazione” dell’alpinismo voluta da Mussolini, la bandana di Mary è diventata una bandiera.

@boria_a

domenica 26 marzo 2017

MODA & MODI

Fuseaux reloaded, da lasciare a terra

Cino Tortorella, il Mago Zurlì


 Fuseaux negli anni Ottanta, legging per le millennial. Si aggiornano le definizioni, ma la sostanza resta. Le passerelle ripescano uno dei capi più discussi degli ultimi decenni: il pantacollant. A nessuna, fashionista o no, oggi verrebbe mai in mente di chiamarli così, con quel nome un po’ casalingo e demodé che definisce al meglio la loro natura incerta. Sono un pantalone? No, troppo aderenti. Sono una calza? No, poco trasparenti. Un capo che si individua per avverbi dovrebbe essere bandito (e non solo dal guardaroba), senza ripensamenti.

L'ha fatto la United Airlines, impedendo a due ragazze di salire a bordo di un aereo diretto da Denver a Minneapolis, perchè i loro leggings non erano adeguati al "dress code" imposto ai dipendenti e - come in questo caso - ai loro parenti, che volano con un "pass" speciale. Si potrà discutere sulla rigidità della regola, vista la giovane età delle malcapitate, ma sull'inadeguatezza dei leggings a rientrare in qualsiasi codice di buon gusto, la compagnia aerea merita un applauso.

E invece gli stilisti insistono, quest’anno prendono i vecchi fuseaux e li allungano fino a coprire le scarpe, li colorano di tinte accese e li allungano fino a rivestire i piedi. Da pantacollant a pantascarpa 2.0.

Agli inizi degli anni '89 li portavano Cher e Olivia Newton-John, quando avevano boccoli e cotonature, e il decennio degli eccessi era agli albori. Stavano meglio all’autentico antesignano del genere, il mago Zurlì che ci ha appena lasciato, immune dal ridicolo anche in collant e pampers, vent’anni prima. Così non si può dire delle odierne paggette di Demna Gvasalia, designer di Balenciaga e Vetements, che più infligge recuperi crudeli e masochistici (dalle spalle quadrate alle ghette) più strappa cori di ammirazione al front row delle sfilate. E con l’effetto elfo dei suoi nuovi fuseaux colorati su camicie ruscellanti di pieghe e simil-fusciacca in vita, questa volta chiede alle fan la più cieca prova di fedeltà (e di ardimento).


L'elfo di Balenciaga, primavera 2017


Balenciaga, primavera 2017

Promossi in passerella per la primavera, riediti da tutti i brand del lusso, dalla strada in realtà i fuseaux non si sono mai schiodati. Difficile trovare un altro pezzo di abbigliamento che riesca così bene a conciliare gli opposti: democratici e trasversali, popolari e selettivi. Di dubbio gusto, ma piacciono a tutte. Intergenerazionali per eccellenza, li mettono le bambine all’asilo e le signore della ginnica terza età. In una qualsiasi scuola superiore sono divisa per osmosi, imposta dai codici vestimentari del “branco” più di un’uniforme a Eton.


Omogeneizzano, fanno sentire facilmente “in” qualcosa (anche se non si capisce "cosa"), e rassicurano al punto da cancellare specchio e senso critico, soprattutto in chi ne avrebbe un gran bisogno. Perchè i fuseaux stanno male quasi a tutte, radiografano ed evidenziano, non c’è difetto che non esploda.
Contengono gli opposti, appunto: sembrano inclusivi, ma sono più discriminatori che mai.
Ed è giusto lasciarli a terra.
@boria_a

sabato 18 marzo 2017

IL LIBRO

Il patto di diventare libellule



Francesca Scotti



A loro spunteranno ali incolori da libellule. Le ossa appuntite bucheranno la pelle, il corpo si sfalderà, evaporerà, e finalmente diventeranno leggere, invisibili, per volare sopra quell’acqua dove hanno aspettato per mesi, larve acquattate per maturare la trasformazione. Erica e Vanessa si sentono così, anche loro in attesa di diventare altro: un insetto senza peso, mirabile nell’equilibrio delle ali trasparenti che combaciano, gli occhi puntati in tutte le direzioni, un predatore vorace contro i nemici.

E i loro nemici sono lì, dentro Villa Flora, la casa di cura dove le due adolescenti vengono accompagnate dalle famiglie per strapparle a quell’ossessione che le fa rifiutare il cibo, cacciarsi le dita in gola per vomitare, bere litri d’acqua, sminuzzare, disperdere, sputare, dissipare qualsiasi alimento che si attacchi al corpo, lo áncori a terra, ispessisca ossa e creste iliache. Giro coscia e caviglia se li controllano a vicenda, Vanessa ed Erica, come a misurare lo stadio dell’evoluzione: il pollice e l’indice dell’una devono toccarsi e chiudersi sulle gamba dell’altra. Il perimetro di una sottrazione giornaliera. Sono amiche ma non si amano, ogni loro contatto fisico - dita che corrono lungo le scapole, bocche che si assaggiano, lingue che si succhiano - deve solo aiutarle a “bruciare”, a “consumarsi”.


È teso, duro, a tratti violento, il nuovo libro di Francesca Scotti, “Ellissi” (Bompiani, pagg. 172, euro 17,00), che racconta l’anoressia attraverso un rapporto malato, analizzato e portato a vivo in ogni sua minima piega, come già aveva fatto nel precedente ugualmente forte, bello e disturbante, “Il cuore inesperto” (Elliot, 2015). Conosciamo le protagoniste nel giorno dell’ingresso a Villa Flora, le loro schiene minute che si allontanano dalla vista dei genitori, strette in un patto claustrofobico e sbilanciato: Erica ha cominciato a rifiutare il cibo e Vanessa l’ha seguita, ora entrambe si compattano contro il mondo che ostacola la loro dissoluzione corporea, la loro mutazione.





È un mondo fatto di regole, Villa Flora, asettico e senza specchi. I colloqui con i medici, la meditazione, la seduta di gruppo e l’appuntamento più terribile, la “terapia”, quando i cestini personalizzati arrivano a tavola, ognuno col suo scialbo contenuto, frutto di estenuanti trattative con il destinatario. Del cibo è vietato parlare, ma Francesca Scotti lo fa dilagare nella pagina, riflesso negli occhi dei malati in tutta la sua oscena consistenza, nella sua nudità di odori, sapori, temperature, colori. Al contrario, lo spazio in cui si muovono Erica e Vanessa è fluttuante, le giornate sono annacquate, i rumori liquidi, le ombre allagano il pavimento, le loro vertebre sono creste d’onda e i sorrisi si sciolgono sulle labbra, sigillate in una bolla attraverso cui vedono gli altri muoversi e parlare, guardardandoli senza vederli, come le immagini degli scheletri che mostrano i medici.


La scelta dei termini è chirurgica, magistrale: da una parte lo spessore, gli effluvi e la corporeità, dall’altra una dimensione acquea, un’insistenza sulle parole che evocano la dispersione, come il Magnum fatto sciogliere in un bicchiere di acqua calda per non inghiottirlo.


L’unico maschio in terapia si chiama Diego e non è difficile intuire che sarà il cuneo nel patto delirante delle ragazze. Un giovane uomo con le gambe fini da bambina, le magliette appese alle spalle e le cuffie sulle orecchie, arruffato e isolato, ma con una sorta di pulsante e disperata carnalità. È lui che vuole uno specchio a costo di infrangere la proibizione, è lui che cerca il sesso non solo per bruciare.


Vanessa lo incrocia per prima, ma è Erica a bucare la bolla e a entrare in un’altra dimensione. La crepa nell’alleanza con l’amica, uguale a quella che libera l’addome dall’esoscheletro della libellula, non farà uscire le ali, ma la volontà di tornare indietro. Uno yogurt ai mirtilli, lo stesso che aveva scelto Diego per la sua colazione. Una mela verde, la polpa che “pesa” sulla lingua. E a Vanessa dice il verbo impronunciabile: “Ho ripreso a mangiare”, mentre lei vorrebbe colpirla, le braccia alzate, feroce come una libellula con la preda che sfugge.


È a questo punto l’ellissi, l’omissione. Non sappiamo che cosa succederà della simbiosi interrotta, nè se le strade che si divaricano - chi se ne va, chi resta, chi è scappato - si intersecheranno ancora. I fluidi ritornano a occupare le pagine nel finale del libro, ma non sono quelli che drenano la vita, bensì il sangue e la possibilità di trasmetterla. “Tra le ali c’è un corpo” dice Erica, lasciando l’amica. E, anche se ha un peso, si può volare.

@boria_a

domenica 12 marzo 2017

MODA & MODI

I vestiti "normalizzati" per il terzo sesso



Asia Kate Dillon interpreta Taylor in Billions 2



Ungender. Genderless. A-gender. Ovvero: senza connotazioni sessuali. Neutri. Pezzi d’abbigliamento privi di riferimento al maschile o al femminile, che possono essere indossati indifferentemente da uomini o donne o da chi non si sente nè l’uno nè l’altro. Dopo i brand del lusso (che ci marciano da molte stagioni), anche i colossi low cost scendono in campo sventolando la bandiera della moda “inclusiva”. Zara l’ha fatto l’anno scorso senza particolare pubblicità. Dal 30 marzo sarà H&M a lanciare sul proprio sito web la collezione “Denim United”, che si annuncia come una serie di capi intercambiabili in cotone organico e riciclato.

Sono jeans, bermuda, t-shirt, giubbotti e salopette denim, niente di più di quanto qualsiasi adolescente, anche senza dubbi evidenti sulla sua appartenenza di genere, abbia nell’armadio. Il massimo della “a-sessualità” della linea è un camicione a metà polpaccio col collo alla coreana, che indossato dalla modella diventa un ordinario vestito di jeans, dal modello una sorta di tunica arabeggiante, che non stonerebbe sulle passerelle maschili (e maschilissime) della fashion week di Dubai. Ma se a-gender dev’essere, perchè nella comunicazione visiva a lui hanno lasciato i calzoni?

"United Denim" H&M


Zara, un anno fa, non è andata molto più lontano: felpe e pantaloni “buggy”, maglioncini girocollo, jeans. Tutto molto smorto, a-patico più che neutro. E sul web sono fioccate le critiche: chi rivendica un sesso “terzo”, non si meriterebbe uno sforzo di fantasia in più e non il semplice assemblaggio di capi unisex? Non sarà solo una fetta di mercato da occupare? E basta pescare qualche capo qua e là, togliere azzurro e rosa, cancellare parole identificative, per arrogarsi il diritto di vestire la comunità “queer”?


La moda si confronta apertamente con una realtà non più binaria e, interessi a parte, è un risultato importante. Per la prima volta in tivù, in una serie di punta come “Billions 2” su Sky, al fianco del multimiliardario Axe compare Taylor, una stagista dichiaratamente del terzo sesso (l’attrice Asia Kate Dillon, della comunità LGBT), che riferendosi a se stessa usa il plurale. E plurale è il suo modo di vestire: sul set jeans, cravatta, cardigan unisex, camicie chiare button-down. Alla premiere della serie, pantaloni, lunga camicia trasparente con minuscoli bottoni gentili e maniche ampie, reggiseno a vista.


Asia Kate Dillon alla premiere di Billions 2


 Il messaggio? Se la moda vuol essere “inclusiva”, piuttosto che normalizzare è meglio accogliere. E saperne ricavare qualcosa di diverso. Non a-morfo, altro.
@boria_a

martedì 7 marzo 2017

LA MOSTRA

Le povere sculture di Luigi Merola


Luigi Merola






Non parlategli più di “riciclaggio”, Luigi Merola preferisce che la sua nuova mostra venga definita un omaggio all’Arte Povera e ad alcuni dei suoi grandi interpreti - Burri, Calzolari, Penone - attraverso i materiali che questi artisti hanno utilizzato. E la morte di Jannis Kounellis avvenuta proprio mentre stava completando uno dei due pannelli per l’esposizione, l’ha spinto (e l’ha convinto) a proseguire ancor più in questa direzione. Un «ossequio», dice Merola, all’artista che nel 2013 emozionò Trieste con la grande installazione all’ex Pescheria, e di cui ha scelto di riproporre l’elemento che più l’aveva colpito: le corde sospese con le pietre imprigionate a scendere sopra i frammenti di barche. Così ha inserito corde di canapa di varie dimensioni nei pannelli in lavorazione, con una funzione di “citazione” ma anche per avvolgervi e raggrupparvi materiali diversi.

Si intitola “Observa, Elabora, Exprime” il nuovo allestimento, curato da Elena Cantori, che Luigi Merola inaugurerà a EContemporary (in via Crispi 28 a Trieste, elenacantori.com), venerdì 10 marzo 2017 alle 19, e che si potrà visitare fino al 20 maggio. Circa quindici opere, di cui quattro inedite, nei materiali con cui l’artista triestino (almeno d’adozione) da sempre si esprime: cemento, reti metalliche, plastiche, piombo, terre, stoffe combuste.


Oltre ai pannelli, si vedranno due opere composte, rispettivamente, da cinque e tre pezzi; due trittici, in cui sono state inserite formelle in piombo e su cui l’artista ha punzonato frasi di Erri De Luca e Charles Bukowski, scrittori che interpretano la libertà contro il rigore e viceversa.


Infine, chi da tempo segue il suo lavoro di assemblaggio creativo, ritroverà le sculture con i libri. Le copertine di piombo e i fogli di carta pigmentati con terre, ossidi e cera per pavimenti, che danno forma ai volumi, sono imprigionati in un intreccio di morse di legno, o attraversati da un lungo chiodo, o abbandonati alla rinfusa in una vecchia cassa, pronti per il deposito. Un modo per esprimere il disagio per una cultura umanistica sempre più soppiantata dalla velocità e superficialità dei nuovi mezzi di comunicazione e informazione. Alla vernice il pubblico verrà coinvolto in un dialogo con l’artista (da qui l’Exprime del titolo), per una condivisione, anche critica, delle opere in mostra.

@boria_a

lunedì 6 marzo 2017

L'INTERVISTA

Andrea Marcolongo: Il greco antico, grande amore della mia vita



Andrea Marcolongo
 

 Trent’anni, un sorriso da modella, autrice di un best seller che ha guidato la classifica per sette settimane e rimane ancora tra le teste di serie. Non ha scritto un thriller, nè un romanzo, nè un ricettario. Viene inquadrato come “saggio”, ma è piuttosto un atto d’amore per quella che di solito si definisce una lingua morta: il greco antico. Andrea Marcolongo ha dimostrato invece che è viva, vivissima, e con il suo “La lingua geniale. Nove ragioni per amare il greco” (Laterza, pagg. 156, euro 15), ha raggiunto oltre settantamila lettori ed è arrivata alla dodicesima ristampa. 




Come le “Sette brevi lezioni di fisica” di Carlo Rovelli, quello di Andrea, professoressa di scuola superiore che oggi si dedica a tempo pieno alla scrittura e vive tra Livorno e Sarajevo, è molto più di un manuale per liceali alle prese con problemi e versioni paralizzanti. È un invito a conoscere un modo affascinante e speciale di guardare il mondo, di vivere, di pensare, di comunicare con gli altri. Un invito a ridare peso alla ricchezza delle parole, alla loro scelta e frequentazione, in greco ma anche in italiano. Per questo la “lingua geniale” ha conquistato lettori ben al di là del mondo della scuola. E parlando del greco, Andrea Marcolongo ha già incontrato oltre venticinquemila ragazzi nelle scuole d’Italia.

Lunedì 6 marzo sarà a Gorizia, con due presentazioni. La prima alle 11, nell’auditorium Biagio Marin del liceo classico Dante Alighieri in via XX settembre 11, solo per gli studenti. Alle 18, alla libreria Leg, in corso Verdi 67, in un incontro aperto a tutti: in entrambi gli appuntamenti, con l’autrice converseranno i professori Carmen Mazzone e Alessio Sokol. Ecco che cosa ci ha anticipato Andrea Marcolongo.




Tanti ragazzi dicono “non vado al classico perchè c’è il greco”. Perchè sembra più ostico della fisica o della matematica? «Perchè è diverso, ha un altro alfabeto, quindi anche l’impatto visivo scoraggia. Il latino viene ritenuto più facile perchè è simile all’italiano, si riesce subito a leggerlo... Ma non è questo il problema: l’alfabeto si impara in una settimana. In realtà non pensiamo mai che circa il dieci per cento delle nostre parole deriva dal greco. Però il greco richiede un passo in più. C’è distanza, differenza, tra noi e lui. Questa è la sua bellezza e il motivo per cui ho scritto il libro. Ai ragazzi dico l’esatto contrario: “vado al classico perchè c’è il greco”».


Lei ha confessato che è il grande amore della sua vita. Quando è scoppiato? «Come i grandi amori, non è stato a prima vista, ha avuto i suoi alti e bassi. Al terzo anno di liceo, quando si supera l’apprendimento della grammatica, mi è stato chiaro che sarebbe stato impossibile capire il greco e pensare in italiano. “Tradurre” significa condurre verso la propria lingua. Avrei dovuto avvicinarmi io al greco, lui non si sarebbe mai mosso, e provare a pensare in greco. Come nell’amore, si procede per gradi di conoscenza. Prima la grammatica, quindi il nome, l’approccio iniziale a una persona. Poi, quando mi si è aperto il mondo dei testi, è stata una bella sfida, con tante energie e risorse da mettere in campo, quelle che servono per portare avanti un rapporto. Se si dà qualcosa per scontato, se si pensa di avere le chiavi, è il momento in cui si perde tutto. Nel greco come nell’amore».


Nove ragioni per definirla una lingua “geniale”. A cominciare da quel caso che suona spesso strano, il duale... «Nemmeno io, dopo quindici anni, avevo mai capito bene cosa fosse. Il duale non sono due occhi, due mani, due fratelli. Non sono due, ma uno. Un uno formato da due, che diventa però un’altra cosa. La madre con un figlio in grembo, al duale è la maternità. Due occhi se rivolti verso qualcosa, sono la meraviglia. Due amanti, sono l’amore. E la difficoltà sta nel fatto che il duale non era obbligatorio, ma lasciato alla libera facoltà del parlante greco. Un caso per esprimere qualcosa in più che una semplice somma».


E il modo ottativo... «Un modo chiamato desiderio. In italiano dobbiamo usare tante parole per esprimere un desiderio e far capire quanto è realizzabile. L’ottativo è veloce e perfetto per dire se è un desiderio reale, se ha tante possibilità di realizzarsi, se è solo possibile. L’ottativo è la misura dello spazio tra il desiderio e la voglia, la passione, il mettersi in gioco, la fatica che ci vuole per concretizzarlo».


Però non c’è il futuro... «Il futuro c’è come tempo, non come aspetto. Il futuro si costruisce con il presente. Il “come” accadono le cose, in greco antico prevale sul “quando”. Quindi, se qualcosa non si è mai verificato, non ha un “come”».


Giusto eliminare la prova di traduzione alla maturità? «Non sono d’accordo. La maturità non è il film, è una valutazione di competenze. Non vedo altro modo per farlo. Da quando in qua la facilità è un valore? Se si continua a posticipare il primo incontro dei ragazzi con la vera difficoltà, quando arriverà il momento di scoprire che la vita non è semplice? La vita non è nemmeno veloce, non è imparare il greco in tre giorni. Abbiamo bisogno di tempo e di metterci tutto di noi stessi».


In un mondo tecnocratico, gli studi classici sono sotto assedio? «Sotto assedio è la nostra consapevolezza di vivere in questa società. Al contrario, spesso prevale la confusione. Il successo del libro si deve anche al fatto che oggi in ogni orientamento di studio non si comunica più con esseri umani. I mezzi di comunicazione non sono la comunicazione. Mandare un’e-mail non è comunicare chi siamo a un’altra persona. Ci vuole una cultura “umana” per utilizzarli, ed è questa sotto assedio, non la cultura umanistica».
 


Che cosa racconterà agli studenti di Gorizia? «Che sono emozionatissima. È la mia prima presentazione dopo un mese di pausa, quasi come se cominciassi il secondo quadrimestre. E poi dirò che parlo una lingua con molti più casi del greco, il serbo-croato, e che si sopravvive. Incontrando gli studenti, ho scoperto una generazione matura, che mi fa domande sulla vita, non sul greco. E non devono accettare di farsi raccontare come quelli che hanno imparato a usare il computer prima della biro, l’MP3 prima di aver visto un cd. Fare il liceo classico è un atto di coraggio oggi. Quando avevo la loro età, si sceglieva o per tradizione di famiglia o perchè l’aveva detto la professoressa delle medie. Oggi i genitori ti consigliano di studiare cinese per trovare un lavoro. Ma alcuni questa scuola l’hanno scelta e lo trovo eroico. Non bisogna dimenticare, però, che mentre si fa il classico si è adolescenti. E vivere la propria età».

Studiare il greco è rivoluzionario? «Il dibattito su questo studio attraversa tutta l’Europa, anche la stessa Grecia. Francia e Germania l’hanno reso facoltativo. In un momento così delicato, pensiamo solo che la parola “xenofobia” è del greco attuale, non di quello antico. Sì, studiare il greco è rivoluzionario nel senso di aver la curiosità di scoprire un modo nuovo di pensare, di dar valore a che cosa diciamo, alle parole. L’Oxford Dictionary ha scelto emoticon come parola dell’anno 2015. È incredibile. Io le faccine non le capisco. Se lei me ne manda una adesso, che cosa intende? Che le piace l’intervista, che le sono simpatica, che ama il greco?».


Lei è stata ghostwriter di Matteo Renzi. Nella Grecia antica per chi l’avrebbe fatto? «Credo che sarebbe stato impossibile fare il ghostwriter di Euripide. Mi sarebbe bastato conoscerlo e stare lì, ai suoi piedi, a cercare di capire come ha fatto a comprendere così tanto l’animo umano e a raccontarlo. Nel mondo greco sarei stata solo un “ghost”, un fantasma, ammirata davanti alle vette che hanno raggiunto. E i dialoghi di Platone, con quella loro logica così potente? Ecco: forse avrei potuto aspirare a essere ghostwriter dell’ultimo dei dialoghi minori di Platone...».


Perchè ha scelto Sarajevo? «Ho perso la mia famiglia e questa città mi ha conquistato. Non prova rabbia, non ha sviluppato nessun nazionalismo, e si vede nelle piccole cose. Vorrei vivere qui per sempre».


Sta scrivendo? «Sì, sempre sulle parole».

@boria_a

sabato 4 marzo 2017


 IL LIBRO

Quanti misteri sull'isola di Alice



Daniel Sànchez Arévalo


Sappiamo veramente tutto di chi ci vive accanto? Quanto e che cosa ci tace chi coindivide la nostra quotidianità? Ruota intorno a due domande “L’isola di Alice” (Editrice Nord, pagg. 494, euro 14,90), primo libro dello sceneggiatore e regista spagnolo Daniel Sánchez Arévalo, finalista al premio Planeta 2015.

È quello che si chiede, anzi è costretta brutalmente a chiedersi, anche la protagonista di questo romanzo tinto di rosa e di giallo, Alice, giovane mamma di una bimba di sei anni e incinta della seconda, quando nel cuore della notte, poco dopo aver sentito il marito al telefono per un saluto, viene svegliata di soprassalto da una chiamata della polizia: Chris, ex promessa del tennis e imprenditore di successo, è rimasto ucciso nello schianto solitario della sua auto, mentre rientrava a casa, a Providence, da un viaggio d’affari.


Lo strazio della perdita è incommensurabile, ma sul dolore si allunga subito un’ombra, un tarlo subdolo, un interrogativo che, come una metastasi, invaderà, e a poco a poco prenderà le redini della vita di Alice: perchè Chris, l’amore degli anni del liceo, il marito perfetto, è morto dove non doveva essere, non a Yale, come aveva detto alla moglie, ma dalla parte opposta, sulla strada per Robin Island, un’isoletta vicino a Nantucket nel Massachusetts. Sono le 00.01, un secondo dopo la mezzanotte del 13 maggio 2015, ma da quell’istante, per Alice, sarà il giorno zero dell’anno primo d.C., dopo Chris. Con un breve passato in comune da custodire intonso, e un futuro da sgombrare da sospetti e interrogativi, per sè e per le figlie.

Scoprire perchè Chris fosse lì, che cosa le aveva nascosto, quanto profondo fosse quello spazio grigio di cose non dette - o semplicemente di abitudine, inerzia - che era cresciuto tra di loro, inavvertito e inavvertibile, diventa l’ossessione di Alice. «Una relazione simile al sole d’autunno, che non richiedeva protezione. Dolce, serena. E adesso mi chiedevo se non fosse stato proprio questo a renderla banale e noiosa. Chris aveva bisogno di qualcosa di più, forse? O ero io a desiderarlo, in modo inconsapevole? E adesso ero alla ricerca di quel suo di più, che era diventato il mio. Un paradosso, dal momento che ormai tutto era venuto meno».


È un viaggio all’indietro “fisico”, quello di Alice, ricostruendo attraverso le registrazioni delle telecamere ogni chilometro dell’ultimo itinerario di Chris, e poi di quelli precedenti, fino a isolare la meta che le era stata tenuta segreta, dove il marito era andato più volte negli ultimi due anni: Robin Island. A fare che?


Il viaggio, però, è soprattutto interiore, prima alla ricerca di quella crepa, forse inavvertita forse sottovalutata, in un’intesa apparentemente perfetta, poi scavando risorse inaspettate, un lato di sè che non conosceva: la capacità di manipolare, di fingere, di simulare pur di arrivare all’obiettivo, quella verità che a poco a poco diventa una sfida, un’ossessione, un delirio di onnipotenza.

Alice fa di Robin Island la sua nuova casa. La sua “vasca”, dove nuotano pesci da tenere d’occhio, di cui studiare abitudini e debolezze, da incasellare nell’elenco dei potenziali parenti, genitori, figli, amanti di Chris. Un’esistenza davanti ai monitor, non solo metaforici. Dove, alla fine, nemmeno i segreti del marito sono più tanto importanti quanto il potere e l’ebbrezza che dà il controllo sulla vita altrui. Anche un nuovo amore viene risucchiato in questa tela di ragno e diventa una pedina nel grande gioco degli inganni orchestrato dalla protagonista. Accumulando altri segreti su quelli da svelare. 


Con un registro da chick-lit, un timbro ironico (ma una lunghezza francamente eccessiva) Arévalo tocca dinamiche familiari (non ultima quella del rapporto con una figlia compulsiva, la primogenita di Alice, Olivia) che avrebbero potuto portare a sviluppi meno zuccherosi. L’inquietudine del “grande occhio” si annacqua in un fiume di buoni sentimenti e non diventa mai un rivolo avvelenato e mortifero, in grado di virare - eppure l’autore con le sceneggiature ha dimestichezza - la fiction in drama. Alla fine (senza dir troppo per non rovinare la suspense), Alice saprà che cosa faceva Chris in quelle parentesi lontano dalla sua adorata famiglia. Ma per il lettore il suo segreto è molto meno originale di quelli che ha seminato.
@boria_a


giovedì 2 marzo 2017

LA MOSTRA

Lana per soldati, seta per signore


 



Durante gli anni della prima guerra mondiale un’unica rivista femminile continuò le pubblicazioni, a dispetto della scarsità di carta. Si chiamava “Margherita”, in onore della regina, era stata fondata negli anni Settanta dell’Ottocento dai fratelli Tedeschi Tréves ed era diretta dalla moglie di uno dei due, Virginia. Di che cosa parlava? All’inizio pacifista, con l’entrata in guerra dell’Italia cominciò ad affrontare i temi bellici attraverso la lente d’ingrandimento femminile e a dare conto delle trasformazioni nell’abbigliamento della donna. Le gonne, per esempio. Più corte, ma anche pensate per camminare e muoversi in libertà, per lavorare e svolgere nuovi e molteplici impegni quotidiani, in casa e fuori: quindi nè troppo lunghe nè troppo strette. In un tessuto come il jersey, il più adatto ad accompagnare (e vestire) un ruolo sociale completamente cambiato.

Oggi all’accorciarsi o allungarsi di un orlo, magari più volte nella stessa stagione, non dedichiamo che un’occhiata incuriosita. Nel 1914 la sforbiciata alla gonna segnò una rivoluzione, un punto di non ritorno nel guardaroba femminile, almeno quanto la scomparsa del raffinato, complicato e non più gestibile armamentario della lingerie.
La guerra infuriava, i soldati partivano a migliaia per il fronte, ma all’eleganza si prestava comunque attenzione. E, per un crudele paradosso, mentre la lana serviva alle divise delle truppe, le signore vestivano di seta. Spesso in nero, schiacciate dai molti lutti nelle famiglie. Ma anche con tocchi di colore. Dalle industrie francesi uscivano rigature nelle tinte delle bandiere, da utilizzare per nastri, coccarde, cimase, in segno di patriottismo o come abbellimento per i cappelli e i colli delle camicie.


C’è una moda “nella” Grande guerra che deve ancora essere studiata e approfondita. Giovedì 2 marzo 2016, alle 18, ai Musei provinciali di Borgo Castello a Gorizia, nell’ambito della mostra dedicata all’«Alba della donna moderna», sarà l’occasione per farlo con due esperte, che parleranno di tessuti e riviste: Enrica Morini, storica della moda e docente di Moda contemporanea all’Università Iulm di Milano, e Margherita Rosina, studiosa del tessile antico e contemporaneo, negli ultimi dieci anni direttrice del Museo del Tessuto della Fondazione Ratti. Le introdurrà Raffaella Sgubin, direttrice dei Musei goriziani, che ha ideato la mostra visitabile fino all’8 marzo.


«Nei primi del ’900 - spiega Enrica Morini - esistevano molte riviste femministe, che si rivolgevano però a una nicchia di lettrici, con interessi letterari o politici. La rivista “Margherita” è una via di mezzo: parla alle signore dell’alta borghesia, propone racconti, ricamo, musica, artigianato da fare in casa e, in gran parte, la moda. C’era una rubrica fissa, “Vita femminile” che riportava, interpretandole, notizie sul femminismo con articoli scritti dalla redazione o ripresi da altri giornali, ma sempre con una posizione moderata, senza toni accesi, per non disturbare il suo pubblico».
Con l’inizio del conflitto, le case parigine di moda chiudono, pensando che la guerra sia breve. Tra l’agosto-settembre 1914 e il febbraio-marzo 1915 l’Italia, le sue modiste e i suoi tessutai, si trovano così, di punto in bianco, privi dell’impulso creativo francese e delle indicazioni sulle tendenze dettate dalle maison d’oltralpe. Per la moda dell’autunno, Parigi e i suoi atelier non si sono espressi. Un bel guaio per le sartorie italiane.


Dopo un momento di disorientamento, la filiera si mette a lavorare febbrilmente per creare collezioni proprie, ma il risultato, sia per mancanza di esperienza che di professionalità specifiche, sarà modesto. La prova successiva avrebbe potuto essere migliore, ma in quel momento Parigi riapre le sue maison perchè il paese, sottoposto allo sforzo bellico, ha bisogno di soldi. «La differenza, però, è importante», spiega Morini. «L’Italia era alleata della Francia e quest’ultima, quindi, più disponibile a fornire materiale. La rivista “Margherita”, nel frattempo, aveva cambiato editore. Virginia Tréves era morta e la nuova direttrice, Amelia Brizzi Ramazzotti, smette di dare importanza alla guerra, cambia la veste editoriale e propone più immagini e più modelli originali forniti da Parigi. “Margherita” diventa internazionale grazie anche ai legami della direttrice e dell’editore con Vogue America, cosa mai successa prima, e con le riviste francesi».


Le industrie, intanto, continuano a produrre sete. «Da noi soprattutto in tinte unite e disegni minuti - racconta Rosina - in Francia sete rigate con i colori delle bandiere, nastri patriottici, per esempio col gallo, destinati a impieghi militari. Pensiamo che in una prima fase del conflitto, in Inghilterra, bastava un nastro sopra la veste civile per indicare l’appartenenza militare. Interessanti sono anche i campionari. Nel Comasco si trovano sete nere con cimase rigate, forse per i bordi dei polsini nelle divise delle ausiliarie. Nelle cartelle colori della Chambre Syndicale di Lione, nel 1916, molte tinte sono identificate attraverso nomi legati alla guerra, per esempio “shrapnel”, un tipo di proiettile, con un effetto piuttosto macabro».


Margherita” chiude nel 1921. Dopo il conflitto le pubblicazioni femminili cambiano radicalmente. Anche la moda volta pagina. Ma non è il busto il “rottamato” più illustre: la Rivoluzione francese l’aveva già messo in discussione (anche se poi sarà recuperato), i movimenti femministi e salutisti inglesi addirittura bandito. La lunghezza della gonna, invece, era un muro inespugnabile. E quando, a guerra finita, ci si accorse che molti centimetri erano caduti e le caviglie delle donne si vedevano, era ormai tutta un’altra storia.