sabato 18 marzo 2017

IL LIBRO

Il patto di diventare libellule



Francesca Scotti



A loro spunteranno ali incolori da libellule. Le ossa appuntite bucheranno la pelle, il corpo si sfalderà, evaporerà, e finalmente diventeranno leggere, invisibili, per volare sopra quell’acqua dove hanno aspettato per mesi, larve acquattate per maturare la trasformazione. Erica e Vanessa si sentono così, anche loro in attesa di diventare altro: un insetto senza peso, mirabile nell’equilibrio delle ali trasparenti che combaciano, gli occhi puntati in tutte le direzioni, un predatore vorace contro i nemici.

E i loro nemici sono lì, dentro Villa Flora, la casa di cura dove le due adolescenti vengono accompagnate dalle famiglie per strapparle a quell’ossessione che le fa rifiutare il cibo, cacciarsi le dita in gola per vomitare, bere litri d’acqua, sminuzzare, disperdere, sputare, dissipare qualsiasi alimento che si attacchi al corpo, lo áncori a terra, ispessisca ossa e creste iliache. Giro coscia e caviglia se li controllano a vicenda, Vanessa ed Erica, come a misurare lo stadio dell’evoluzione: il pollice e l’indice dell’una devono toccarsi e chiudersi sulle gamba dell’altra. Il perimetro di una sottrazione giornaliera. Sono amiche ma non si amano, ogni loro contatto fisico - dita che corrono lungo le scapole, bocche che si assaggiano, lingue che si succhiano - deve solo aiutarle a “bruciare”, a “consumarsi”.


È teso, duro, a tratti violento, il nuovo libro di Francesca Scotti, “Ellissi” (Bompiani, pagg. 172, euro 17,00), che racconta l’anoressia attraverso un rapporto malato, analizzato e portato a vivo in ogni sua minima piega, come già aveva fatto nel precedente ugualmente forte, bello e disturbante, “Il cuore inesperto” (Elliot, 2015). Conosciamo le protagoniste nel giorno dell’ingresso a Villa Flora, le loro schiene minute che si allontanano dalla vista dei genitori, strette in un patto claustrofobico e sbilanciato: Erica ha cominciato a rifiutare il cibo e Vanessa l’ha seguita, ora entrambe si compattano contro il mondo che ostacola la loro dissoluzione corporea, la loro mutazione.





È un mondo fatto di regole, Villa Flora, asettico e senza specchi. I colloqui con i medici, la meditazione, la seduta di gruppo e l’appuntamento più terribile, la “terapia”, quando i cestini personalizzati arrivano a tavola, ognuno col suo scialbo contenuto, frutto di estenuanti trattative con il destinatario. Del cibo è vietato parlare, ma Francesca Scotti lo fa dilagare nella pagina, riflesso negli occhi dei malati in tutta la sua oscena consistenza, nella sua nudità di odori, sapori, temperature, colori. Al contrario, lo spazio in cui si muovono Erica e Vanessa è fluttuante, le giornate sono annacquate, i rumori liquidi, le ombre allagano il pavimento, le loro vertebre sono creste d’onda e i sorrisi si sciolgono sulle labbra, sigillate in una bolla attraverso cui vedono gli altri muoversi e parlare, guardardandoli senza vederli, come le immagini degli scheletri che mostrano i medici.


La scelta dei termini è chirurgica, magistrale: da una parte lo spessore, gli effluvi e la corporeità, dall’altra una dimensione acquea, un’insistenza sulle parole che evocano la dispersione, come il Magnum fatto sciogliere in un bicchiere di acqua calda per non inghiottirlo.


L’unico maschio in terapia si chiama Diego e non è difficile intuire che sarà il cuneo nel patto delirante delle ragazze. Un giovane uomo con le gambe fini da bambina, le magliette appese alle spalle e le cuffie sulle orecchie, arruffato e isolato, ma con una sorta di pulsante e disperata carnalità. È lui che vuole uno specchio a costo di infrangere la proibizione, è lui che cerca il sesso non solo per bruciare.


Vanessa lo incrocia per prima, ma è Erica a bucare la bolla e a entrare in un’altra dimensione. La crepa nell’alleanza con l’amica, uguale a quella che libera l’addome dall’esoscheletro della libellula, non farà uscire le ali, ma la volontà di tornare indietro. Uno yogurt ai mirtilli, lo stesso che aveva scelto Diego per la sua colazione. Una mela verde, la polpa che “pesa” sulla lingua. E a Vanessa dice il verbo impronunciabile: “Ho ripreso a mangiare”, mentre lei vorrebbe colpirla, le braccia alzate, feroce come una libellula con la preda che sfugge.


È a questo punto l’ellissi, l’omissione. Non sappiamo che cosa succederà della simbiosi interrotta, nè se le strade che si divaricano - chi se ne va, chi resta, chi è scappato - si intersecheranno ancora. I fluidi ritornano a occupare le pagine nel finale del libro, ma non sono quelli che drenano la vita, bensì il sangue e la possibilità di trasmetterla. “Tra le ali c’è un corpo” dice Erica, lasciando l’amica. E, anche se ha un peso, si può volare.

@boria_a

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