sabato 24 giugno 2017

IL LIBRO

Troppa attesa per la suprema felicità





Anjum, che si sente imprigionata in un corpo di uomo e lascia la casa per unirsi alla comunità degli “hijras”, ermafroditi e transgender. Tilo, la studentessa di Architettura dai capelli selvaggi, nata nel Kerala e desiderata da tre uomini - un giornalista, un agente dei servizi segreti, un combattente kashmiro - le cui vite finiscono per intrecciarsi nel sangue. Due donne che hanno la guerra dentro, di genere e di identità, in cui si riflette quella di un intero paese, l’India. Sarà una bambina abbandonata dalla madre a far combaciare i loro destini, in un cimitero in cui tanti fantasmi umani, vittime di abusi diversi, relitti di tutte le discariche di un territorio immenso e piagato da conflitti di ogni genere, cercano di ritrovare la dignità. «Di mettere insieme i pezzi per aggiustarsi», come ha detto Arundhati Roy a proposito del suo nuovo libro.

È una storia fluviale, complicata e profondamente politica, quella che la scrittrice indiana, di madre cristiana e padre induista, racconta ne “Il ministero della suprema felicità” (Guanda, pagg. 493, euro 20,00), attesa seconda opera che esce a vent’anni di distanza dal bestseller “Il dio delle piccole cose”, vincitore nel 1997 del Man Booker Prize. Quasi cinquecento pagine di esistenze pervase una dell’altra, lasciate in sospeso, apparentemente abbandonate, e poi riprese a parecchi capitoli di distanza, quando altri accadimenti le hanno attraversate e spesso dilaniate.


Perchè Arundhati Roy in questi due decenni ha scritto molto, saggi e reportage, si è fatta sentire come attivista civile, ha abbracciato le battaglie dei dimenticati. E il nuovo libro riflette profondamente questo impegno, forse troppo, organizzando la trama e i personaggi intorno ai temi al centro delle sue riflessioni, in modo che con le loro vicende personali se ne facciano rappresentanti e portavoce, ne diventino un manifesto: il nazionalismo indù, l’indipendentismo nel Kashmir represso con stragi e torture, la devastazione ambientale, la corruzione del sistema, la società castale con i suoi intoccabili. Ancora: dal disastro industriale e ambientale di Bhopal nel 1984, con la nube tossica che provocò migliaia di vittime, al massacro dei musulmani nel Gujarat del 2002, dai combattenti maoisti confinati nelle foreste dell’India centrale insieme al loro sogno di rovesciare lo Stato con le armi, alle manifestazioni anticorruzione a New Delhi nel 2011, non c’è fronte dove la trama non approdi (magari con un pugno di righe), sostenuta dalla forte tensione dell’autrice contro la globalizzazione che cancella identità e culture e la scomposta crescita industriale che devasta il paese.


È dove la vicenda umana più intima dei protagonisti riesce a farsi largo e a prendere il sopravvento sull’urgenza della denuncia, che il libro restituisce l’anima di quegli ultimi con i quali Roy aveva affascinato ne “Il Dio delle piccole cose”. Quando Anjum trova una bimba abbandonata e urlante e le offre un dito, cui la piccola si aggrappa:
«Vedersi ignorata anzichè temuta da quella minuscola creatura placò (almeno per un momento) ciò che tanto tempo prima e con tanta sagacia Nimmo Groakhpuri aveva chiamato la guerra tra India e Pakistan. Le fazioni in lotta dentro Anjum si zittirono. Il suo corpo divenne un ospite generoso anzichè un campo di battaglia. Era come morire o come nascere? Anjum non sapeva spiegarselo. Nella sua immaginazione, ciò che provava aveva la pienezza, il senso di completezza di una di quelle due esperienze».

O quando Tilo, insieme all’amato Musa, percorre la Valle di Lolab, considerata il posto più bello e più pericoloso di tutto il Kashmir, le cui foreste brulicavano di ribelli, e beve l’acqua trasparente dei ruscelli mettendosi carponi come un animale, mentre il gelo le colora le labbra di azzurro. «Una notte si sedettero accanto al fuoco in un rifugio di pietra deserto sulle più alte pendici dei monti, usato d’estate dai pastori Gujjar quando portavano lassù le loro greggi dalle pianure. Musa le mostrò la via che spesso i militanti percorrevano per attraversare la Linea di Controllo. “Berlino aveva un muro. Noi abbiamo la catena con le cime più alte del mondo. Non crolleranno mai, ma le scaleremo”».


Legando queste pagine, dove Arundhati Roy parla attraverso Tilo col cuore prima che col cervello, la storia si gonfia e prende il volo. Tutto il resto è tortuoso, faticoso, spesso superfluo.

@boria_a

giovedì 22 giugno 2017

LA MOSTRA

Maria Teresa d'Austria, influencer di moda per i nobili di corte 



Anton von Maron (Vienna 1733-Roma, 1808; desunto da)
Ritratto di Maria Teresa in abiti vedovili
1765-1780
olio su tela (Civici Musei di Storia e Arte Trieste

 
Johann Gottfried Auerbach (Mühlhausen, Turingia 1697-Vienna 1743; copia da)
Ritratto dell'imperatrice Elisabetta Cristina di Brunswick Wolfenbüttel
1735-1740 (data dell'originale)
olio su tela- Civici Musei di Storia ed Arte Trieste



Chissà che cosa avrà pensato lo zar Pietro III di Russia nel vedersi confuso, per quasi centocinquant’anni, con Giuseppe II, figlio di Maria Teresa d’Austria. Nonostante le intricate consanguineità che nel Settecento legavano le corti d’Europa, i due non erano neppure lontani parenti. Eppure, nei ritratti delle collezioni dei Civici Musei di storia ed Arte di Trieste, l’infelice Pietro, che fu detronizzato dal potere e fatto uccidere dalla moglie, Caterina La Grande, è stato a lungo scambiato per il primo figlio maschio dell’imperatrice d’Austria.

Le mostre, però, a volte vanno anche al di là dell’obiettivo per cui vengono allestite. E certo “La necessità del lusso. Abiti di corte nei ritratti del Settecento dei Civici Musei di Storia ed Arte”, che si apre il 23 giugno 2017 al Museo Sartorio di Trieste (fino all’8 ottobre 2017), curata da Michela Messina, è servita anche a rendere giustizia al povero Pietro. Tutta colpa di un ordine cavalleresco non soppesato con attenzione, quando nel 1878 il ritratto venne acquisito dalle collezioni triestine.


Racconta Messina: «Come mai, ci siamo chiesti, il presunto Giuseppe II non portava il Toson D’Oro, ordine tipico degli Asburgo, ma l’ordine russo di Sant’Andrea, con la croce a forma di X? Vero è che gli strumenti iconografici a nostra disposizione sono oggi molto più ricchi rispetto all’Ottocento e che molte opere venivano acquisite dai musei con attribuizioni già errate o incerte». Questione di somiglianze tra teste coronate e di colori snobbati: rosso e d’oro il Tosone, azzurro l’ordine di Sant’Andrea. Così la mostra ha fatto giustizia allo sfortunato zar Pietro, che ha avuto l’onore di entrare nella galleria con la sua vera identità.



Aleksej PetrovičAntropov (San Pietroburgo1716-1795; desunto da)
Ritratto dello zar Pietro III
1755 ca. (data dell'originale)
olio su tela (Collezioni Civici Musei di Storia ed Arte Trieste)

E non è l’unico errore corretto, coinvolti ancora una volta i sovrani russi. Un pastello donato ai Musei, che si riteneva rappresentasse Maria Teresa e fosse firmato da Rosalba Carriera, ritrae in realtà Anna I di Russia (le due signore condividono in effetti tratti pronunciati e stazza significativa) e forse non è neppure della pittrice veneziana tirata in ballo. «La famiglia del donatore - spiega Messina - lo acquisì negli anni Trenta del Novecento, periodo in cui un ritratto di Maria Teresa d’Austria aveva sicuramente più appeal commerciale».


Sono tante le curiosità disseminate nelle tre sale in cui si articola la mostra, dove è esposta una trentina di ritratti (originali, copie coeve o un po’ più tarde) di membri della casa d’Austria e di nobili e borghesi italiani ed europei del Secolo dei Lumi. Tessuti, fogge, decorazioni, colori, gioielli aprono idealmente al visitatore le porte dei palazzi di corte, dove il lusso era appunto “necessario”, almeno quanto il potere politico e militare, per trasmettere ai sudditi il senso dell’autorità e della magnificenza del sovrano e per segnare visivamente le differenze di ruolo e gerarchia tra i nobili che lo circondavano. Codici che oggi dobbiamo interpretare, ma che all’epoca erano per chiunque, anche per chi la corte la guardava solo da lontano, di riconoscibilità immediata.


Nella prima sala, gli Asburgo: Leopoldo I, nonno di Maria Teresa, i genitori dell’imperatrice, Carlo VI ed Elisabetta Cristina (celebre per incarnato e bellezza, che trasferirà alla nipote Maria Antonietta), il suo predecessore Carlo VII di Baviera, i figli Giuseppe II, Leopoldo, la figlia Maria Elisabetta, rimasta single perchè deturpata dal vaiolo e perciò consolata dalla madre con la nomina a canonichessa delle badesse di Innsbruck.
Nella seconda sala si vedranno ritratti con decorazioni di ordini cavallereschi, che i sovrani europei, dall’inizio del XVIII secolo, assegnavano ai nobili più vicini, per creare un loro stretto e fedelissimo entourage, connotato anche da una sorta di “teatralità” decorativa e cromatica. Qui s'incontrano gli imperatori
Ferdinando e, con un salto di un secolo e mezzo, l’ultimo sovrano, Carlo I, che regnò dal 1916 al ’18, ritratto con il Toson d’oro come i suoi predecessori settecenteschi.


Johann Gottfried Auerbach (Mühlhausen, Turingia 1697-Vienna 1743; copia da)
Ritratto dell'imperatore Carlo VI
1735-1740 (data dell'originale)
olio su tela (Civici Musei Storia ed Arte Trieste)


Nell’ultima sala il visitatore ammirerà il ruolo da “influencer” degli Asburgo. Oltre due secoli prima del delirio imitativo suscitato dalle star di Instagram, nei ritratti dei nobili e dei borghesi in mostra si notano pose e abbiglimento simili a quelli dei membri di corte. Chi ci viveva, la frequentava o semplicemente la osservava, cercava di imitarne abiti e accessori e, dove possibile, non lesinava in pizzi e gioielli. Le donne si strizzavano in corpetti minuscoli su gonne volumizzate dai panier, gli uomini sfoggiavano l’abito a tre pezzi - giacca, gilet e pantaloni - di tessuti pregiati e bottoni preziosi.




Allan Ramsay (Edimburgo 1713-Dover 1784; attr.)

Ritratto di gentiluomo decorato con l'Ordine inglese della Giarrettiera
metà del XVIII sec.
olio su tela (Civici Musei di Storia ed Arte Trieste


Fu proprio Maria Teresa, col figlio Giuseppe II, a modernizzare e innovare l’abbigliamento maschile, non senza malumori e resistenze da parte dei nobili. L’abito di corte spagnolo, di velluto nero e intessuto d’oro, con cascate di pizzi, che s’ispirava allo splendore di Luigi XIV e della corte di Versailles, fu mandato in soffitta dalla sovrana a favore della divisa militare, cui i nobili si costrinsero loro malgrado considerandola una “diminutio” di rango. Le signore, al contrario, continuarono a prosperare nel lusso dei velluti e ad agghindarsi con perle barocche, simbolo dell’epoca, orecchini, collier e broche di brillanti. Lo sfarzo dell’abito mandava un messaggio preciso. Spreco di beni e spreco di tempo: poteva indossarlo solo chi aveva quantità sterminate di ricchezze e nessun fastidio di lavori manuali, fosse pure il semplice aprire il cancello del palazzo per salire in carrozza.


I colori? Dalla morte dell’amatissimo consorte Francesco Stefano di Lorena, nel 1765, Maria Teresa scelse il total black. Sacrificio solo cromatico, s’intende, perchè la foggia dell’abito spagnolo pretendeva comunque sperpero di tessuto e di sostanza. Non inganni il nero, colore simbolo di prestigio e autorevolezza. Fin dal ’500 tingere i tessuti di nero era procedura molto costosa, che inoltre consumava la fibra. La sovrana, come la figlia butterata Maria Elisabetta, vestiva dunque nel colore più caro e meno durevole, a significare le inesistenti ansie per il ricambio dell’impegnativo guardaroba.


Nella sala dedicata a nobili e borghesi sono esposti anche tre ritratti di togati veneziani, il provveditore di Zante, il provveditore dell’Istria e un medico, i cui “outfit” mandano ulteriori messaggi. Già dal ’500 chi esercitava determinate professioni nelle Repubbliche come Venezia e Genova, vestiva la toga o una sopravveste priva di elementi distintivi, perchè l’«uniforme» comunicava autorevolezza e compostezza, al riparo dai capricci della moda. Nobili e borghesi potevano invece guardare e sognare con la corte, emulandone lo stile.


Asburgo “inspirational”, diremmo oggi.

Scriveva Antonio Genovesi, economista napoletano di metà ’700, senza alcun intento moralistico, tutt’altro: «Il lusso è dunque una finezza di vivere per ambizione di distinguersi ... e quindi avviene che dove comincia il lusso non vi sia giammai termine che l'arresti». A tre secoli dalla nascita di Maria Teresa, potrebbe dirlo una fashionista contemporanea.
@boria_a

lunedì 19 giugno 2017

MODA & MODI

Una betulla da portare sulla pelle







 Una betulla per camicia. Nata dal caso, complice alcune pezze di tessuto ricevute in regalo da un’azienda specializzata in parure di lenzuola e asciugamani per alberghi di lusso. Mara Pavatich, stilista-sarta triestina, si è fatta catturare dal bianco, suo colore d’elezione, e dalla versatilità di questa fibra di legno: lavata, stirata, strapazzata, resta sempre “nobilmente” imperterrita, con intatte le sue proprietà: fresca d’estate, calda d’inverno, traspirante. Così gli scampoli sono diventati una linea minimale di camicie e un abito, in un punto di bianco che Mara definisce “decadente” o “romantico”: non abbacinante, più tenero e discreto, come la corteccia dell’albero che impasta i panorami del Nord Europa. Le camicie le proporrà anche nella collezione invernale: la fibra si “termoregola”, col freddo sembra lana.

Ma la betulla non resterà per sempre intatta. Questa giovane designer, che ha una linea col suo nome dal 2008, figlia d’arte (la nonna scendeva da Opicina a Trieste per il guardaroba delle famiglie benestanti, e le ha insegnato a rivestire i bottoni, la mamma cuce abiti tradizionali sloveni e ricama), inizia sempre dal bianco, come da una tavolozza su cui sperimenta e interviene con diverse tecniche, finchè «il tessuto non diventa interamente tuo». 















La seta viene tinta, dipinta, bruciacchiata, la lana di pecora tinta “in cottura” perchè non smarrisca il colore, il cotone per camiceria da uomo decorato con stampi, il bisso di cotone “pennellato”, con incursioni di una tinta nell’altra. Niente nylon, solo bottoni di madreperla, ogni pezzo cucito, o fatto a maglia, interamente a mano, dove il rovescio è accurato e presentabile come il diritto. La collezione di quest’estate s’intitola “Dolls”, ispirata a un vecchio quaderno di abiti d’epoca da ritagliare, che le suggerisce volant sui top o sulle tute, gonne gonfie e trasparenze discrete: blu e nero in abbinamento, verdi ombrosi o acidi, azzurro freddo.


Quella di Mara è una passione che viene da lontano: a otto anni scriveva una letterina a Palazzo Pitti e, crescendo, imparava a tagliare, cucire, ricamare, sferruzzare. A pensare un vestito, a disegnarlo, a ricavarne un modello e poi a confezionarlo fino all’ultimo punto. Per quest’inverno presenterà cappotti robe manteau e abitini in felpa, nei colori della terra: rosa salmone, marrone, bianco, i toni del grigio.

Una quarantina di pezzi, green e slow.
(laboratorio in via Rossetti 16 o da “Giada” in via Roma a Trieste, www.marapavatich.it).

lunedì 5 giugno 2017

MODA & MODI

Quei gioielli sono arcimboldi di natura





Opale etiope e pietra di luna, agata verde, olivine e adularie. Tanzanite blu e corallo rosa. Nomi di pietre che evocano mondi fantastici, popolati da creature misteriose, animali e vegetali, e da inedite incrostazioni minerali. I gioielli del designer Antonello Malfa da sempre rubano elementi e colori alla natura, per restituirglieli trasformati. I nomi delle collezioni racchiudono già tutta la sua idea di arte e artigianato. Nel 2001 "Atlantide", riedita nel 2016: l'isola dalle immense ricchezze citata per la prima volta da Platone nel dialogo "Timeo e Crizia" ha ispirato una serie di anelli, orecchini e bracciali con conchiglie e ricci trovati dal designer nel “suo” mare, in Sicilia, su cui con grande delicatezza ha incastonato pietre preziose e semipreziose.

Un anno dopo, nel 2017, nasce “Hydra”, ispirata al mostro a nove teste di Lerna, ideale prosecuzione di questo viaggio tra mitologia e natura. Agli anelli e agli orecchini si sono aggiunti i pendenti, che lui stesso definisce “arcimboldi” dell’accessorio. Malfa è sobrio nelle spiegazioni, lascia che a parlare siano i gioielli (dove, al contrario, la sua fantasia esplode). Nei ciondoli riesce ad accostare magistralmente minerali, conchiglie e pietre fino a ricavarne un oggetto nuovo, che potrebbe essere una forma vivente come un mollusco o il componente di una roccia. Di entrambi i mondi conserva caratteristiche e sfumature, ma chi lo guarda non sa più rintracciarle, sono ormai inseparabili.





La conchiglia cardium cardissa, un po’ cuore un po’ vulva, ha trovato un’anima di corallo rosa; la “nautilus”, una delle poche arrivate fino a noi dall’epoca dei dinosauri e usata in gioielleria fin dal 1600, la “haliotis”, che è l’orecchia del mare, e la “turbo sarmaticus”, con il suo singolare disegno animalier bianco, nero e arancio, sottratte al mare ora sembrano fluttuare, infilate in nastri con le stesse sfumature cromatiche. I riflessi blu e viola di iolite e tanzanite, l’azzurro della cianite, la palette completa dell’aragonite, regalano bagliori che cambiano con la luce. Non sono monili ma incastellature bizzarre (mostri, appunto) che anche dove non si vede, nel rovescio di un anello per esempio, svelano in una minuscola pietra o conchiglia l’intervento segreto dell’artista.


La collezione di Antonello Malfa si può ammirare nello spazio dedicato alla gioielleria contemporanea “Giada” di Silvia Vatta (via Roma 16, Trieste; www.giadatrieste.com).

@boria_a

domenica 4 giugno 2017

IL PERSONAGGIO

Tiziana Fantini, la pittrice amata da Lorenzo Milani



"Autoritratto nello studio" di Tiziana Fantini, dalla collezione di famiglia



C’era una giovane donna nella vita di Lorenzo Milani, quando il futuro priore di Barbiana non aveva ancora scelto la strada della fede e studiava pittura all’Accademia di Brera. Si chiamava Tiziana e, con Lorenzo, aveva superato l’esame di ammissione all’Accademia nel 1941. Forse un’infatuazione (ma lei era già impegnata), sicuramente una grande amicizia tra i due giovani, che continuò anche quando Lorenzo abbandonò Brera per lo “sgarbo” del docente di tecnica di affresco, Achille Funi, che, passando tra i cavalletti degli allievi, aveva “osato” ritoccargli un lavoro.

Tiziana e Lorenzo continuavano a vedersi nello studio di lui, preso in affitto dalla famiglia, e insieme girovagavano per Milano. In una delle chiese visitate durante quegli itinerari urbani, Lorenzo le avrebbe detto: «Io mi farò prete». Qualcosa di più di una confidenza, che colloca la donna al centro di uno snodo fondamentale della vita del religioso. Mentre infatti la prima tappa della conversione di don Milani viene fatta risalire dalla famiglia, oltre che da biografi e studiosi, al luglio 1943, quando incontrò don Raffaele Bensi, le parole custodite dall’amica anticipano di due anni i segnali del cammino verso la fede. Determinante fu una tra gli insegnanti del primo anno d’Accademia, Eva Tea, docente di Storia dell’Arte e di Costume, donna di grande cultura e carisma, che suscitò in Lorenzo amore e interesse per l’arte sacra. Molti dei dettagli su quell’unico anno di don Milani a Brera emergono da una lettera indirizzata tre decenni dopo dalla stessa Tiziana alla mamma del sacerdote, la triestina Alice Weiss.



Lorenzo Milani nel 1941 (foto Fondazione Balducci, tratta dal libro di Valentina Alberici)


Ma chi era Tiziana? Nella prima famosa biografia, “Dalla parte dell’ultimo. Vita del prete Lorenzo Milani” di Neera Fallaci, si parla di lei come di una compagna per cui Lorenzo aveva un debole, ma non si dice altro che permetta di identificarla. «Era il periodo in cui Lorenzo Milani aveva una infatuazione per una bella ragazza dai capelli rossi, conosciuta a Brera», testimonia il giornalista Saverio Tutino, amico del sacerdote, in un’intervista alla Fallaci. «Lorenzo mi mostrò dei ritratti che le aveva fatto. Ricordo che me ne parlava in un modo spirituale, idealizzandola. Di persona non me la fece mai conoscere». Tiziana resta solo un nome anche in altre opere su don Milani.


A svelare l’identità della donna è Valentina Alberici, autrice di saggi su tematiche storico-religiose, nel suo ultimo libro “Lorenzo Milani. L’artista che trovò Dio” uscito in questi giorni per le Edizioni Paoline (pagg. 175, euro 22,00), nel cinquantesimo anniversario della morte del priore. Al centro del volume gli anni della gioventù di Lorenzo, quando l’arte è strumento di formazione e veicolo di incontri ed esperienze dal forte coinvolgimento personale.


Valentina Alberici


"Lorenzo Milani. L'artista che trovò Dio" (Edizioni Paoline)

 


Tiziana, la compagna di corso, è Tiziana Fantini, pittrice, nata nel 1923 a Merano (dove riparò il padre Giulio, antifascista della prima ora) ma trasferitasi a Trieste nel 1955, dove ancora vive. Le sue ultime mostre cittadine risalgono al 2004, alla Galleria Rettori Tribbio, e al 2009, quando partecipò a una collettiva all’Archivio di Stato. Tiziana Fantini arrivò a Trieste al seguito del marito Giancarlo, un ingegnere che lavorava al Bacino di carenaggio del Molo VII per la società Condotte d’Acqua. Prima si stabilirono in via Romolo Gessi, negli anni successivi in una villa a Cedassammare, tuttora della famiglia. La coppia avrà tre figli: Manuela, Daniele e Simone.

Tiziana aveva studiato all’Accademia sotto la guida di Carpi, Carrà, Funi e Manzù. A Milano frequentava il bar Jamaica, era grande amica di Davide Lajolo, e lavorava come pittrice e disegnatrice, anche per l’Unità. Cominciò a esporre a Milano nel ’46, e, dalla metà degli anni ’60 in personali in Italia e all’estero. Una volta a Trieste, aprì la Galleria Torbandena (che gestì fino al ’74, ospitando artisti di punta, prima di cederla ai Rosada), e la piccola Galleria La Bora in via Malcanton.


Il nome di Tiziana Fantini era già uscito anni fa in un catalogo, in qualità di compagna di corso di Milani, ma Valentina Alberici precisa la sua figura con ulteriori dettagli. «La testimonianza della signora - dice la scrittrice - è importante perchè sfata il racconto della conversione di Lorenzo come 'folgorazione' improvvisa. È stato invece un percorso lungo, con varie tappe e alti e bassi, che poi è sfociato finalmente nella conversione che lo ha reso una persona felice».


I ricordi di Tiziana Fantini, oggi novantaquattrenne, sono ormai lontani e confusi, ma a confermarli intervengono il figlio Simone e la nipote Emilia, ai quali la pittrice li confidò. A lei e Lorenzo, nei giri per le chiese milanesi, si univa a volte il pittore Ennio Morlotti, di dodici anni più vecchio, che apparteneva al gruppo degli artisti “ribelli” della rivista Corrente (poi fermata dalla censura fascista) insieme a Guttuso, Bruno Cassinari ed Ernesto Treccani. Morlotti dipinse un ritratto di Tiziana, mentre Lorenzo guardava a lui come a un maestro e condivideva le idee del gruppo: non fare gli artisti da “salotto”, ma rapportarsi al mondo e alle sue esigenze più concrete.


Tiziana non è l’unico legame tra don Milani e Trieste. Triestina era infatti la mamma del sacerdote, Alice Weiss (nata nel 1895 da Emilia ed Emilio Jacchia), che lasciò la città con la famiglia alla vigilia della Grande Guerra, per stabilirsi a Firenze. Nel libro sono riportati documenti del ’38 e ’39 sulla richiesta di “discriminazione” (ovvero di non essere considerata ebrea) di Alice Weiss, su cui carabinieri e questore esprimono parere favorevole per i suoi meriti come volontaria della Croce Rossa, contrariamente al prefetto che non la ritiene in possesso di “benemerenze di carattere eccezionale” previste dal decreto sulla difesa della razza italiana. La donna si convertì al cattolicesimo dall’aprile 1938, come attestano i documenti, e tutti i suoi figli, sebbene battezzati molti più tardi, risultano “cattolici dalla nascita” grazie all’aiuto di don Vincenzo Viviani.


Alice avrà notizia del capovolgimento sostanziale avvenuto a Brera nell’animo di Lorenzo solo trentacinque anni dopo, quando riceverà «una lunghissima e bella lettera» proprio di Tiziana. In una corrispondenza con la figlia Elena, è la stessa Alice a definire Tiziana «biondissima e bella» e a ricordare che «piaceva anche ad Adriano», l’altro suo figlio che diverrà un celebre professore di neuropsichiatria infantile. La lettera di Tiziana - scrive Alice Weiss - sarà «enormemente interessante per la visione di quello che era Lorenzo dal ’41 al ’43», quando in famiglia ci limitavano a considerare la sua ricerca «una aspirazione verso l’arte», mentre era già «una ferma volontà di fede religiosa». 


Don Milani e i suoi ragazzi


Nel libro di Valentina Alberici è raccolta anche la testimonianza di Betty Guadagni, amica dei Milani e discendente di quella famiglia Brunner che insieme ai Weiss lasciò Trieste prima dello scoppio della guerra. Le sue parole confermano il ruolo della docente di Brera, Eva Tea. «È stata lei a fare breccia per prima in un animo sensibile come quello di Lorenzo».

Tiziana Fantini continua ancora oggi a disegnare nella sua villa sul golfo. Scriveva Alice Weiss alla figlia Elena: «Questa Tiziana mi ha mandato dei bellissimi fiori e abita a Trieste a Cedas a mare dove io ho passato tutta l’estate del 13 e del 14. È uno dei più bei posti del mondo, sulla litoranea che porta a Miramare...».

@boria_a

sabato 3 giugno 2017

IL LIBRO

Se un amore sboccia nel giorno delle Twin Towers 



Jill Santopolo



Due ragazzi, Lucy e Gabe, si incontrano a un corso su Shakespeare all'Università. Lui è prevedibilmente in ritardo, lei ha una lunga treccia da accarezzare: il primo contatto tra di loro avviene attraverso i capelli, un gesto intimo, che si fa quando tutte le altre barriere che delimitano lo spazio personale sono state abbattute.
Potrebbe essere l'inizio di una storia d'amore come tante, solo che "quel" giorno, il giorno del primo abbraccio, del primo bacio di Lucy e Gabe è l'11 settembre 2001 a New York e il loro incontro, quell'urgenza quasi inspiegabile di fondersi l'uno nell'altra, avviene sullo sfondo della tragedia delle Torri gemelle, mentre il fumo si alza su uno skyline che non sarà mai più quello di prima, le ambulanze urlano senza sosta e la storia recente cambia il suo corso. Per i tredici anni successivi, tanti quanti durerà il loro rapporto, quell'anniversario sarà per entrambi un segno del destino, un qualcosa di personale e collettivo insieme.


S'intitola "Il giorno che aspettiamo" (Editrice Nord, pagg. 400, euro 17,60) il primo romanzo dell’americana Jill Santopolo, giovane direttrice editoriale della Philomel Group e autrice per bambini, nei giorni scorsi ospite a Roma e Milano per presentare il libro, già in corso di traduzione in trenta paesi. L'autrice dice di aver lavorato alla storia negli ultimi quattro anni, dopo la fine di una relazione, e di aver messo a frutto i meccanismi della letteratura per l'infanzia: una scrittura facile ma non superficiale, il richiamo a esperienze cui i lettori possano fare riferimento, la capacità di fermare il racconto proprio un attimo prima che la suspense si sciolga, giocando sull'aspettativa. E il romanzo, in effetti, funziona: non è difficile intuire come si dipanerà, la trama è abbastanza prevedibile e i personaggi non ci mettono alla prova con eccessive problematicità o con tanta schizofrenia della letteratura americana contemporanea, ma ugualmente la vicenda aggancia il lettore fino all'ultima pagina, lasciando aperta la possibilità di un secondo capitolo.





Lucy e Gabe, dunque. Sembra un'intesa perfetta, un binomio indissolubile, fintantoché lui decide di seguire la sua passione di fotoreporter e di partire per l'Iraq a documentare i dolori del mondo, quegli stessi di cui è stato testimone diretto il giorno in cui ha conosciuto Lucy. “Eravamo una stella binaria, orbitavamo l'uno intorno all'altra”: è la voce di lei che racconta, in prima persona, a volte rivolgendosi direttamente a Gabe, come in una lettera. Poi qualcosa si rompe, l'intesa esce dall'orbita. Lui ha molte ambizioni e fa le valigie, lei non accetta di corrergli dietro sacrificando le sue. Sono “il suo antidoto, il suo cerotto, la sua cura” dice Lucy di sè, ma le mail laconiche e i lunghi silenzi finiscono per spingerla tra le braccia del solido e promettente Darren, con cui decide di metter su famiglia. Sembra la fine della storia, ma quando la mattina della nozze Lucy si ritrova appesa al telefono a psicanalizzare Gabe (“è vero che sono emotivamente inaccessibile, Luce?”) e a inghiottire il suo ricatto affettivo (“ti sposi? O merda... E se invece...”), sappiamo che si incroceranno ancora.
Tredici anni. I figli di Lucy, le missioni di Gabe. Il successo professionale di entrambi. E quella mostra di fotografie in cui Lucy scopre una se stessa che non conosceva, come solo Gabe ha saputo vederla. Alla fine uno dei due sarà chiamato alla scelta più dura, decidere della vita dell'altro e di quella che, a dispetto di tutto, hanno creato insieme.


Jill Santopolo è abile e la linearità della narrazione non deve ingannare. Ogni personaggio ha in sè qualcosa di disturbante, un fondo di aridità che impedisce di affezionarcisi fino in fondo: Gabe egoista e un filino manipolatore, Darren l'uomo che pianifica la vita a due con la praticità di una lista della spesa (in cima all’elenco la moglie più adatta, definita “bambolina di carta”...), la devota Lucy pronta a fingere e dissimulare, anche a costo di mettere a rischio gli affetti più vicini.


L'editore dice che sarà la “Love Story” del XXI secolo. Ma quando Erich Segal scrisse il suo romanzo da oltre venti milioni di copie era il 1970, si sentiva forte l’eco dei movimenti studenteschi, gli amori nascevano con l’entusiasmo e la speranza di un futuro da cambiare. Oggi, trent’anni dopo, nel giorno del loro incontro Lucy e Gabe guardano insieme gli uomini, come uccellini, che si gettano dalle Torri. La paura e la comunicazione da quel momento diventano globali. E più che abbandonarsi al sentimento forse si pensa all’autoconservazione.

@boria_a