lunedì 25 settembre 2017


MODA & MODI 

L'orecchino di JT è uno solo ma si fa in tre










Due lettere nere e allungate per il logo. JT, Jessica Tonioli. Il nero è nelle sue corde, dal mezzo caschetto dei capelli alle sneakers. Una dichiarazione di intenti: linee pulite e geometriche, accessori facili ma con personalità. Gli studi di architettura si indovinano nelle collezioni di questa trentaduenne monfalconese, adottata da Trieste, che da dieci anni ha preferito abbandonare la scelta originaria e utilizzare la matita per il design degli accessori. Un corso di progettazione, poi le collaborazioni con aziende triestine e del distretto orafo del Veneto, per cui tuttora realizza prototipi che diventano gioielli. Per le sue collezioni, invece, quelle griffate JT, lavora con materiali meno importanti, dove il valore è soprattutto sperimentazione e sorpresa.

Vinile, plexiglas, carta trattata, ottone placcato in oro, argento, rodio. Nel 2007 il debutto sul mercato con “1Hundred”: cento Swarovski per semplicissimi bracciali e poi collane, orecchini, anelli, che fanno da punti luce discreti. Nel 2009 arriva “Suonati”, collezione ricavata dal sottile e impegnativo vinile, che rende soprattutto negli orecchini asimmetrici, molto grafici. Il plexiglas è declinato nei “Ritagli”: ancora collane, orecchini, bracciali e polsiere alte, con un materiale che si presta agli incroci geometrici d’effetto.


I nomi delle collezioni sono imprevedibili e centrati. L’ultima “Rust”, ruggine, si sviluppa in dischi di carta trattata per renderla resistente, su cui si diramano le sfumature delle ruggini. Per l’autunno una palette di ocra, rosso, marron, calce, con una venatura dorata. Pezzo forte, l’orecchino composto da tre dischi, carta e ottone, anche quest’ultimo dipinto a mano, da indossare da solo o scomposto sui due lobi. Nel packaging il “bugiardino” a fisarmonica spiega le variabili.


Particolare, anche se per ora un unicum (e speriamo non resti tale...), la collezione “Lunar”, sviluppata da JT insieme alla designer Sara Pinna del brand “Nodo”, che lavora sulle fibre tessili e da San Vito al Tagliamento si è trasferita a Londra. Anelli e collane, tutti pezzi unici, in lana e ottone, connubio mutevole: le ossidazioni del metallo, come i punti, non sono mai gli stessi. L’anello è una lievissima spuma di lana grigioazzurra sopra il dito e, attaccato a una maglia sottile, diventa ciondolo. La collana gioca su rigidezza e morbidezza degli elementi.












Da vedere: Stilemisto, via San Michele 11, Trieste (www.stilemisto.it).

O www.jessicatonioli.com

sabato 16 settembre 2017

IL LIBRO

Aramburu, quanto dolore per quella patria 





Una guerra che spacca paesi, comunità, famiglie. Che lacera amicizie, annienta intimità, corrode il tessuto sociale. La violenza brutale delle bombe e del fuoco, col suo strascico di morti ammazzati sulle strade. E la violenza sotterranea delle intimidazioni, delle delazioni, dell’indolenza e dell’indifferenza, che si propaga come una metastasi in un piccolo mondo chiuso. L’Eta, in quarant'anni di terrorismo nazionalista basco, ha eliminato gli uni, quelli non arrendevoli, non fiancheggiatori, non simpatizzanti, e ha diviso gli altri: sparato ai nemici e condannato chi è rimasto a essere vittima, o vittima della vittima, in un circolo vizioso di dolore e rancore.

“Patria” di Fernando Aramburu (Guanda, pagg. 632, euro 19,00), è un affresco, storico e politico, della lotta degli indipendentisti. A comporlo però sono le storie minime, quotidiane, di singoli o piccoli nuclei legati da vincoli di parentela, amicizia, buon vicinato, che gli attentati investono e sconvolgono. Un libro - caso letterario in Spagna, romanzo “definitivo” come hanno scritto i critici - dal respiro grandioso, potente, ma che si sviluppa in brevi capitoli, chiusi come racconti a sè stanti, che non seguono la cronologia ma i moti dell’animo dei protagonisti, ognuno dei quali racchiude l’intero quadro. L’autore non assolve, ha ben chiare differenze e responsabilità, ma quel che gli interessa, prima ancora della testimonianza storica, della manichea divisione in buoni e cattivi, è restituire la pervasività di un dolore che è degli uni e degli altri, assassini e bersagli. E lo fa penetrando negli animi con tale dolente, delicata introspezione, che lascia commossi e conquistati.



Fernando Aramburu


La patria di cui parla Aramburu è quella di due famiglie amiche: da una parte il Txato, imprenditore, e sua moglie Bittori con i figli Xabier e Nerea, dall’altra Joxian e Miren, con i loro ragazzi Joxe Mari, Arantxa e Gorki. Gli uomini bevono allo stesso bar e vanno in bicicletta, le donne passeggiano a braccetto, i figli crescono insieme tra gli anni Settanta e Ottanta, vezzeggiati dal Txato come fossero tutti suoi. Ma quando l’imprenditore, che non si piega ai taglieggiamenti dei terroristi, dopo mesi di minacce, lettere anonime, scritte sui muri, viene ucciso sulla strada e Joxe Mari, che milita nell’Eta ed è entrato nel braccio armato dell’organizzazione, sparisce dal paese, nulla sarà più come prima, nè tra le famiglie nè intorno a loro.


Con Aramburu seguiamo la diaspora dei personaggi: Bittori lascia la sua casa, ormai isolata, il figlio Xabier, medico, si nega a qualsiasi forma di affetto, mentre Nerea, già mandata dal padre a studiare altrove, coltiva la memoria a distanza, rifiutando la pesante cappa di figlia dell’ennesimo morto ammazzato. Specularmente, Miren si radicalizza a sostegno del figlio incarcerato, Joxian piange l’amico in segreto ma non ha il coraggio di ribellarsi alla moglie, e Gorka, scrittore introverso, si allontana dalla famiglia per poter riconoscere la sua omosessualità.


Sarà infine Aranxta, ridotta in carrozzina da un ictus, la prima a ristabilire un contatto tra i due nuclei, ad aprire la strada a quel perdono che Bittori pretende prima di morire.


Ma non è il perdono, che pure ci sarà - una lettera di Joxe Mari dal carcere, un abbraccio fuggevole tra Bittori e Miren - la parte migliore del romanzo. È lo scavo nell’animo dei personaggi e nel mondo che li circonda, nelle zone grigie che permettono all’odio di crescere e alimentarsi: l’acquiescenza della Chiesa, i ricatti indiretti, la brutalità sottotraccia di un mondo rurale che fa il vuoto intorno, che imprigiona con codici elementari - la chiacchiera, il saluto negato, il voltare le spalle e cambiare marciapiede, il silenzio che cala al bar all’ingresso del reietto - chi tenta di liberarsi.


Il romanzo inizia con l’annuncio della fine della lotta armata da parte dei terroristi. E termina mentre le idropulitrici cancellano le scritte a sostegno dell’Eta sui muri del paese, quando Nerea dice al fratello Xabier: «Alla fine vince sempre l’oblio». E lui: «Ma non c'è motivo per cui dobbiamo diventare suoi complici».


Questo è il messaggio di un libro che entra nel profondo del lettore: la fatica della memoria è forse l'unica riconciliazione possibile.

@boria_a

sabato 9 settembre 2017

IL LIBRO

 La morte è splatter a Tolosa


 
Bernard Minier


 
Un’ambientazione da noir nordico, in una Tolosa livida di freddo, piena di segreti e di oscuri figuri. Una trama da thriller americano, con tanti personaggi e storie intrecciate l’una nell’altra, senza un bandolo apparente. Un taglio cinematografico, che fa salire la tensione a ogni pagina, non risparmiandosi sui dettagli splatter. La diabolica capacità dell’autore di governare un plot complesso, con continui cambi di prospettiva, che polverizzano certezze apparentemente acquisite.

“Non spegnere la luce” di Bernard Minier (La Nave di Teseo, pagg. 697, euro 22,00) ha tutti gli ingredienti per essere un giallo di piacevole lettura, se non fosse per quelle settecento pagine che costituiscono un deterrente, pratico e psicologico. La lunghezza, va detto subito, non annacqua la narrazione, anche se tagliando qualche scena (dove l’autore sembra indugiare con autentico compiacimento sui particolari sanguinolenti, come in un piano sequenza cinematografico) tutto l’impianto filerebbe ancora più teso verso la conclusione, imprevedibile fin quasi all’ultima riga (di qui l’opportunità di “asciugare”, per non guastare l’effetto sorpresa).








Il libro è il terzo capitolo della saga che ha per protagonista l’ispettore Martin Servaz, piacente proprio perchè ha quel tanto di arruffato, sprezzante delle regole, depresso e inconsolabile dei colleghi detective di altri paesi (incluso lo Schiavone di Manzini), anche loro campioni di incassi in libreria. Non a caso La Nave di Teseo, il nuovo editore di Minier dopo i primi due capitoli usciti con Piemme (Il demone bianco e Nel cerchio), ha deciso di puntare sull’investigatore d’oltralpe che, in patria, dove il libro è uscito tre anni fa, ha venduto 300mila copie. Dai thriller è stata anche ricavata una serie tv di successo.

In questo giallo Servaz divide la scena con Christine Steinmeyer, conduttrice di una radio di Tolosa, la cui vita piomba da un giorno all’altro nell’incubo. Una lettera anonima l’accusa di non aver impedito un suicidio, la stessa colpa le viene gettata addosso da uno sconosciuto che chiama durante la sua trasmissione. Pian piano il vuoto le cresce intorno, come una prigione: qualcuno entra nel suo appartamento e deposita dei cd di opere liriche in cui l’eroina si toglie la vita, l’accusano di abusi sessuali su una stagista, perde il lavoro, e i vicini, i colleghi, la polizia la credono una pazza mitomane. Un effemminato individuo, basso, laido e tatuato, la droga e la violenta. Quest’inferno orchestrato con lucidità nei suoi confronti sembra avere un unico obiettivo: sprofondarla nella follia, fino al punto di uccidersi.


Parallela si snoda la storia di Servaz. Una busta con una chiave elettronica d’albergo, ricevuta nella clinica dove sta curando la depressione seguita all’ultimo caso, lo porta, con un’indagine ovviamente non ufficiale, nella stanza dove un’artista si è ammazzata in modo ferino. Chi era? E che cosa si nasconde dietro quello che la polizia ha chiuso, correttamente, come un caso di suicidio?


Le strade dei due, Christine e Servaz, non potranno non incrociarsi. Perchè l’amante di lei (in aggiunta a un fidanzato ufficiale piuttosto arido), l’affascinante astronauta Leónard Fontaine, è stato anche l’amante di Célia Jablonka, l’artista morta. È un uomo brillante dal privato complicato: una famiglia e due figli, molte avventure femminili, un insabbiato caso di violenza nella Città delle Stelle, in Russia, di cui fu vittima l’astronauta francese Mila Bolsanski, quando i due si preparavano per la missione sulla Stazione spaziale internazionale. Un figlio non riconosciuto.


Insomma, il colpevole perfetto: traditore, prevaricatore, ossessivo con le sue donne, con Mila, con Célia, con Christine, al punto da spingerle all’annientamento. Ma quando tutto sembra avviarsi alla soluzione e l’autore comincia a tirare i fili e a far combaciare i pezzi del puzzle, ancora una volta il quadro si rovescia.


Perchè ogni personaggio di questa storia, protagonista o comprimario, e la stessa Tolosa, con le sue periferie fredde e desolate, ha un lato oscuro, un passato con cui fare i conti, una doppia vita, un’ossessione che lo perseguita. E l’indizio per arrivare al colpevole è in quella citazione di Orwell che Servaz fa sua: “Il potere è ridurre la mente umana a brandelli”. Annichilire ogni volontà, al punto da far sembrare la morte l’unica soluzione per liberarsi.

@boria_a