martedì 31 ottobre 2017

L'INTERVISTA

Irene Brin, la prima blogger raccontata dal nipote




 
Irene Brin a Bordighera



Fu Leo Longanesi a trovarle il soprannome: Irene Brin. Al secolo era Maria Vittoria Rossi, classe 1911, l’antesignana di tutto le giornaliste di costume. All’epoca si chiamavano “cani schiacciati”, quegli articoletti di cronaca mondana snobbati dalle penne maschili: lei li trasformò in fulminanti e raffinatissimi ritratti umani e sociali. “Brinate”, appunto, come si dirà poi nelle redazioni: pezzi brevi, colti, graffianti.

Irene Brin è stata una delle protagoniste del giornalismo del secolo scorso. Si occupò non solo di costume, ma di arte e moda per “Omnibus”, “Il Borghese”, “La Settimana Incom”, “Il Corriere della Sera”. Corrispondente italiana di Harper’s Bazaar, dettò legge in fatto di stile e firmò come “Contessa Clara” il più celebre galateo italiano.


Ma Irene Brin è stata molto più di una cronista di sfilate e salotti, di un’insegnante di buone maniere. Traduttrice di decine di autori, scrittrice, con il marito Gaspero del Corso fondò a Roma L’Obelisco, la galleria che per prima aprì le porte agli esponenti delle avanguardie e fu punto di riferimento per il dibattito artistico e culturale degli anni ’50. Fu anche corrispondente di guerra: il suo “Olga a Belgrado”, del ’43, documenta l’occupazione italiana nei Balcani, dove aveva seguito, per tre anni, il marito ufficiale: racconti dalla parte delle popolazioni locali, che il fascismo non apprezzò.


Intellettuale a tutto tondo, spirito libero e inquieto, è un personaggio controverso e sfuggente, tutto da riscoprire. Oggi un’occasione per farlo è il prezioso volume, “Il mondo - Scritti 1920-1965” curato da Flavia Piccinni per Edizioni Atlantide (pagg. 314, euro 30), che raccoglie una selezione di pensieri, articoli, racconti di Irene Brin, pubblicati a partire dal ’44.
Ma chi era davvero Maria Vittoria Rossi? Pochi sanno che Mariù - come la chiamavano in casa, il suo primo nom de plume - era figlia di Maria Pia Luzzatto, colta e poliglotta ebrea goriziana, nata a Vienna, e di Vincenzo Rossi, generale del regio esercito, di famiglia ligure. Sua nonna era la triestina Adele Ara, che visse nell’omonima villa di via Monte Cengio, e si sposò a Trieste con l’ingegner Emilio Luzzatto, anche lui triestino: delle loro nozze restano i documenti secondo il rito ebraico.






«Chi era mia zia? La prima blogger italiana» sintetizza il nipote, Vincent Torre, figlio della sorella Franca, fisico e docente alla Sissa. Che così racconta la sua straordinaria zia.


 
Vincent Torre, fisico alla Sissa di Trieste


 

In che ambiente è cresciuta Irene Brin? «Irene passò la giovinezza in mezzo ai problemi e alla vicissitudini della famiglia paterna. Suo padre, Vincenzo Rossi, era generale di Corpo d’armata, suo zio, Francesco, fu uno dei fondatori del Partito socialista nel 1892. Entrambi vissero in prima persona le vicende drammatiche di quel periodo e trasmisero a Irene le loro passioni, le angosce, le traversie passate. Mio nonno Vincenzo era a capo della brigata Roma a Caporetto, che dopo la disfatta fu accusata da Cadorna di tradimento. Questa tragedia lo devastò e per i successivi vent’anni cercò di riabilitare il suo nome e quello dei suoi uomini. Ci riuscì e gli fu addirittura proposto di diventare senatore, purchè si iscrivesse al partito fascista. Lui rifiutò».

E Francesco? «Era molto battagliero, fu arrestato e mandato al confino. Divenne sindaco di Bordighera e fu eletto in Parlamento, ma durante il ventennio fascista gli bruciarono la casa e fu costretto a fuggire sui tetti. Così lasciò la politica. Irene ha respirato in casa questi ideali democratici e socialisti e con dolore ha assistito alla loro sconfitta. L’atmosfera della sua giovinezza non è stata frivola e svagata, tutt’altro. E credo che il suo atteggiamento apolitico e la scelta di occuparsi di arte e letteratura siano proprio legati alla volontà di non rivivere i contrasti ideologici che avevano condizionato la sua gioventù. Dopo l’8 settembre Irene dice: “riiniziamo la mia vita”».


Questo atteggiamento ha influito su di lei? «Zia Irene e zio Gaspero mi hanno insegnato ad avere autonomia intellettuale, a essere un libero pensatore. Le donne spiccavano nella nostra famiglia. E c’era una forte componente ebraica, ma aperta, laica e democratica. Annina Torre, la mia zia paterna, aveva fondato Amnesty International negli anni ’50. Lei mi diceva che, essendo noi ebrei, dovevamo difendere i prigionieri palestinesi politici nelle prigioni di Israele. Mia mamma Franca mi ripeteva: “hai lo spirito di contraddizione giudaico che hai preso da tuo padre”. Era questa l’eredità familiare, vicina all’ebreo errante, all’ebreo bastian contrario». 


Cosa ricorda dell’atmosfera dell’Obelisco? «Irene e Gaspero ospitarono le mostre più importanti di quegli anni. Lì cominciarono a esporre Burri, Afro, Mirko. Per la prima volta si videro a Roma, Toulouse-Lautrec, Magritte, Matta, Dalì, Rauschenberg. La galleria era punto di incontro di Bacon, Kandinsky, di Calder, che fece un ritratto a mio zio Gaspero e lui ricambiò. Dai dieci anni in poi, in quella galleria ho formato il mio gusto. E nel loro appartamento, a Palazzo Torlonia, con i Modigliani e i Klee alle pareti. Ma anche nei viaggi che con Irene e Gaspero ho fatto a Parigi, Londra, Lisbona. Mi hanno insegnato a essere una buona guida in qualsiasi museo del mondo. Tra il ’58 e il ’62 molti pittori lasciarono l’Obelisco e, secondo le indicazioni di partito, si spostarono nelle gallerie di sinistra. Irene era invisa perchè troppo intelligente e snob, troppo fuori dal coro».


Lei accompagnava sua zia durante le sfilate parigine.. «Sì, ma mi lasciava in un museo: ritornava dopo un paio d’ore e mi interrogava sui quadri, che dovevo riconoscere da lontano. Irene e Gaspero avevano “gusto” e una grande intuizione per il nuovo. Dicevano che un’opera o un libro erano “belli”, ma non mi spiegavano il perchè. All’epoca non apprezzavo questo atteggiamento. La mia è la generazione del ’68, li rimproveravo di non essere impegnati. Invece era la loro forza e particolarità: non essere schierati, politically correct, non uniformarsi a pensieri o dettami di altri. Volevano vivere in modo intelligente e colto, ma non ideologico. Ho capito dopo che sono stati lungimiranti».


A Irene piaceva la moda? «La svagava, ne era affascinata. Mia zia era una donna profondamente infelice. Aveva un’emotività, una sensibilità e una sessualità molto complicate. Anche quando eravamo in vacanza insieme, a Sasso di Bordighera, stava tranquilla per quattro o cinque giorni, poi arrivava la tempesta. Solo in quei momenti d’ira era spontanea, per il resto non perdeva mai il controllo. L’aveva imparato fin da piccola, i rapporti con padre e madre erano condizionati dai ruoli, sempre disciplinati. Quando Irene è morta, a Sasso, nel ’69, ad appena 58 anni, abbiamo pensato che la malattia fosse quasi un suicidio, che fosse logorata dalla sua complessità».



Una foto inedita di Irene Brin


Con lei che rapporto aveva? «Era sempre molto affettuosa. Quando stava per morire mi ha dato una specie di addio, mi ha fatto una dichiarazione d’amore: il commiato da un giovane è un segno di grandezza. Ero il figlio che non aveva avuto e mi considero il suo erede emotivo e spirituale».


Avete mai litigato? «Avevo sedici anni, ero a Genova, e con un amico andai a trovare Ezra Pound che aveva casa a Rapallo. Eravamo infatuati di Brecht e volevamo fare un mix di letture di questi due autori così diversi. Naturalmente lui disse di no. Quando mia zia lo seppe scoppiò il finimondo, mi accusò di fornicare con il nemico».


Lei ha ritrovato un inedito di Irene Brin... «In un cassettone della casa di Sasso c’era un piccolo faldone con alcuni dattiloscritti tra cui questo “Le perle di Jutta” (che uscirà nel 2018 per Atlantide). Su una fascetta, con un disegno, aveva scritto “Premio Viareggio”, forse si aspettava un riconoscimento importante. Nel racconto dice: «Nessuno ascolta mai il cuore degli altri”. Era un donna forte ma fragile. Prima di sposare Gaspero, nel ’36-’37, ebbe un grande amore per Carlo Roddolo, amico di Montanelli, che morì in Etiopia. In casa abbiamo ritrovato tutte le lettere di lui, molto appassionate. C’era anche una lettera di lei mai spedita, sofisticata nel linguaggio e nei contenuti. Il suo coinvolgimento con gli uomini era intenso, ma la sua sessualità resta un grande mistero».


Come ricorda sua zia? «Non l’ho mai vista sciatta, sempre impeccabile e in controllo di sè. Era la sua forza e la sua debolezza. E snob. Aveva una trousse disegnata da Dalì, le sembrava una cosa meravigliosa. Ma il suo snobismo era autentico, non una posa. Perchè era infelice? Come Gaspero, non aveva capito che cosa desiderava e non era riuscita a ottenerlo».


Perchè riscoprire Irene Brin? «Perchè era una mente libera. Per la sua modernità. Per l’eleganza della sua scrittura, riflesso della sua personalità».

@boria_a

giovedì 26 ottobre 2017

MODA & MODI

 Ferri e uncinetto per gioielli in 3D


Si è trasferita a Londra con un paio di ferri da maglia e un nome nuovo, facile da pronunciare e ricordare: Nodo.
Nella capitale della creatività,ma anche della fast fashion e delle catene dell’accessorio seriale e impersonale, Sara Bellinato (o Sara Pinna, come ama farsi chiamare quando non vuole scoprirsi troppo), di San Vito al Tagliamento (Pordenone), nel 2015 lancia il suo piccolo brand: collane, orecchini, bracciali in fibre di prima qualità o materiali riciclati da scarti di produzioni industriali. Sara racconta di essere cresciuta in un piccolo gineceo, al ritmo dei lavori tradizionali femminili: la mamma sferruzzava, la nonna lavorava a macchina, la zia confezionava calzettoni di lana per la nipote. Suoni e tecniche che si è portata dentro e che ha recuperato negli anni di studio all’Accademia di Belle arti di Bologna, dove ha cominciato a sperimentare come attualizzarli e trasformarli in una linea con una cifra caratterizzante.


Debutta a Trieste col nome di VerdeOlivia, facendosi conoscere con un rapido passaparola tra amiche, che ospitano i suoi lavori in casa o in qualche negozio: le prime collane di tessuto, sempre coloratissime, sono giochi di nodi che cambiano forma e dimensione a seconda di come si indossano e si modellano.
Crea anche piccoli cappellini, virgole di tessuto che si arricciano sulla testa.


Poi il trasferimento in Inghilterra e un marchio nuovo di zecca, che coincide con il lancio della prima collezione, Cut-Out, tutt’ora la sua linea distintiva. Il jersey scartato dalle industrie tessili viene lavorato all’uncinetto e riconvertito in gioielli tessili “poveri”, ma di grande consistenza e teatralità, merito anche della palette colour blocking. Le collane sono il pezzo forte: lunghe o simil-gorgiere dove la tecnica dell’uncinetto consente alla fibra di assumere spessore e plasticità.





Sara è partita dai nodi. E i nodi ritornano nella collezione Doodle, che armonizza l’artigianalità alla tridimensionalità dei gioielli contemporanei: ne esce una fibra fatta di grovigli, materia prima per collane e orecchini senza peso. Eterea la piccola serie Lunar, creazioni a due mani con la designer e orafa Jessica Tonioli, corregionale: anelli, orecchini, collane di metallo ossidato e lana mohair lavorata a maglia, in equilibro tra geometrico e organico, razionale e gestuale.


 
Lunar



Infine, Mediterraneo: ancora due anime, fibra e metallo, per rivisitare in chiave minimal la gioielleria delle popolazioni che hanno abitato il Mediterraneo, fenici, greci, egizi.




Mediterraneo


Sono pezzi “slow”, unici, dove l’imperfezione del fatto a mano è un valore aggiunto. Da vedere
su: wearenodo.com; Stilemisto concept store, Trieste;  Giada gioielleria contemporanea Trieste, www.giadatrieste.com

@boria_a

domenica 22 ottobre 2017

IL LIBRO

Quel terremoto che ti obbliga a crescere



Il trasferimento da Roma a Los Angeles al seguito della sua squinternata famiglia, l’impatto con un ambiente alieno e squallido, lontano anni luce dalla mecca glam del cinema, le amicizie freak, la scoperta del sesso, l’iniziazione alle droghe, il ritorno per una vacanza in Italia, dopo il primo anno di scuola americana, in un’isola delle Eolie ruvida e feroce come il quartiere ghetto di Van Nuys dov’è andata a vivere. Sono tanti i terremoti nella vita della diciassettenne Eugenia, alter ego di Chiara Barzini (quarti artistici nobilissimi: trisnonno e bisnonno sono i celebri giornalisti Luigi Barzini Sr e Jr, la zia è la top model Benedetta Barzini), che esordisce alla scrittura in inglese con “Thinghs that happened before the earthquake”, da lei stessa tradotto insieme a Francesco Pacifico e pubblicato da Mondadori col titolo di “Terremoto” (pagg. 332, euro 19,00), in un travaso tra lingua madre e seconda lingua che fornisce anche un codice per addentrarsi nelle pagine. Questo romanzo di formazione, crudo e diretto, in America ha catturato l’attenzione di Gerry Howard, editore di David Forster Wallace.

Chiara Barzini


Eugenia-Chiara arriva a Los Angeles nella primavera del 1992, quando la megalopoli è avvolta nel fumo dei Riots, gli scontri a sfondo razziale, che cancellano la sua distesa inestinguibile di luci e la lasciano «offuscata» e «coperta di cicatrici» (la città «come una celebrità dopo uno scadalo, supplicava di essere lascita in pace»). Due anni dopo, nel gennaio ’94, Los Angeles è sconvolta dal terremoto, e pochi mesi dopo la famiglia di Eugenia rimpatria, mentre lei decide di frequentare l’Università negli Usa.

Due sconquassi veri, che circoscrivono temporalmente il romanzo, dentro i quali l’autrice racconta la permanenza americana della famiglia, tanto bella e perfetta nella pubblicità televisiva della carne Manzotin, di cui è stata realmente protagonista, quanto scombinata nella vita vera: il padre regista velleitario e disorganizzato, la madre segretaria-cuoca-tuttofare, entrambi concentrati su loro stessi e disinteressati ai figli, Eugenia e il fratello Timoteo coinvolti nel pazzo progetto di un film da girare a Los Angeles, tra dubbi collaboratori, la casa trasformata in set, soldi che spariscono, il miraggio di reclutare Johnny Depp. E tutti i punti fermi che si dissolvono sotto il sole della spellacchiata San Fernando Valley, sede delle società cinematografiche, tra comuni di hippie fuori tempo massimo e catene di cibo spazzatura, dove non ci si sposta che in auto perchè a piedi daresti nell’occhio e non arriveresti da nessuna parte. L’America finta e cattiva, con la maschera dei pupazzi di Disneyland, sotto i cui costumi Cenerentola fuma erba con la pipa e Topolino è un poliziotto travestito a caccia di tossici imbucati tra le famiglie.

Eugenia, invece, cerca disordinatamente una strada, la sua strada, senza puntelli. La scuola è gigantesca e, se non trovi l’aula giusta, vieni caricato su una macchina da golf rastrella-ritardatari e confinata tra le minoranze razziali. Infila una galleria di mostri: il nativo americano malato di cancro con cui perde la verginità, nei fumi dell’erba con una spolverata di peyote, lo studente persiano con cui fa brutto sesso, che viene freddato in un centro commerciale, infine Henry, l’amico senza un orecchio, nel cui negozio di scalcagnate memorabilia hollywoodiane comincia a cambiare vestiti e pelle. Abiti vintage e reperti di vecchi film, un tentativo di rifugiarsi in un passato meno squallido e disperante.
Infine Deva, la bellissima compagna di scuola, figlia di un vecchio rocker etilista, che con i figli usa il pugno di ferro: Eugenia segue il fratello nella loro casa-baracca, ma finisce a letto con lei e scopre finalmente il piacere fisico, dopo tanti amplessi asciutti e un po’ disgustosi. Anche Deva, però, sparisce.

Los Angeles, la città del “luminoso invisibile”. Quello che più convince e cattura nel libro è proprio questo, la capacità dell’autrice di materializzare la desertificazione fisica e umana del paesaggio, mettendola in corrispondenza con lo spaesamento della protagonista. E non c’è differenza tra la San Fernando Valley e l’isola più appartata delle Eolie della parentesi italiana di vacanza: dopo i grandi spazi che inghiottono, un’enclave preistorica priva di presenze umane. Qui o là Eugenia cresce sola. Nel buio, sulle brandine dell’isola, con il fratello fa il gioco di chi buttare dalla torre tra le fiamme: nonne, animali domestici, genitori e amici. «Qualcuno doveva sempre finire nel fosso e, se fossimo riusciti a trovare la strada tra due opzioni dilanianti, avremmo saputo affrontare i vicoli ciechi della vita».
@boria_a

mercoledì 18 ottobre 2017

IL LIBRO

Paolo Rumiz e la regina, da leggere e ascoltare 


Il bozzetto per la copertina del libro firmato da Cosimo Miorelli


Una favola piena di suoni contro la violenza del silenzio e del troppo rumore. Un invito ad ascoltare se stessi e gli altri e a non farsi tiranneggiare dal frastuono che ci assedia. È l’ultima avventura letteraria di Paolo Rumiz, che sarà in libreria il 16 novembre 2017 edita da La Nave di Teseo. S’intitola “La Regina del Silenzio” e l’autore ne darà qualche anticipazione giovedì 19 ottobre, a Gorizia, nella sala Apt, ospite della rassegna “Il libro delle 18.03”, in dialogo con la giornalista Martina Vocci.


Paolo Rumiz


Il libro è dedicato all’amico musicista triestino Alfredo Lacosegliaz, scomparso un anno fa, l’artista che anticipò l’interesse per la musica balcanica e le contaminazioni con i suoni che venivano dall’Oriente: su di lui e il suo codino grigio è modellato uno dei protagonisti della storia, il bardo Tahir, discendente di un popolo guerriero che canta la nostalgia e con la sua tambùriza seduce uomini e animali.
«Questa favola - racconta Rumiz - è stata scritta in due settimane, ma è nata oralmente, ascoltando le storie degli altri, raccogliendo briciole in giro per il mondo, rubando racconti. È una storia fatta per essere letta ad alta voce. Io ascolto sempre il suono di quello che scrivo. La letteratura può sopravvivere solo se immette più oralità nella scrittura».


“La Regina del Silenzio” ha avuto una gestazione lunga, forse inconsapevole nel suo stesso autore. Comincia a sedimentare circa otto anni fa, quando la musica è entrata fortemente nella vita di Paolo Rumiz. L’amicizia con Lacosegliaz, poi con Riccardo Muti, che gli suggerisce la forma della ballata per “La cotogna di Istanbul”, il romanzo-canzone pubblicato nel 2010, più volte riscritto e collaudato nelle letture in pubblico, di cui sta per uscire ora la versione definitiva in spagnolo. Infine, l’incontro con Igor Coretti-Kuret e con la sua European Spirit of Youth Orchestra, il complesso di novanta giovanissimi musicisti, di paesi diversi, che ogni anno si scioglie e l’anno dopo rinasce, con altri talenti in erba, sconosciuti gli uni agli altri. «Per me incontare quest’orchestra è stata un’epifania - dice Rumiz - ha fatto entrare l’armonia nella mia vita. Condividere i problemi dei ragazzi, ascoltarli, rispondere alle loro domande, mi ha dato una grande lezione di gioia. Abbiamo collaborato per tre anni, l’ultimo con una vera e propria tournée in tutta Italia, da Trento a Matera, dove ho visto giovani che provengono dalle pianure sconfinate dell’est Europa paralizzati dalla bellezza del luogo, dall’emozione di suonare su un burrone abitato».


Il libro è fortemente legato a quest’esperienza, voluto per sostenere la Youth Orchestra, «che le istituzioni - si rammarica Rumiz - ignorano completamente». Ciascuno dei venti capitoli di cui si compone la favola è accompagnato dal suggerimento di un brano da ascoltare - Grieg, Dvorák, Wagner, Beethoven, Mendelssohn, Mahler, Sibelius, Stravinskij, solo per citare alcuni autori - e più della metà di queste pagine sono state eseguite nei concerti della European Spirit of Youth Orchestra, dove Rumiz si affiancava con la lettura.


La protagonista della “Regina del Silenzio” è Mila, una bimba che nasce quando suo padre, il guerriero Vadim, è già morto, ucciso in uno scontro con il bisonte dalle corna avvelenate della regina Ubidaga, la tiranna che ha imposto il silenzio degli strumenti e la cancellazione delle vocali, per schiavizzare un popolo privandolo di gioia e armonia. Ma Mila, quando era nella pancia della mamma, ha ascoltato la musica prima che fosse bandita, ha imparato la melodia della tambùrica di Tahir, il bardo che ha accompagnato con le sue note il momento del trapasso del padre. Mila vive nella proibizione della musica, ma sente dentro di sè la nostalgia di qualcosa che ha conosciuto e che la rende inquieta. Finchè il nonno Lev rompe l’omertà, raccontandole del bardo che ha suonato per sua madre incinta di lei, e la giovane decide di andare a cercarlo: insieme libereranno Eco, fatto prigioniero dalla tiranna, e restituiranno sonorità al paese. Lungo il cammino Mila incontra un maestro di violino e lei, che non ha mai suonato, ma per sei anni, prima di profferire parola, si è concentrata sull’ascolto di ogni suono intorno a sè, subito riesce a far vibrare le corde con l’archetto e a restituire la magia dei fruscii, degli scrosci, dei mormorii, dei sussurri che ha assimilato.



La violinista Aleksandra Latinovic


«La protagonista - racconta Rumiz - l’ha ispirata una giovane dell’orchestra, il primo violino Aleksandra Latinovic, quindici anni, serba. Anche lei non ha parlato fino ai cinque anni, ma ha fatto vibrare le corde del suo strumento prima delle vocali. È questo il segreto: nell’orchestra si insegna non a “performare” ma ad ascoltare, se stessi innanzitutto, poi gli altri. E quando torni a casa sei molto diverso da come sei arrivato».


Il libro, ci tiene a dire Rumiz, è frutto di una collaborazione tra “uomini di confine”. L’amico Piero Porro, calligrafo, ha creato le “cornici” dei capitoli in un alfabeto runico un po’ “latineggiante”, più vicino a noi, mentre la copertina e le illustrazioni sono firmate da Cosimo Miorelli, figlio di Moreno, fondatore del festival Stazione Topolò. «Cosimo - prosegue lo scrittore - che ora vive a Berlino, è cresciuto artisticamente a Topolò, dove ha visto arrivare artisti da tutta Europa. Da piccolo si è seduto sulle ginocchia di Peter Handke, ha respirato l’ambiente favolistico vicino alla frontiera. Gli ho chiesto di ispirarsi alle illustrazioni di due volumetti della sagra finnica Kalevala, che mi erano stati regalati da un amico di Monika Bulaj, durante il nostro viaggio, dalla Finlandia all’Ucraina, nel 2008, da cui è nato il mio libro “Trans Europa Express”. Ne abbiamo discusso e i disegni sono nati dai nostri dialoghi. Sulla copertina ci sono i musicisti che entrano nel regno del silenzio, illuminati da fiaccole, e lasciano stupefatti i soldati, che dopo tanti anni di silenzio sono incapaci di combattere».
 

Sulla copertina Miorelli ha disegnato anche la mappa del paese immaginario dove è ambientata la favola. È la terra dei Burjaki, la grande pianura oltre i Carpazi dove si stendono l’Ucraina, la Bielorussia, la Polonia. E dove, in assenza della cassa di risonanza naturale delle montagne, i popoli sono costretti a cantare per non deprimersi. Il Mare del Nord è il Baltico, Negroponto il Mar Nero, Ramadania un paese arabo d’oriente.
 

Quanto alla scelta dell’editore, Rumiz precisa che l’idea del libro è nata in un ristorante triestino insieme a Elisabetta Sgarbi. Lui le racconta dell’orchestra giovanile che gli sta a cuore, lei si dà da fare per sostenerla e suggerisce l’idea della fiaba. E così, con la Nave di Teseo, lo scrittore-camminatore firma la sua prima storia di pura invenzione. «Se non fossi diventato nonno - conclude Rumiz - questa macchina fiabesca forse non si sarebbe messa in moto». Per addormentare i suoi figli, quando gli veniva sonno e non sapeva più cosa inventare, scandiva i numeri col ritmo del verso. Ma dai due nipotini, non può permettersi di essere colto narrativamente impreparato.
@boria_a

mercoledì 11 ottobre 2017

IL LIBRO


L'unica verità possibile in una Perugia noir




Una Perugia notturna, popolata di ombre umane e di segreti. Una città colta e cosmopolita, dietro la cui facciata si nascondono traffici indicibili. Solide famiglie borghesi, ingessate nel loro benessere e nella loro reputazione, che nascondono desideri, pulsioni, vizi, debolezze. La scrittrice Carla Mocavero (prolifica: ha firmato molti romanzi, saggi, libri per ragazzi), nata a Perugia ma ormai a Trieste da molti anni, ha deciso di tornare a casa, letterariamente, con il suo ultimo libro, “L’unica verità possibile” (Morlacchi Editore, pagg. 163, euro 10,00), che presenta alla libreria Minerva di Trieste, venerdì 13 ottobre 2017 alle 18, in dialogo con Cristina Benussi.


Carla Carloni Mocavero


La Perugia in cui Mocavero conduce il lettore non è il salotto patinato di provincia, con il suo tran tran ipocrita e pasciuto, le bellezze artistiche, la storia e le Madonne sorridenti ad ogni angolo, in cui l’immagine da flyer turistico la congela. L’omicidio della studentessa Meredith Kercher ne ha scoperchiato le fragilità ed è in questo territorio in ombra, indebolito da nuovi innesti sociali ancora non integrati e aggredito silenziosamente dalla criminalità, che l’autrice ambienta il suo noir. Una storia che tiene insieme l’affetto per la città natale, com’è rimasta cristallizzata nel ricordo, con uno sguardo disincantato sulla Perugia di oggi, trasformata e per certi versi estranea e irriconoscibile.


Al centro della vicenda, una famiglia dell’alta borghesia e una strada, entrambe specchi di queste contraddizioni. Vittorio, vicedirettore di banca, inappuntabile nell’abbigliamento e nel carattere, sua moglie Francesca, dedita alla parrocchia e alle cene eleganti per pochi intimi, un figlio brillante e algido, chirurgo pediatrico in ascesa, una figlia liceale. La strada è quella stretta e buia che si infila tra le case eleganti della buona società. Ed è su questo vicolo che, da una finestra, Vittorio si affaccia ogni notte, a spiare le coppiette che si appartano in un angolo appena illuminato. Una perdonabile trasgressione in una vita ordinata e compassata, ma sufficiente a riaccendergli i sensi, a recuperare la passione annacquata nella deriva domestica, a riandare all’intimità con la moglie. Francesca fa finta di dormire, e invece sa, si arrovella ma non parla, in uno schema consueto. E alla finestra finisce per affacciarsi anche lei.


È quello che Vittorio, una notte, vedrà di sfuggita nella cantina del palazzo di fronte, abitato da ricchi conoscenti, l’episodio che scatena il meccanismo distruttivo. C’è un gruppetto di bambini con una donna, la tuttofoare storpia della parrocchia. Che ci fa lì? E che succede nei sotterranei del palazzo di quel noto avvocato, curatore fallimentare, sui cui conti, riempiti e svuotati con troppa facilità, si è già appuntata l’attenzione di Vittorio?


Senza addentrarsi nell’intreccio, per non “spoilerare” la trama, basta dire che quella visione notturna cambierà la vita di tutti i personaggi. Farà deflagrare i silenzi nella famiglia e porterà alla luce traffici innominabili, che coinvolgono la Perugia bene e professionisti all’apparenza cristallini. La provincia tranquilla e impettita si sgretola a ogni pagina, divorata dall’avidità, dalle ambizioni, dalle ipocrisie. E il finale è aperto e poco assolutorio. “L’unica verità possibile” - ancor più inquietante se a suggerirla è un religioso - a volte è la verità “addomesticata”, per salvare la faccia. E la facciata, appunto, della propria rispettabilità.

martedì 10 ottobre 2017

MODA & MODI


 Bocconcini di plastica fusa




Il tappo di un dentifricio, una scatola di silicone, la forchetta da picnic. Un qualsiasi reperto di plastica di uso quotidiano, nella maggior parte dei casi destinato al cassonetto della differenziata. Ma sopra un becco bunsen, e con buona pace delle dita dell’inventore, che segue la propria fantasia intorno alla fiamma, il rifiuto si trasforma: si scioglie, si assottiglia, fila. Cambia natura, destinazione, colore. Da scarto triste avviato all’ignoto del riciclo, diventa accessorio ludico. Non più anonimo, ma unico.

A cinque anni di distanza dal primo esperimento fashion, lo scultore Luigi Merola presenta la sua seconda “capsule” di anelli. Lo spirito è cambiato, come la sensibilità della moda, che in questa fase si preoccupa di sostenibilità, combatte lo spreco e celebra il recupero creativo. Sul carpet un po’ più green avanza la slow fashion, che riutilizza e riconverte fibre e oggetti. E allora non poteva che chiamarsi “Vegetables” questa collezione limited edition di quattordici anelli, dove Merola si diverte ad attorcigliare filamenti di plastica di diverso colore e spessore intorno a un supporto, anch’esso dello stesso materiale, fino a ricavare accessori-delicatessen che, a seconda di chi li guarda, ricordano una zucchina impanata, un cubetto di melanzana, una tartina con una spruzzata di salse, una cozza ripiena. L’anello su cui poggiano i “bocconcini” di plastica è di acciaio ossidato, squadrato o tondo, anch’esso realizzato a mano dallo scultore (e, mentre il “dipping” di scatole fuse, scatena creatività e divertimento nell’intrecciare i colori, questa è la parte più impegnativa di ogni pezzo).





 

Anche la prima collezione di quindici anelli utilizzava acciaio ossidato, insieme all’argento e ai compositi fotopolimerizzati che spezzavano la palette dei grigi con qualche tocco di bianco, giallo spento, rosso. Erano gioielli-scultura monolitici, dallo spirito gotico, molto amati dal designer (che li confeziona anche per sè) ma decisamente più difficili da portare. Così Merola ha scelto di sperimentare nella direzione diamentralmente opposta: sempre all’insegna del recupero, che è il filo conduttore del suo lavoro, ma giocando con la leggerezza della materia prima, con spessori e accostamenti imprevedibili. Se i primi anelli sembravano oggetti ferrigni, la nuova linea dà l’idea della morbidezza e dell’ironia. I “Vegetables” vanno bene a qualsiasi ora e occasione, proprio come uno spuntino verde.

Gli anelli sono in mostra fino alla fine di ottobre da Giada (www.giadatrieste.com) in via Roma a Trieste o sul sito dello scultore www.merolaluigi.com

lunedì 2 ottobre 2017

 IL LIBRO

L'inferno di Victoire dietro le passerelle


«Ma tu sei la nuova Claudia Schiffer!». Tutto accade come in una fiction televisiva a Victoire Dauxerre, una diciottenne francese appena diplomata che studia per l’ammissione alla prestigiosa Sciences Po. Un metro e settantotto, cinquantasei chili, l’incontro fortuito con un agente di modelle che la intercetta per strada, a Parigi, mentre passeggia con la madre e le promette il lancio sulle passerelle delle fashion week internazionali(«sua figlia è di una bellezza strepitosa! E che naso, dà equilibrio al volto, e cattura perfettamente la luce...»). Non è una frase buttata là: Victoire, in ventidue mesi, entra nella lista delle venti top model più richieste al mondo, volto e corpo della scuderia Élite, proprio la stessa di Claudia Schiffer.




E di “scuderia” non si parla a sproposito: costretta a rispettare misure ferree - 46 chili per entrare nella taglia 36, il limite più ambito, che raggiungono in poche - Victoire diventa un animale da competizione, ma senza le coccole e i riguardi usati agli esemplari di razza. Turni di prove massacranti, attese interminabili per pose di pochi minuti, ambienti squallidi e cibo spazzatura, una competizione sanguinaria senza esclusione di colpi bassi, soprattutto con le diaboliche russe, per “sfilarsi” un marchio. E la totale spersonalizzazione, la mortificazione di essere nient’altro che una “buona gruccia” per dirla con Kaiser Lagerfeld («magre, efficaci, passo deciso e sguardo assassino»), un corpo inesistente in natura, costretto a oltrepassare ogni limite fisico, su cui appoggiare creazioni da sogno.

Ora questa esperienza è diventata un libro, (“Sempre più magre”, Chiarelettere, pagg. 242, euro 14,00) anzi, un diario, che è insieme ingenuo e inquietante, sul lato oscuro del mondo della moda, delle sfilate, dei casting. Sulla disumanità della macchina dietro quei pochi minuti di riflettori, che arruola, consuma, stritola ed elimina un esercito usa e getta di giovani donne, spesso poco più che adolescenti. Una muore di fame nel backstage di una sfilata: diciassette anni, crisi cardiaca, uno scheletro che crolla nel silenzio di tutti.





La denuncia di Victoire, che in Francia ha venduto cinquantamila copie e ispirato la legge contro l’anoressia, per una strana casualità, convive in questi giorni sugli scaffali delle librerie proprio con il patinato memoir della Schiffer (Rizzoli) sulla sua trentennale carriera da top. Ma mentre le passerelle della fashion week in corso a Parigi ci rimandano le immagini delle modelle che sfilano per gli stessi marchi per cui Victoire ha lavorato, nel suo diario leggiamo l’altra faccia del fashion system. Che, poi, a conti fatti, tra percentuali agli intermediari e trattenute su viaggi e trasferte, a una “mandria” di ragazze anonime lascia in tasca ben poco.
Era questa la lusinga dei suoi genitori («ti rendi conto Victoire? Potrai viaggiare in tutto il mondo, e potrai guadagnare un sacco di soldi facendo poco o nulla...»), vicini e affettuosi ma anche accecati dal miraggio di una figlia osannata, ricca e famosa. Invece, in quei pochi mesi di celebrità, mentre la sua fan page rastrellava estimatori e le agenzie gongolavano, Victoire si consumava tra tranquillanti per reggere lo stress, lassativi e clisteri per “bruciare” quell’unica mela concessa al giorno.


Molti bei nomi ne escono male: Lagerfeld che pretende le ultrapiatte, Vuitton i casting solo in perizoma e tacchi, Miuccia Prada, i cui assistenti usano prodotti così aggressivi che scorticano il cuoio capelluto, al punto che è necessario un bagno di due ore per staccare la colla dalla testa e salvare qualche ciocca. E quando ti presenti davanti alla signora della moda italiana, capita che l’insieme non le piaccia e tu, senza nemmeno incrociare il suo sguardo, finisca di nuovo sotto le mani di una pletora di truccatori asserviti per rifare tutto da capo, strigliare i capelli, sfregare la pelle, costruire la bellezza che la griffe ha in testa.


Victoire ha scelto di uscirne, dopo un ricovero in clinica e un difficoltoso recupero dall’anoressia. Oggi studia recitazione a Londra, ma il rapporto con il cibo continua a essere altalenante e problematico. Il suo sfogo non scoraggerà certo il bacino inesauribile delle aspiranti modelle, ma ha il coraggio di sollevare tanti interrogativi, per le ragazze e per le famiglie che hanno alle spalle e spesso sono le prime a spingerle nell’inferno. Anche Flavia Piccinni, nel suo recente “Bellissime” (Fandango), dedicato al mondo oscuro e ambiguo dei baby modelli, ha proposto la stessa domanda: quanto siamo disposti a pagare per il miraggio di una breve, splendida, anormalità?