mercoledì 31 gennaio 2018

MODA & MODI

Leonor Fini sulla passerella dell'amico Dior









I tratti scultorei del viso di Leonor Fini spiccavano tra le fonti di ispirazione di Maria Grazia Chiuri nell’imponente, emozionante mostra su Christian Dior, che ha appena chiuso al Musée des arts decoratifs di Parigi (7 gennaio 2018). La pittrice triestina e l’attuale direttore creativo della griffe sono entrambe “italienne de Paris”, come il titolo dell’omaggio a Leonor Fini al Revoltella del 2009: l’una, appena arrivata a Parigi, espose nella galleria di Dior e poi ne diventò amica come tanti surrealisti, Dalì, Eluard, Max Ernst, André Breton, l’altra oggi guida la maison che è la quintessenza della couture francese.

Nella mostra “Christian Dior, couturier du rêve” la fotografia di “Lolò” in uno dei suoi travestimenti, imperiale nell’ampio mantello e copricapo immaginifico, accanto alla riproduzione di uno dei suoi quadri, era al centro del moodboard di Chiuri, il collage delle fonti, stimoli, immagini da cui è nata l’ultima collezione di haute couture che ha sfilato a Parigi nei giorni scorsi. E che di Leonor ha preso la capacità di costruire con abiti e accessori stravaganti un’identità forte, non necessariamente femminile, ma unica nell’evocare il sogno, la follia, il superamento delle convenzioni, il potere dell’inconscio dei surrealisti.

Non era l’unica presenza di Leonor nel lungo percorso espositivo parigino. Proprio all’inizio, nelle sale dedicate al “primo” Dior, il gallerista e collezionista e amico di artisti, la forte impronta dell’incontro con Leonor Fini era testimoniata da “Les Trois Faunesses” dipinte nel 1932, dove gli abiti, l’acconciatura e l’accessorio-farfalla, sulla testa di una delle tre figure rappresentate, enigmatiche donne-fauno dall’incarnato trasparente, hanno un ruolo di primo piano nel delinearne la personalità.




La decorazione a farfalla, una maestria di piume bianche e nere, ritorna anche sull’ultima passerella di Chiuri, in uno degli abiti più scenografici di una sfilata intensa, che ha meritato la standing ovation. Come tracce di Leonor si ritrovano nel mantello col cappuccio ricoperto di applicazioni di fiori, nelle piume, nell’abito robe-manteau nero con un guizzo di bianco centrale, nel cappotto bicolore, che potrebbe essere stato indossato da “Lolò” mentre in gondola, a Venezia, scivolava misteriosa verso una delle feste di cui era protagonista.















Le maschere delle modelle, create da Stephen Jones, sono un omaggio a Peggy Guggenheim, che invitò Leonor nella sua mostra di 31 artiste donne del ’43. Ma sarebbero piaciute anche a lei, con quel tulle che sfuma i contorni del viso, ed evoca creature insondabili come le sue donne-gatto.

martedì 23 gennaio 2018

IL LIBRO

Vincere la pazzia, con il calcio totale del compagno Cruyff 






Un calcio e la torre di mattoncini che Marcello ha costruito col suo papà va in pezzi. Il bambino ha quattro anni e per la prima volta vede quel grande uomo a cui vuol bene, con cui ha giocato steso sul tappeto tutto il pomeriggio, compiere un gesto incomprensibile. Coglie il suo sguardo minaccioso e indecifrabile, avverte in lui una rabbia che non capisce ma di cui si sente in qualche modo responsabile. Un calcio sta all’inizio di questa storia, che è un racconto di malattia mentale, ma anche di vitalità, di cadute, di rabbia e di sopravvivenza. E i calci, anzi il calcio, la percorre tutta, una passione che Marcello condivide col padre e che diventa un codice per entrare nel suo disagio, per trovare nel corso di lunghi, tormentati anni, prima da bambino, poi da adolescente e da uomo maturo, un modo di comunicare. 

“La trappola del fuorigioco” è il libro, autobiografico, che Carlo Miccio ha scritto sulla sua esperienza di figlio in una famiglia attraversata, e spezzata, dalla sofferenza psichica. Edito da Alpha Beta Verlag nella collana “180 Archivio critico della Salute mentale” diretta dallo psichiatra Peppe Dell’Acqua, viene presentato venerdì 26 gennaio, alle 18, alla libreria Ubik, dall’autore insieme ad Anna Piccioni dell’associazione “Leggere per vivere”, Novella Comuzzi di “Articolo 32” e al giornalista Carlo Muscatello, con letture di Mariella Terragni. 



Carlo Miccio


Un racconto duro e toccante, che sfugge al perimetro della classificazione di letteratura della malattia, per vivere come storia a sè, di uomini che si incontrano, con le loro fragilità e le loro devianze, e trovano faticosamente un modo per parlarsi e conoscersi. Perché il racconto della vita di Marcello-Carlo, accanto a questo papà amato e sopportato, tra alti e bassi, l’assurdità dei gesti della sua sofferenza, le fissazioni e poi le esplosioni di generosità e di vitalità, riesce a parlare a tutti, al di là della patologia, a interrogarci sul nostro modo di fare squadra davanti alle sfide di ogni giorno. 


Pochi anni dopo quel primo calcio alla torretta dei lego, Marcello scopre la psicosi del padre Sebastiano. Da Latina, dove la famiglia abita, i due scendono in un paese della Sicilia per il funerale di una zia. E il 1975, l’anno della travolgente avanzata elettorale del Pci di Berlinguer. Per il padre la vittoria dei compagni è la molla scatenante di un disagio fino allora tenuto a bada dalle medicine, quelle misteriose pastiglie che la mamma ha raccomandato a Marcello di fargli prendere ogni sera. «Siamo undici milioni» gli dicono tre operai sul traghetto e nei suoi occhi si dipinge il terrore. I “rossi”, pensa, gli porteranno via le sue proprietà, bruceranno le chiese e spianeranno la strada a una società di senza dio.
Marcello non capisce, perché per lui il comunismo è quello che, qualche giorno dopo, il fratello di un amichetto dei cugini siciliani, segretario del locale Pci, gli spiegherà davanti a un campetto di calcio: è il metodo dell’Olanda del compagno Johan Cruyff, il gioco totale, la squadra che si muove compatta al centrocampo e vince perché riesce a fare sintesi del meglio di ogni giocatore. Un modulo fantastico, niente di cui aver paura. 




La paura, invece, è il problema di suo padre. Così un bambino di dieci anni si spiega quella strana sofferenza, quegli scoppi di urla, quei cambi di umore repentini: paura di qualcosa di immanente, di ingiusto e di cattivo, paura che prende le sembianze di chi gli sta intorno. Gliel’ha vista negli occhi sul traghetto, poi nella visita a sua madre, la strana nonna che puzza e fuma, da anni rinchiusa in manicomio, poi ancora in una discussione col fratello, lo zio Rocco, riparato in Francia perché – spiegano i cugini a Marcello – ha ammazzato un uomo di botte, senza un motivo, ed è finito in una galera-ospedale dove lo tenevano legato a un letto. «Papà dice che la nostra è una famiglia di pazzi», sintetizza la cugina Santina.
Passano gli anni e “la malattia di papà” prende un nome: depressione bipolare schizoaffettiva. Cominciano i ricoveri, le terapie che lasciano come zombie, gli sconquassi stagionali, i rientri a casa, in una famiglia dove mamma e figli vivono in uno stato di perenne allerta, nell’insicurezza di non riconoscere più l’uomo che vive accanto a loro, ma di doverlo difendere dalla cattiveria del mondo, da chi lo spenna a carte e si approfitta della sua confusione. Magari anche di doversi un giorno difendere da lui e dal suo male. 


Finché Marcello, ormai adolescente, legge su uno “speciale droghe” di Famiglia Cristiana che l’Lsd provoca nel cervello dei drogati lo stesso cortocircuito del cervello degli schizofrenici: allucinazioni e pensieri deliranti come quelli di un matto, che però svaniscono quando finisce l’effetto della droga. L’acido fa impazzire a tempo, insomma, e poi si torna indietro. E lui, più di tutto, vuole scoprire cosa succede nella testa di suo padre, vuole entrare in quella zona buia che non lo spaventa ma lo incuriosisce. E capire, finalmente. 


Passano gli anni, e anche i campionati di calcio, tra trattamenti tradizionali e trattamenti sanitari obbligatori. La famiglia nel frattempo si è divisa, Berlinguer è morto, il Milan è finito in B e risalito in A, per due volte consecutive. Quel che resta immutabile è la curva ciclica della malattia: il buio dell’inverno in camera, l’esuberanza gioviale in primavera, l’angoscia dell’estate, l’insonnia, le peregrinazioni notturne, la discarica della stazione Termini. È l’idea di essere soli a fronteggiare il mostro. 


Marcello si laurea a pieni voti, nonostante una tossicodipendenza ormai decennale, con una tesi sull’etnografo napoletano Ernesto De Martino. Ci si era imbattuto per caso, durante una lezione sulla religione dei popoli primitivi, in cui il professore parlava dei latah, persone che non possono fare a meno di ripetere compulsivamente il comportamento degli altri, che si spersonalizzano. Lui l’aveva visto fare a suo padre, durante una spedizione familiare alla Standa, quando Sebastiano si era messo a imitare i gesti di altri acquirenti, a camminare nei loro passi. “Me stai a cojonà? ” gli aveva detto uno. Si erano presi a pugni e il pomeriggio era finito con l’ambulanza e un ricovero immediato. 


De Martino aveva studiato le “tarantolate” dell’Italia meridionale, donne cadute in trance epilettica per il morso di un ragno, da cui venivano liberate con un esorcismo musicale collettivo. Ancora una volta Marcello si era imbattuto nel modulo del calcio totale, applicato alla psichiatria sociale: il rito serviva a difendere dalla follia l’intera comunità, minacciata dalla malattia di uno dei suoi componenti. Insieme la si affrontava, la si espelleva. 


È negli anni dopo la laurea che Marcello cade nella “trappola del fuorigioco”, come avrebbe detto Bruno Pizzul. Stagione 1992-’93, la Fiorentina, la squadra che ha sempre tifato, parte forte, ma retrocede in serie B. Retrocede anche lui, in qualche modo. Lo sballo tenuto sotto controllo durante l’università, diventa l’unica ragione per alzarsi dal letto. Gli manca una direzione che non sia quella di procurarsi la droga, ha paura di covare la stessa psicosi del padre. Ci vorrà un lungo percorso, e un confronto senza paura con uno psichiatra del Sert, per affrontare il problema, prima confessandolo alla madre e alla sorella, poi lasciando l’Italia e trasferendosi per anni a Londra. 


Oggi Marcello vive con suo padre, dopo un matrimonio finito, e lavora part time come mediatore culturale. I soldi sono pochi e il calcio totale è diventato un giocare a zona, ognuno copre la sua parte di campo e cerca di prendersi cura di sè. O un catenaccio. Un senso di fragilità accomuna padre e figlio, un’assenza di desiderio: Sebastiano fa i conti con la sua malattia, di cui per anni ha ignorato perfino il nome ( “bipolare, cosa vuol dire? ”, chiede al figlio dopo una visita medica), Marcello con la precarietà del quotidiano, con la povertà che assedia entrambi. 


L’unica risorsa è la speranza di cambiamento. L’impermanenza. E l’idea, chissà il sogno, che prima o poi il calcio totale del compagno Cruyff, il collettivo, si applichi alla malattia, al lavoro, al sociale. Magari non per vincere, solo per vivere meglio. Col pane e le rose, tutti quanti. 

@boria_a

martedì 16 gennaio 2018

MODA & MODI

L'Ultra Violet dei pensosi supereroi




Ci sentiamo Ultra Violet? La definizione suona come una corazza cromatica. Immancabile, a cavallo dell’anno, la pronuncia del signor Pantone, autorità americana nelle classificazioni del colore. Il 2018 si tinge di viola. Non quello del 2014, un ciclamino mix di rosa e fucsia, tutto positività ed effervescenza, ma una tonalità più inquietante e misteriosa. Ultra, spinge verso il blu, è la divisa di un supereroe di questi tempi, armato di energia ma consapevole della portata della sfida. L’entusiasmo del passato ripiega verso sfumature più mature. Ogni anno il responso di Pantone distilla il colore dagli indizi disseminati nelle capitali del mondo, che attraversano moda, design, arte, tempo libero, tecnologie, per sintetizzare uno stato d’animo planetario.

Responso enigmatico, quello del 2018, che al consumatore porge chiavi di lettura molteplici: “sfumatura di Viola provocatoria e riflessiva, in grado di comunicare originalità, ingenuità e un pensiero visionario che ci indica il futuro”. E ancora: la tinta degli individualisti, di chi vuole lasciare un segno del suo passaggio nel mondo.

Facciamo un passo indietro e sfogliamo la palette Pantone degli ultimi anni. 2014: il Radiant Orchid, rosa ciclamino, prometteva di infondere creatività e senso di benessere. Un anno dopo, nel prevalere dell’incertezza globale, si brindava col “Marsala”, nuance tra rosso e marrone, augurando sicurezza e stabilità. Contro crisi e stress montanti, nel 2016 avanzava l’accoppiata programmatica di Serenity e Rose Quartz, azzurro sfumato nel rosa mutandina, colori neonatali portatori di benessere interiore, da leggere anche come inclusione dei generi: maschile, femminile, in transito tra i due. 2017 crudele nel segno del Greenery, incrocio tra verde e giallo, inno all’energia rigenerante della natura. Una botta di vitalità, un’overdose cromatica che ha sortito l’effetto opposto: invece di galvanizzarci ci ha “sbattuto” a terra, gonfiando le svendite.


Quest’anno, dopo gli esiti altalenanti di tante iniezioni di coraggio, la presidente di Pantone, Leatrice Eiseman, si appella al potere dell’alchimia: nato dalla fusione di rosso e blu, colori degli schieramenti politici americani, il viola suggerisce di superare le divisioni in nome di un interesse superiore. Funzionerà, almeno oltreoceano? (perchè da noi, viste le sfumature, e solo per restare nel campo del rosso, la pozione sarebbe molto più complicata...). 

@boria_a

domenica 14 gennaio 2018

IL LIBRO

Dentro le stanze dell'addio

Non un monumento, ma un attraversamento. Non la celebrazione di una perdita, ma il percorso che ha condotto al distacco, con tutte le speranze, le rabbie, le remissioni, i precipizi, il limbo indefinito e nebuloso, quando sai ma ancora ti aggrappi, quando i medici parlano e tacciono, quando cominci quell’ultimo tratto che precede un addio. Quando tua moglie è un petalo e a farla volar via basta un soffio.
Yari Selvetella, giornalista e scrittore, in un’intervista radiofonica a Radio radicale, ha definito così, come un movimento “dentro”, “verso” qualcosa, l’accompagnamento nella malattia e poi la morte della sua giovane compagna, madre dei suoi tre figli, la saggista, critica, editor di Einaudi e Fazi Giovanna De Angelis, scomparsa a Roma nel 2013.





Oggi, a cinque anni di distanza, quando al lutto è stato dato un posto nella vita che va avanti, Selvetella guida il lettore nel suo congedo da Giovanna, attraverso “Le stanze dell’addio” (Bompiani, euro 15,00, pagg.185): la casa della famiglia, con le sue tracce di intimità domestica, una vacanza che lascia sulla pelle di quella giovane donna i primi segni della fine, poi il reparto con il suo odore di disinfettante, il carrello del vitto e i tanti libri ancora da esplorare, la rianimazione senza finestre, il labirinto bianco dell’ospedale, e, alla fine, il crematorio, l’acqua che trascina via il contenuto di un’urna di ceneri dietro l’altra, mischia le esistenze di sconosciuti, in uno scorrere e disperdersi che, nella sua igienica crudeltà, traccia una riga tra il prima e il dopo. Yari è lì, su quel crinale tra l’ossessione della perdita e l’energia di andare avanti, per i figli, per quello che la coppia ha costruito insieme. Ed è lì che si dipana il libro, dentro e fuori dalle stanze del dolore, tra il rifugio dei ricordi e la vitalità della rinascita.





Quando già stava male, Giovanna De Angelis scrisse “La frattura”, il suo unico romanzo uscito postumo (Elliot), in cui racconta la storia di Francesca, giovane traduttrice sposata a Cosimo e amante di Diego, nella cui vita irrompe la malattia: uno “schianto”, come si intitola una delle due parti in cui è suddiviso il romanzo, che rimette tutti i personaggi al loro posto, che smaschera gli inadeguati ad affrontare la lotta, che fa emergere «un improvviso bisogno di precisione, di parole esatte e pronunciate correttamente». Da qui, dalla necessità di termini diretti, chirurgici, che entrano dentro il dolore come un bisturi, senza slabbrature, per incidere e liberare, continuiamo a inoltrarci nella storia di Giovanna. Perchè anche Yari sceglie le parole con cura, in questo corpo a corpo con la morte. Sono due libri diversi ma non è un azzardo accostarli, leggerli come momenti dello stesso viaggio, una coppia in transito in una vicenda il cui finale e già scritto.


C’è un uomo con i baffi, l’alter ego di Yari, che torna e ritorna in ospedale a cercare la moglie, morta da tre anni. Si aggira in spazi che conosce eppure che gli sono estranei, sente gli odori, i bip delle flebo che finiscono, vede quei bozzoli tra le lenzuola. Dov’è sua moglie? La camera dove era ricoverata è vuota, lei non c’è più da molto tempo ma lui continua a riandare lì, di persona e col pensiero, domanda, aspetta fuori dalle porte, si perde, si nasconde, origlia.


In questo suo vagabondare cosciente e confuso insieme, incontra un altro uomo. È il giovane addetto al bar dell’ospedale, ha perso il padre e anche lui, col suo dolore, è rimasto impigliato in stanze che non gli appartengono più, dove si aggira da spettatore, vivendo una vita che non è sua.


Pagina dopo pagina, entriamo nelle assenze di entrambi, nei loro distacchi ancora impronunciabili, camminiamo sul confine tra il soprassalto del passato e un futuro al quale abbandonarsi. «Ma ora è il momento di provare a ritornare, di essere una persona sola», dice l’uomo coi baffi al ragazzo. E continua: «Così non è possibile. Tradisco non solo la mia vita, ma la sua, che era capace di non sprecarla, a qualsiasi costo, lei che ha insegnato soprattutto questo, a non arretrare, a non accomodare. Io devo andarmene, anzi dobbiamo tutti e due tornare al mondo».


Un libro mai consolatorio, anche quando il protagonista accetta di aprirsi a un nuovo amore. Di lasciare ancora scorrere la vita (e “scorrere” è uno dei verbi della malattia, dell’esame invasivo di una delle pagine più dolenti), perchè è l’unica vittoria sulla morte che abbiamo a disposizione.

@boria_a

mercoledì 10 gennaio 2018


IL PERSONAGGIO

Lifting alla dama misteriosa del Museo Sartorio 



Chi è la giovane dama, il cui ritratto verrà esposto dal 10 gennaio 2018, nel salone al piano terra del Museo Sartorio di Trieste? Ancora una volta, complice il recupero di un dipinto, storici dell’arte e restauratori si riconvertono in investigatori, e cercano di restituire non solo la bellezza originaria, ma l’identità a una figura femminile conservata sulla tela, che il tempo, e le vicissitudini della storia, hanno appannato.

Il 2018 è cominciato nel segno del rispetto delle donne. Scelta azzeccata, dunque, quella dell’Inner Wheel di Trieste, quando ha deciso di concentrarsi, tra i tanti dipinti della Quadreria dei Civici Musei di storia ed arte, duemila in tutto, di cui mille esposti nelle varie sedi, sul ritratto di un’aristocratica signora, la cui acconciatura e il busto erano da tempo intaccati dall’abbandono, e di finanziarne il restauro.


Oggi questa dama, tra i venti e i trent’anni, tornerà a mostrarsi in pubblico in tutto il suo splendore, con il prezioso abito a motivi floreali, le mani aggraziate che sfiorano una pianta e la pettinatura alla “fontange”, dal nome dell’amante di Luigi XIV, che lanciò la moda del merletto inamidato e plissettato per sostenere i capelli.
Chi è? Lorenza Resciniti, conservatore dei Civici Musei, si è messa sulle tracce di un’identità da ricostruire. Nel libro degli acquisti 1902-1938 conservato negli archivi, il direttore dell’epoca, Piero Sticotti, che vergava personalmente i documenti più importanti, riportava il 14 gennaio 1933 l’ingresso nelle collezioni di tre grandi ritratti a olio di gentildonne della casa Besenghi degli Ughi di Isola d’Istria, in cornice dell’epoca, pagati diecimila lire. Era più o meno un somma equivalente al prezzo di una Fiat Balilla 508, la prima auto per la massa. I quadri erano prima di proprietà di Giorgio de Marchi, di Servola, appassionato di opere e oggetti dell’area istriana, da cui, tra il 1915 e il 1933 i Musei acquistarono o ricevettero in dono altri pezzi antichi.


Cominciano i dubbi. Una verifica sulla genealogia, attesta che la signora non può essere una discendente diretta dei Besenghi. Abito e acconciatura sono databili tra il 1700 e il 1710, quando nessuna donna appare nella nobile famiglia. Chi è questa giovanissima dal sorriso enigmatico, le sopracciglia arcuate e gli orecchini a tre perle, caratteristici dell’oreficeria istriana, di cui anche le raccolte triestine conservato esemplari? Le ricerche portano a un’altra donna, Domenica Spiga, che nella famiglia potrebbe essere entrata per il matrimonio con Giovanni Pietro Besengo, nato a Venezia nel 1678 e nominato capitano civile e criminale di Piemonte d’Istria nel 1704 e nel 1727. Se di lei davvero si trattasse, sarebbe la bisnonna del letterato Pasquale Besenghi, nato a Isola d’Istria nel 1797 e morto a Trieste di colera nel 1849.


Ma il mistero che avvolge Domenica non finisce qui. Al Museo Civico del Parentino di Parenzo è conservato un altro ritratto di dama, di misure identiche, molto somigliante nel volto a Domenica, abbigliata in modo simile, con gli stessi pendenti e ricchi ornamenti di perle. Anche il gesto delle mani, nel suo manierismo, è uguale: la dama triestina coglie fiori, l’istriana porge all’occhio dell’ammiratore un medaglione con nastro. Sul quadro è riportata la scritta Bradamante Tarsia Carli MDCXV, 1615, ma la foggia dell’abito ci fa fare un salto nel tempo di almeno un secolo più tardi e il nome Bradamante non compare nell’albero genealogico dei Tarsia Carli, nè in altri documenti archivistici della famiglia.
Le due donne sono parenti? O è il pittore che le ha rese simili? Perchè, in questa storia di identità precarie, la mano dell’artista è certamente la stessa: un anonimo di area veneta attivo dalla fine del XVII secolo, con richiami a Sebastiano Bombelli, sebbene il quadro triestino appaia più raffinato, soprattutto nel cogliere il volto.




Perchè Domenica era così trascurata? Sempre sulla scorta delle ipotesi, è probabile che tutti e tre i ritratti acquistati da Sticotti fossero conservati nell’allora sede del Museo di Storia Patria, villa Basevi sul colle di San Vito, gravemente danneggiata dal bombardamento del 1944. Le deflagrazioni infransero i vetri delle finestre, distrussero il terzo dipinto, andato perduto, e rovinarono le cornici degli altri due, lacerando con le schegge di vetro anche l’elaborata acconciatura di Domenica.




 

Il lifting, su pelle ma anche su tela, è sempre un’operazione delicata e irta di incognite, ma la dama triestina ha potuto contare sull’assoluto rispetto della sua armonia, oltre che del suo gusto e stile. Se il nome di Domenica è ancora un’ipotesi, la pettinatura della gentildonna, arricchita da spilloni di forma floreale in pendant con l’abito, per un fortuito e fortunato gioco del destino, è in archivio. Nelle collezioni dei Civici Musei è stato rinvenuto infatti un disegno del dipinto, che lo scrittore Giuseppe Caprin commissionò al pittore Giulio de Franceschi per illustrare il suo libro, “L’Istria Nobilissima”, edito a Trieste nel 1907, quindi quando il quadro era ancora integro.


La sala al pianoterra del Museo Sartorio

Per tre mesi la restauratrice Carla Vlah, sotto la supervisione della Sovrintendenza, ha lavorato ai capelli e alla veste della signora: pulitura con solventi, stuccatura delle lacune con gesso di Bologna e colla di coniglio, impermeabilizzazione. Poi la parte più delicata: “rigatino” e “puntinatura” per riprodurre esattamente gli elementi mancanti della testa e della veste.



Particolare del ritratto di Domenica Spiga a restauro eseguito


Questa mattina, a solennizzare il riuscito makeover dell’effigie di Domenica, che ridona una sfumatura rosata alle guance e il candore alla generosa scollatura, ci saranno autorità e responsabili dei musei, oltre ad Anna Maria Cossutti, presidentessa del sodalizio che ha preferito, tra i tanti dipinti museali da soccorrere, questa antica e misteriosa bellezza in disgrazia. Anche lei, in qualche modo, vittima di un atto brutale.
@boria_a

mercoledì 3 gennaio 2018

IL LIBRO

 Un killer custodisce i fiori sopra l'inferno


Ilaria Tuti






Travenì è un paese immaginario incastonato nelle Dolomiti. Tutt’intorno panorami annichilenti, vette silenziose, distese di vegetazione scura e spessa che lasciano improvvisamente spazio alla durezza della pietra. Ma nelle case di quel piccolo centro niente è incontaminato. Un’atavica povertà, appena riscattata dal turismo nascente, ha lasciato tracce nel sangue e sul viso della gente. Nelle case si muovono ombre e si custodiscono segreti e la comunità si chiude a riccio contro ogni tentativo di scoprire i suoi fantasmi, che si muovono ai margini, sanno vedere al buio, e dominano l’ambiente con l’istinto delle bestie.


Travenì non esiste, ma Ilaria Tuti, che vive a Gemona del Friuli, sa restituire con grande forza nella scrittura un mondo che conosce bene, che ha respirato fin da piccola, reso fragile prima dalla violenza scatenante della natura, poi dal cambiamento sociale, che è un’intrusione controllata ma altrettanto invasiva. È qui, in questa geografia territoriale e umana piena di ferite e fratture, che si muove il commissario Teresa Battaglia, protagonista del thriller d’esordio di Tuti, “Fiori sopra l’inferno” (pagg. 350, euro 16,90), da oggi in libreria. Un doppio debutto al femminile, che ha convinto la casa editrice Longanesi, la stessa di un giallista come Donato Carrisi, autore di bestseller tradotti in tutto il mondo. Alla Fiera di Francoforte il giallo è stato un caso editoriale e i diritti sono stati venduti in più di venti paesi nel mondo.





“Ingabbanata” è il neologismo che l’autrice usa per presentarci la sua ispida detective, a cui sa regalare tratti in grado di distinguerla nell’affollato parterre degli investigatori italiani. Così, intabarrata e informe in mezzo alla neve, la vede il giovane ispettore Marini, appena arrivato dalla città a collaborare alle indagini su un omicidio ferino: l’ammazzato è un ingegnere di Travenì, sposato e padre di un bambino, a cui il killer ha strappato gli occhi con le unghie prima di abbandonarlo circondato da trappole rudimentali, perché gli animali non ne facciano scempio. Poco distante una sorta di spaventapasseri, vestito con gli abiti insanguinati del morto, un feticcio quasi infantile. Da questo strano “staging”, messa in scena inquietante, parte l’indagine.

Teresa ha sessant’anni, un corpo franante, e le maniere spicce di chi ha dovuto conquistarsi autorevolezza in un ambiente maschilista. È diabetica, talvolta la sua memoria e la sua lucidità si appannano e, come molti suoi colleghi letterari, custodisce un segreto del passato che però riesce a trasformare in empatia piuttosto che in cinismo, soprattutto se i suoi interlocutori sono bambini. E che prima degli altri le fa intuire non il raptus ma il percorso, gli abissi di solitudine, di abusi, di rifiuto che, da molto lontano, sfociano nel sangue. Gli orridi dell’individuo, uguali a quelli della natura in cui si rifugia.

Gli occhi. Non bastano al killer, che torna a colpire. Si accanisce su orecchie e naso di una seconda vittima, vuole impossessarsi dei sensi degli altri, anche se alla fine risparmia la vita. Ruba gli organi per ridarli a qualcuno che gli è caro e gli è stato portato via? Quale schema seguono le sue azioni?
Teresa e la sua squadra sbattono contro muri di riservatezza. Il paese si scopre violato e non solo dall’efferatezza del crimine. La natura, col suo scrigno di bellezze, arretra davanti all’avanzare degli impianti, delle piste da sci che sottraggono la terra alla sua secolare povertà, ma in qualche modo ne appannano l’identità, frugano nei suoi recessi, la lasciano disboscata e inerme, come i suoi abitanti. L’equilibrio si è rotto, fa fuggire a valle gli animali, stana gli uomini. 

Al centro del thriller ci sono i bambini di Travenì, gli unici che riescono a fare squadra e a difendersi l’un l’altro dall’anaffettività, le trascuratezze, le vere e proprie violenze degli adulti che li circondano. Solo con loro ha stabilito un contatto quell’uomo senza volto, che pare colpire al di fuori da ogni logica, che ha ucciso solo una volta ma si è accanito come un lupo sui volti delle altre vittime. E come se i bambini fossero suoi pari, ne conoscesse bisogni e fragilità, fosse abituato ad ascoltare i loro respiri e i loro pianti, e in lui suscitassero la necessità dell’accudimento.
È questa la parola chiave, il codice primario di comunicazione. Perché - senza togliere la suspense - sulla storia principale Ilaria Tuti ne innesta un’altra con al centro una misteriosa Scuola appena fuori il confine austriaco, dove a fine anni Settanta, sulla scorta di teorie psicanalitiche varate negli anni bui della seconda guerra mondiale, su piccole cavie si sperimentano metodi di crescita sinistri.

L’autrice è abile a cambiare repentinamente il punto di vista della narrazione, in modo da trascinare il lettore dagli scenari di indagine ai corridoi della Scuola, dove per tutti vige la regola del ”vedere, osservare, dimenticare”, fino ai nascondigli del torturatore, facendone annusare la paura e i bisogni, che sono quelli di una animale dominatore, sfuggito al suo aguzzino. E lei, il commissario Teresa Battaglia, alla fine riesce quasi a farci simpatizzare con il mostro, fiero e incontaminato, in qualche modo innocente, come si è tutti allo stadio in cui si è arrestato il suo sviluppo. Un bambino deprivato nel corpo di un guerriero, che - citando l’haiku del poeta giapponese Kobayashi Issa preso a prestito per il titolo - sente d’istinto di dover proteggere i fiori, per guardare oltre l’inferno a cui è sopravvissuto.

Un thriller teso fin quasi alla fine, quando la necessità di sciogliere e richiamare i tanti fili dell’intreccio si gioverebbe forse di un editing più serrato. Teresa Battaglia è un’antieroina così poco “maledetta”, che cattura il lettore e lo fidelizza per future altre indagini. E se oggi le ambientazioni di gialli e noir italiani tra neve e montagne non sono un’originalità, Ilaria Tuti sa far vibrare una natura che qui sentiamo particolarmente vicina, rendendola, a ogni riga, incombente protagonista.
@boria_a

MODA & MODI

Pink and Black, ironia e ipocrisia


Il rosa del “pussy power hat” che ha marciato in tutto il mondo contro il sessismo del presidente Trump. Il nero che le star, attrici e attori, hanno anticipato di voler indossare ai Golden Globe del 7 gennaio, per solidarietà con quanti, donne e uomini, hanno denunciato molestie e abusi a Hollywood. Questi due colori segnano il 2017 della moda. Che quest’anno, più forte che mai, ha fatto valere il suo potere comunicativo, la capacità di viralizzare semplici ma efficaci messaggi cromatici.

Rosa e nero, agli estremi di un’ideale palette, e non solo. Maria Grazia Chiuri, al debutto sulla passerella di Dior, nella coda del 2016 l’aveva anticipato: “Tutti dovremmo essere femministi” scriveva sulle t-shirt, citando il saggio della scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie per ricordare che niente è scontato e acquisito per sempre.
Con l’inizio dell’anno è esplosa la protesta delle gattine: a Washington una marea umana di berretti dalle orecchie feline è scesa in piazza, ma il movimento ha dilagato nel mondo, e a colpi di ferri da calza ha sbattuto in faccia a The Donald che le donne sono qualcosa di più, e di diverso, di un organo genitale, che le sue pussy hanno unghie.


Ora, dopo lo sconquasso del caso Weinstein e le denunce sugli abusi e i ricatti sessuali nella Mecca del cinema e nei templi della musica classica e della danza, le star annunciano la scelta di vestirsi di nero per le prime passerelle importanti del 2018, i Golden Globe ma anche i prossimi Oscar. Il colore del glamour per eccellenza si presta a rappresentare altri contenuti. Sul red carpet che vira in black, sfileranno in tanti nella loro griffatissima contrizione, a mostrare, nel primo appuntamento mediatico planetario dell’anno, rammarico per aver finto di non vedere e sapere, a testimoniare vicinanza alle vittime di pratiche così comuni da essere considerate normale pedaggio.


Rosa e nero, protesta e penitenza. Il 2017 si apre e chiude con due colori che si abbinano perfettamente nel segno del rispetto delle persone, al di là del genere. Simboli contro i predatori. Ma se il rosa ha un’ironia contagiosa, il lutto delle stelle trasuda ipocrisia. E per una volta stona.

@boria_a