mercoledì 28 febbraio 2018

MODA & MODI

Il flower power di Richard Quinn per la regina
 

Peccato che la scena se l’è rubata la regina Elisabetta, che alla veneranda età di 91 anni, mercoledì scorso alla London Fashion Week, ha assistito alla sua prima sfilata di moda, seduta accanto alla pitonessa Anna Wintour. Perchè la collezione di Richard Quinn, giovane e talentuoso designer britannico, avrebbe meritato tutti i titoli per sè, senza la distrazione di una presenza così ingombrante. Eppure la sovrana, più confettosa che mai in un tailleur “duck-egg blue”, leggasi verdeazzurrino, era lì apposta per lui, per consegnare il primo award di design intitolato a sè medesima a questo ventottenne ben piantato, berrettino da baseball e l’aria di maneggiare cacciaviti invece dei pennelli con cui dipinge personalmente i tessuti.

Richard Quinn ama le stampe fiorate e la sua passerella (da guardare: www.vogue.com/fashion-shows/fall-2018) ne è stata ricoperta, in un vortice di colori avvolgenti ed esplosivi. Fiori su fiori su fiori, dagli stivali-calza fino ai caschi da motociclista, dai piumini, ai mantelli, ai foulard aggiunti all’ultimo momento, una volta avuto notizia del premio, in omaggio ai gusti di sua maestà. Accostamenti bizzarri ma miracolosamente equilibrati, che il designer, diplomato nel 2016 al Central Saint Martins, sperimenta da anni e che portò a Trieste, a ITS 2015 (dove, con delusione visibile, se ne andò a mani vuote), facendo sfilare donne con busto e vita ben definiti, letteralmente sbocciate da gonne amplissime e materiche come tele da pittore. La collezione l’aveva intitolata “cracked couture”, moda spezzata, perchè nata dal taglio e dalla ricomposizione di modelli diversi.


Da allora Quinn è rimasto fedele a se stesso e alla sua ispirazione, ma l’ha resa più aerea e raffinata. Negli abiti, da giorno o da sera, il concetto di spezzato e ricostruito ha lasciato il posto a linee, incroci e plissettature che paiono prendere il vento, amplificando la figura e conferendole una sorta di gentile e scenografica autorevolezza. Lui dice di lavorare intorno al concetto del corpo come tessuto e di voler trasmettere l’idea di donne senza paura, che uniscono femminilità e potere. Un bel messaggio in vista del red carpet degli Oscar: qualcuna sceglierà di fare dell’abito un manifesto cromaticamente potente, gioioso, e dismettere il lutto del #metoo?

@boria_a


sabato 24 febbraio 2018

IL LIBRO

Ascoltare i fagioli e gli esseri umani





C’è una cucina dove non ci sono corse contro il tempo, concorrenti frenetici e giudici acidi che sentenziano ed eliminano. Una cucina lenta, dove si rispettano i tempi lunghi del sobbollire, del mescolare, dell’amalgamare. Dove l’ingrediente che arriva da lontano va “accolto” nel modo giusto, perchè ha fatto una lunga strada, e lentamente incorporato agli altri, per evitare rifiuti o disequilibri, quasi si trattasse di una persona sconosciuta da integrare in un gruppo già affiatato. Una cucina lontanissima dagli “incubi” e “inferni” televisivi, dallo strapotere degli chef-star, che al posto degli ordini urlati privilegia le parole, le spiegazioni e la trasmissione di saperi.

Per chi è stanco della catena di montaggio di masterchef, un libro delicato e intenso restituisce il piacere e la magia della preparazione di un piatto, metafora della conoscenza reciproca, dell’attitudine all’ascolto, della forza dell’amicizia contro i pregiudizi e le segregazioni.
Durian Sukegawa, nome d’arte di Tetsuya Sukegawa, è un poeta, scrittore e clown giapponese, con una laurea in Filosofia orientale e una in Pasticceria, conseguita all’Università della Pasticceria del Giappone. Questi interessi si fondono magistralmente ne “Le ricette della signora Tokue” (Einaudi, pagg. 180, euro 18,00), il suo primo libro tradotto in italiano, da cui è stato tratto un film diretto da Naomi Kawase e presentato al Festival di Cannes 2015. Il cuore della vicenda ruota intorno alla preparazione dei dorayaki, dolci tradizionali nipponici composti da due dischi di pandispagna che racchiudono l’an, una sorta di marmellata il cui ingrediente principale sono gli azuki, fagioli piccoli e rossi, che provengono da una pianta originaria dell’Asia orientale e dell’Himalaya.





Perchè al frustrato e infelice pasticciere Sentaro, che gestisce una piccola bottega chiamata Doraharu, questi dolci riescono così mediocri? Solo perchè li fa di malavoglia per accontentare una clientela di studentesse di poche pretese, con l’unica speranza di finire la giornata al più presto e di stordirsi di sakè? O perchè, arrivato alla mezza età e con un passato inconfessabile, si sente risucchiato dalla sua oscurità interiore e dal peso dei giorni sprecati, senza riuscire a confidarsi con nessuno? 


Mentre Sentaro vive per inerzia, un giorno, sotto il ciliegio davanti alla bottega, compare una vecchietta con le mani deformi e nodose, che insiste per essere assunta, e pure a uno stipendio risibile. L’uomo rifiuta, ma una volta assaggiato l’an della signora Tokue e aver visto il modo in cui la donna accarezza i fagioli e ne segue la cottura da vicino, sopra la pentola, col volto avvolto dal vapore, si lascia convincere. E la sua vita vuota cambia per sempre. «Si tratta - gli suggerisce l’anziana - di osservare bene l’aspetto degli azuki. Di aprirsi a ciò che hanno da dirci. Significa, per esempio, immaginare i giorni di pioggia e i giorni di sole che hanno vissuto. Ascoltare la storia del loro viaggio, dei venti che li hanno portati fino a noi».


Tokue, come Sentaro, custodisce un segreto. Entrambi sono stati rinchiusi, allontanati dagli altri. Ma, giorno dopo giorno, davanti alla piastra di cottura del piccolo locale, rispettando i tempi delle preparazioni ed esercitando la pazienza sugli impasti, i due cominceranno a parlare, a confidarsi, a costruire un’amicizia che, come un dolce, accompagnano con delicatezza e rispetto in ogni fase. «Essere all’ascolto», lo chiama Tokue: di tutti gli esseri viventi, ma anche dei raggi del sole e del vento, perchè ogni cosa, secondo l’anziana, ha il dono della parola. Va ascoltata anche Wakana, una studentessa introversa, con una famiglia spezzata, la prima a domandare una spiegazione per quelle strane mani rattrappite.


Tokue conosce il pregiudizio e l’isolamento da quando, a quattordici anni, una malattia terribile l’ha strappata alla sua famiglia e al suo paese, costringendola a vivere segregata insieme ad altri infetti, alla periferia di Tokyo. La donna è ormai guarita da anni, e l’ostracismo è stato bandito per legge, ma i segni sul suo corpo continuano a respingerla ai margini. Accade anche al negozio: quando le chiacchiere cominciano a circolare, scivola via leggera come i fiori di ciliegio sotto cui è apparsa.


Qual è la ricetta della serenità di Tokue? Sentaro e Wakana la scopriranno varcando la siepe di agrifoglio che circonda il quartiere dove l’anziana vive. Conosceranno la solidarietà, l’accudimento reciproco, la forza del sorriso che spezza qualsiasi incomunicabilità. L’«essere all’ascolto» che fa bene alla fusione, di ingredienti e anime. «Ecco perchè facevo i dolci: per nutrire tutte le persone che avevano accumulato lacrime. È così che anche io sono riuscita a vivere», scrive la donna nell’ultima lettera a Sentaro. L’eredità che gli lascia è preziosa: il segreto di un infuso di foglie di ciliegio, la memoria del paese da dove Tokue veniva, che è la chiave per riprendere in mano la sua vita.

@boria_a

venerdì 16 febbraio 2018

MODA

L'arte di Roberto Capucci trova casa nella dimora del  doge Manin









 


 I quasi cinquecento abiti dell’immenso archivio di Roberto Capucci, di proprietà della Fondazione che porta il suo nome, hanno finalmente trovato casa a Villa Manin di Passariano (Udine). Un trasloco complesso che, a oltre un anno di distanza dalla relativa legge regionale, può dirsi ultimato. Nella palazzina D dell’esedra di ponente, in quelli che originariamente erano locali di servizio alla dimora dogale e che poi hanno accolto la scuola di restauro, dell’ottobre scorso è custodito un pezzo di storia della moda italiana e la straordinaria avventura creativa di uno dei suoi più eclettici protagonisti.

Le due grandi sale al primo piano della palazzina sono diventate un magazzino di meraviglie di inventiva, design e tecnica sartoriale, un’esplosione di colori voraci, tropicali, di plissettature, volute, capitelli, ventagli, girandole di sete e organze. Sono abiti-scultura che hanno fatto il giro dei musei del mondo e ora, quasi tutti appesi e protetti da custodie di nylon, attenderanno la conclusione del restauro di Villa Manin, dove, a rotazione semestrale, verranno esposti permanentemente con mostre a tema. Tra le due sale, a fare da raccordo e quasi da anfitrione, un pezzo iconico: l’Angelo d’oro, del 1987, amplissimo e interamente plissettato, con un corpetto da cui si alzano pannelli a formare le ali.





È stato un trasferimento più lungo del previsto quello della Fondazione Capucci (www.fondazionerobertocapucci.com). Le opere tessili (come chiamare altrimenti “Oceano”, la scultura ideata per l’Expo universale di Lisbona 2000, in tutte le immaginabili sfumature del blu, ben 37, striscioline infinitesimali cucite una per una a mano per evocare la spuma marina, che ha richiesto mesi di lavoro?) sono arrivate da vari magazzini di Roma, dov’erano conservate prima del trasloco friulano, e dal museo Capucci a Palazzo Bardini di Firenze che, al contrario di quanto annunciato in un primo tempo, è stato chiuso.


L’archivio del designer, 87 anni, uno degli ultimi grandi maestri di una stagione irripetibile della moda italiana, ha dunque una nuova sede nella palazzina messa a disposizione gratuitamente dalla Regione, che, sulla base di una convenzione con la Fondazione, si impegna anche a collaborare nel riordino dei materiali, che verranno catalogati e digitalizzati. La Fondazione, a sua volta, metterà a disposizione il patrimonio e il prestigio del suo nome per iniziative espositive e culturali di richiamo.





 



Nelle intenzioni dell’assessore uscente, Gianni Torrenti, c’è la rivitalizzazione di Villa Manin, di cui la Fondazione Capucci dovrebbe diventare uno dei motori, innescando un circolo virtuoso tra tutte le realtà istituzionali del territorio che si occupano di moda e tessuti, ma anche diventando polo di attrazione per turisti e appassionati. Basti pensare ai numeri registrati dalla mostra “Capucci dionisiaco” a Palazzo Pitti di Firenze: dal 9 al 14 febbraio, durante Pitti Immagine Uomo, le grandi opere su carta raffiguranti costumi maschili per il palcoscenico, che lo stilista ha disegnato negli anni Novanta in assoluta riservatezza, hanno richiamato circa cinquantamila persone.


Enrico Minio Capucci, direttore della Fondazione Capucci


Nel prossimo futuro, dunque, ogni abito Capucci avrà la sua scheda tecnica e la sua storia espositiva in digitale, consultabile a richiesta da studenti e studiosi. «Mio zio - racconta Enrico Minio Capucci, direttore della Fondazione - ha tenuto tutto, ha raccolto qualsiasi tipo di documentazione sul suo lavoro. Adesso il materiale verrà ordinato con logica archivistica, ma la strada è segnata. Soltanto la rassegna stampa è imponente». E da questi materiali capita ancora che saltino fuori sorprese, come la lettera che Rita Levi Montalcini scrisse a Capucci per ringraziarlo di quell’abito nero col piccolo strascico che lui le disegnò per la cerimonia del Nobel nel 1986: «Al mio caro amico Roberto, che rappresenta la più alta espressione dell’arte e creatività italiana».







Gli ambienti della Fondazione si estendono su cinquecento metri. Al pianoterra, una sala è dedicata a foto, audiovisivi, slide, in tutto circa cinquantamila, di cui diecimila già digitalizzati. «Molto abbiamo già fatto noi - spiega Minio Capucci - ora ci darà una mano il Servizio di catalogazione della Regione. Stimiamo che ci voglia almeno un anno di lavoro per sistemare tutto». In un’altra sala adiacente è stato collocato l’archivio dei disegni, che registra numeri da capogiro. Sono ventiduemila i bozzetti che Capucci ha realizzato per ricavarne le sue collezioni, mentre ammontano a settantamila, ripartiti in cinquantadue libri, gli schizzi con soggetti e temi vari. Una volta fotografati, tutti i bozzetti, dal 1951 (l’anno in cui lo stilista debuttò, poco più che ventunenne, a Firenze) a oggi saranno visibili e consultabili in via informatica.


A questa raccolta si aggiungono le illustrazioni, ideate per esposizione o pubblicazione: 188 sono quelle incorniciate, alcune già a Villa Manin, altre nella casa romana di Capucci, dove sono conservati anche progetti per sculture, caricature, teatro, di sua esclusiva proprietà. Una raccolta iconografica in continua crescita. «Mio zio disegna ogni giorno - testimonia Minio Capucci - attualmente i suoi soggetti sono le Madonne».


Il primo “assaggio” espositivo è in programma a Villa Manin il 17 e 18 marzo 2018, in occasione della rassegna florovivaistica “I giardini del doge”, quando verrà inaugurata, forse dallo stesso Capucci, una mostra di suoi abiti ispirati a natura e fiori, che si potrà visitare fino a Pasqua. Ma i progetti sono tanti e riguardano non solo l’esposizione permanente dei pezzi della collezione, da proporre con nuovi strumenti multimediali che li rendano ugualmente fruibili e interessanti sia per il grande pubblico che per gli appassionati e ricercatori di storia della moda e dell’arte.


Le iniziative che la Fondazione vorrebbe avviare nella nuova sede puntano anche alla formazione dei giovani. «È nostra intenzione attivare dei master - anticipa Minio Capucci - in partnership con lo Iuav di Venezia, che è interessato alla collaborazione. Pensiamo, per esempio, alla fotografia di moda». Al primo piano della sede è stato già allestito uno studio con una grande piattaforma circolare nera, dove gli obiettivi degli studenti possono esercitarsi su invenzioni e dettagli. Infine, ci sono i progetti dedicati al maestro da altri contemporanei, come il musicista e videoartista Elio Martusciello, che ha scomposto gli abiti in un caleidoscopio: la Fondazione vorrebbe invitare anche loro a esporre a Villa Manin

L’operazione Capucci è idealmente partita nel 2004, dalla mostra di 110 creazioni a Palazzo Attems-Petzenstein di Gorizia, realizzata dall’allora sovrintendente Raffaella Sgubin, oggi direttrice del Servizio musei e archivi storici dell’Erpac, e seguita personalmente dal couturier, che negli anni ha intrecciato un rapporto affettuoso col Friuli Venezia Giulia, dov’è tornato spesso. Dodici anni dopo, nel novembre 2016, questo filo si è concretizzato in una legge regionale che, attraverso l’Erpac (l’Ente regionale patrimonio culturale, diretto da Gabriella Lugarà) garantisce una sede di prestigio alla raccolta, per una permanenza minima di cinque anni.



Roberto Capucci fotografato da F. Niccoli



Alla Fondazione - il cui archivio, inalienabile, è stato dichiarato dal Ministero di particolare interesse storico - - oggi lavorano a tempo pieno Enrico Minio Capucci e suo figlio Alvise: per statuto, la direzione dell’ente deve essere sempre nelle mani di un componente della famiglia. Che custodisce un valore materiale, solo per quanto riguarda le opere tessili, di dieci milioni di euro. E un’eredità storica, artistica, culturale, incalcolabile.

@boria_a

martedì 13 febbraio 2018

MODA & MODI

Operazione tarocco griffato





Quanto conta ancora il logo? Un curioso esperimento commerciale della Diesel fa riflettere sul potere che i brand esibiti continuano a esercitare sugli acquirenti. Qualche giorno fa, nella settimana della moda di New York, il marchio di Renzo Rosso ha segretamente aperto in Canal Street a New York, eldorado del tarocco, un negozio dove si vendono prodotti “Deisel”, scambiando un paio di lettere dell’originale ma con lo stesso “font”, come spesso fanno i contraffattori per mettersi al riparo dalle persecuzioni legali. Marketing diabolico: i pezzi erano imitazioni ma originali quanto l’originale, tutti creati dai designer di Diesel, camuffati con finta etichetta e logo pasticciato.

Il nuovo “negozio” è identico a quelli vicini, con le magliette a buon mercato, o palesemente finte, che penzolano dagli attaccapanni. E i commessi utilizzano le stesse tecniche persuasive di vendita, una sorta di pittoresco butta-dentro per assicurarsi ”real Deisel” a “twenty bucks”, venti dollari.
Increduli e diffidenti, i compratori (video su youtube), cellulare alla mano, si lanciano nello spelling di “diesel” per smascherare l’inganno delle vocali scambiate, ma alla fine, vinti dalla convenienza, se ne vanno con jeans e t-shirt “deisel”. Logo finto ma produzione Diesel al cento per cento (che costa, per ogni capo, almeno dieci volte tanto).


Che senso ha l’operazione? Il brand dice di aver voluto giocare con i suoi fan, «incoraggiandoli a sentirsi liberi di vestire come vogliono». È il momento di celebrare quelli che con “venti bucks”, come canta il rapper Macklemore nel video Thrift Shop, “fanno grandi acquisti, alla ricerca di un risultato fottutamente meraviglioso”. I loghi altrui rifatti in versione deluxe negli ultimi tempi sono stati appannaggio del fiuto commercial-creativo del georgiano Demna Gvasalia, che è riuscito a far sborsare oltre duemila euro per una borsa Balenciaga che citava l’iconica Frakta dell’Ikea (60 centesimi) e più di duecento euro per una t-shirt quasi identica a quella dei corrieri di Dhl ma firmata Vetements. Diesel si spinge più in là: si cita con errore creando un falso autentico che si potrà tra poco acquistare sul suo sito, naturalmente in edizione “molto limitata”, o online, se qualcuno degli inconsapevoli acquirenti del “deisel diesel” deciderà di rivendere il capo (e non certo, supponiamo, a venti bucks).


Resta un dubbio. Ma qual è la “libertà” nel vestire lasciata ai fan del brand? Dal video sembra solo che i clienti abbiano scelto, un po’ rassegnati, la merce più simile a quella che non si possono permettere. Nessuna “de-loghizzazione”, anzi, un logo in più.

@boria_a

sabato 10 febbraio 2018

LO SPETTACOLO

Sunset Boulevard, divina Norma








Uno spettacolo magnifico sulla magnifica ossessione dello spettacolo. Quando Norma Desmond, diva del muto caduta nell’oblio, torna sul set e, avvolta dalla luce di un riflettore, canta we gave the world new ways to dream, abbiamo dato al mondo nuovi modi per sognare, la macchina da presa comincia a girare sotto i nostri occhi, incessante e crudele creatrice di illusioni e di dipendenze. Siamo improvvisamente lì, negli studi della Paramount, al centro del set dove il grande regista Cecil B. De Mille sta lavorando, tra concitazione e frenesia della nuova Hollywood che nasce. Norma incede maestosa nel suo tailleur nero glitterato, e intonando il pezzo più celebre, “As if we never said goodbye”, accende il teatro col fuoco che la divora, la smania di tornare protagonista di un mondo che ormai ha voltato pagina, confinandola nel passato.






È “Sunset Boulevard”, il musical di Andrew Lloyd Webber, scritto da Don Black e Christopher Hampton, che sarà in scena al Politeama Rossetti di Trieste (www.ilrossetti.it), in esclusiva nazionale dal 21 al 25 marzo 2018 (sabato e domenica anche in pomeridiana, alle 16, prevendite già aperte), con un’emozionante Ria Jones nei panni di Norma Desmond.


La cantante era stata scelta proprio da Webber, quando cominciò a provare la sua opera nel 1991, ma all’epoca era troppo giovane per interpretare i tormenti e la follia di Norma. L’anno scorso un’occasione le restituisce la parte, quando Glenn Close, in cartellone al London Coliseum, si ammala, e Jones viene chiamata a sostituirla da un giorno all’altro. Glenn Close aveva già interpretato Norma nell’edizione americana del musical, a Los Angeles nel 1993 e poi a Broadway nel ’94, dove lo spettacolo vinse sette Tony Award, compreso quello per la miglior attrice protagonista, e staccò oltre un milione di biglietti.











 


Comprensibile, quindi, la prima reazione del pubblico del West End alla notizia della sostituzione della protagonista. Accolta da sonori malumori del pubblico che per sentir cantare Glenn Close aveva pagato anche più di cento sterline, al termine della rappresentazione Ria Jones riceve una lunghissima standing ovation (documentata su youtube), per l’interpretazione intensa di tutti i registri del personaggio: la disperazione, la tirannia, la malinconia, la passione, l’egoismo e la megalomania, l'ironia e la tenerezza, fino alla demenza. 


Quella che arriverà a Trieste è la produzione originale inglese, che poi volerà al Koninklijk Theater Carré di Amsterdam. Venti attori in scena per dar vita a quarantacinque personaggi, diciassette musicisti (uno dei più numerosi complessi in tour) diretti da Adrian Kirk che eseguono partiture riorchestrate, originariamente scritte per quarantasei, dieci chilometri di cavi sul palco, seicento costumi fatti a mano ed elaborate parrucche, da 2000 sterline l’una, che ogni sera vengono ripettinate e messe in forma con cura certosina (tre addette solo per loro).





In tutto una macchina da cento persone al lavoro per ricreare la magia e la crudeltà dello star system colto in un momento epocale, il passaggio dal muto al nuovo cinema industriale, a una tecnologia che cancella, o ridicolizza, le vecchie star. «Con un solo sguardo», canta Norma all’inizio dello spettacolo, scendendo la scalinata della sua magione, decadente come una scenografia abbandonata, «incendio lo schermo, nessuna parola può raccontare le storie che raccontano i miei occhi»: è lo strazio della divina che non si rassegna alla fine del suo mito. Sulle quinte scorrono le immagini dei “silent movies”, quando labbra, occhi, sguardi e sorrisi dilagavano sullo schermo. Lei è rimasta cristallizzata in quei primi piani, con il suo trucco pesante, i turbanti e le architetture di piume, gli strass e l’animalier, i kimono da primadonna che esce dalla sala trucco, offrendosi ai riflettori per il primo piano (Alright, Mr. De Mille, I'm ready for my close-up).





Il musical ripercorre in tutto la trama del celebre film di Billy Wilder con Gloria Swanson del 1950, in Italia “Il viale del tramonto”. Terrorizzata dall’oblio, Norma intrappola nel suo disegno il giovane e squattrinato sceneggiatore Joe Gillis (a Trieste sarà l’aitante Danny Mac, che strappa applausi da pettorali quando, in boxer a bordo piscina, all’inizio del secondo atto canta il brano del titolo, Sunset Boulevard), coinvolgendolo nel suo progetto di scrivere un testo, “Salomé”, per il suo ritorno in scena (non un “comeback”, ma un glorioso “return”).





Prima collaboratore presto toyboy (e non c’è qualcosa di contemporaneo in questi meccanismi?), Gillis si trasferisce nel castello dell’attrice, dove il maggiordomo Max, in realtà il suo primo marito, ne custodisce con devozione memorie e memorabilia. Lo interpreta l'imponente Adam Pearce, quasi un Lurch della famiglia Addams, la cui estensione vocale, dai toni più profondi agli acuti senza falsetto, lascia a bocca aperta negli assoli.


La scena è sempre un set, con le posizioni degli attori ben segnate sul pavimento e le grandi luci anni Trenta appese alle quinte. Norma scende le scale, incorniciate da tende che sembrano un pesantissimo sipario, e si muove nella sua casa seguita da una macchina da presa, come i ricordi che la perseguitano. Per spostarsi dal castello alla Paramount, Gillis si siede dentro una sagoma di auto mossa freneticamente a mano da figure nell’ombra, e completa solo dalla parte funzionale alla cinepresa. Per precisa scelta registica, il cinema è ossessione perenne.




La comodità della nuova vita e la pietà per l’attrice in disarmo non basteranno a trattenere il giovanotto, che si innamora di Molly, coetanea degli Studios, e decide di rompere la prigionia in cui è stato ridotto (lei, Betty Schaefer, ha una voce luminosa e i loro duetti ritmati e caramellosi si scalpellano in testa, restandoci per giorni). La vicenda, da qui, è un crescendo verso la tragedia. Dopo il patetico ritorno di Norma sul set, frutto di un equivoco, la donna rivela al telefono a Molly la doppia vita del suo amore e quando Gillis sta per lasciare lei e la sua dimora una volta per tutte, lo ammazza con un colpo di pistola.


Spettacolare, nell’ultimo quadro, l’uscita di scena di Norma, che ormai folle e scarmigliata, con le labbra livide senza più rossetto, scende le scale e va incontro a poliziotti e giornalisti credendoli assiepati per celebrare la sua rentrée, mentre Max, seduto sugli scalini, cerca fino all’ultimo di difenderla da se stessa e dai suoi fantasmi.


Il pezzo “The final scene” fa calare il sipario sul lato oscuro e disturbante dell’industria dello spettacolo: il cinismo con cui crea e distrugge i suoi miti, la tossicità della fama, la dipendenza dal mondo dell’immagine, i compromessi che pretende. La musica di Lloyd Webber è splendida e senza tempo, la storia di “Sunset Boulevard”, riletta alla luce delle quotidiane cronache da Hollywood (e non solo), ancora potentemente attuale.

boria_a

domenica 4 febbraio 2018

 IL LIBRO

Se il figlio prediletto è "ricchjuni"







Sono passati vent’anni ma “ricchjiuni futtuti” e “pputtane” per i calabresi Lo Cascio sono sempre un’onta da lavare, anche col sangue. È il 1970: il giovane Nunzio Lo Cascio, riccioluto talento del calcio, viene sorpreso in auto con un altro uomo. La spedizione punitiva di tre incappucciati si accanisce senza pietà su Nuccio, il compagno di squadra che ama segretamente da due mesi, e lo ammazza a bastonate sotto i suoi occhi, abbandonandone il corpo in aperta campagna.

1990: Annina, la nipote di Nunzio, che sogna di fare teatro, compie diciott’anni in un audace vestito rosso con spacco fino alle cosce. Nulla è cambiato nella famiglia feroce e chiusa dei Lo Cascio, dove il capofamiglia Santino, fratello di Nunzio, che vende pesce in tutto l’Aspromonte e ha rapporti con la ’ndrangheta, cerca di ridurre la ragazza ribelle a una “fimmina” di casa, ovvero domata e invisibile, arrivando a segregarla seminuda in una masseria. Ma c’è un possibile marito da agganciare, e davanti alla sua Ferrari rossa e agli ammanicamenti criminali importanti, Annina diventa merce da esporre nell’involucro più vistoso, con buona pace dei pettegolezzi di paese.


Un filo tenace intreccia le vicende dello zio omosessuale e della nipote ribelle nel libro “Il figlio prediletto” di Angela Nanetti (Neri Pozza, pagg. 232, euro 16,50) autrice di romanzi per ragazzi pluripremiata e tradotta in venticinque paesi, che si misura ora con una storia adulta, dolorosa e crudele, di ricerca della felicità. Una storia che si rincorre negli anni, da Londra, la città in cui la famiglia ha spedito in tutta fretta Nunzio, schiantato dal dolore e dall’orrore (forse ha intuito da subito chi ha giustiziato il suo uomo...), e Milano, dove Annina riesce finalmente a scappare per rincorrere il sogno dello spettacolo.


 
Angela Nanetti


 

Sulla copertina, il profilo angelico di un ragazzo dai capelli morbidi, quasi il Timothée Chalamet di “Chiamami col tuo nome” di Luca Guadagnino. La vicenda di Nunzio, infatti, e del suo tormentato percorso per superare il trauma della morte di Nuccio e lasciarsi alle spalle per sempre una condizione vissuta con vergogna, per diventare uomo libero a tutto tondo e non solo gay dichiarato, è lungo e costellato da incontri importanti. Una sorta di formazione, di alfabetizzazione sentimentale e sessuale.

Con Thomas, il giovane di sangue blu che ha rinnegato la famiglia per abbracciare il comunismo, Nunzio comincia ad aprirsi, a raccontare della violenza del passato e della solitudine del presente. È un primo passo, ma il suo interlocutore, ambiguo e inafferrabile (come la sua sessualità), non può diventare un compagno di vita. Nè amante nè amico cameratesco, gode di un’educazione privilegiata che gli ha insegnato l’arte di ascoltare, se non di empatizzare. Forse proprio per questo, durante lunghe passeggiate nei luoghi londinesi di Marx, Nunzio riesce a liberarsi dai sensi di colpa e a guardare senza sofferenza quello che è.


Seguiranno altri incontri maschili, in una sorta di frenetica bulimia sessuale, fino all’ultimo con il fotografo Funny, amante e pigmalione. La felicità di riuscire a definirsi senza più vergona, lo spinge a chiamare casa, a parlare con la madre Carmela, rocciosa nel suo amore per quel figlio perduto, che non vuol tornare. Lui promette, lei vivo non lo rivedrà più.


Carmela è personaggio defilato eppure centrale, il perno delle vicende dei consanguinei. Coriacea e manipolatrice. Odia la nuora, la madre di Annina, alla quale imputa l’esigua discendenza del figlio Santino. Di lui conosce la brutalità (come di Nunzio la diversità), e probabilmente la parte avuta nella partenza del fratello, ma nè lo condanna nè lo allontana, anche se il lettore intuisce che sarebbe “fimmina” con la forza di imporsi. Un unico obiettivo la divora, ritrovare tracce di Nunzio, e alla sua testarda e inesausta ricerca del figlio prediletto piega senza scrupoli l’inconsapevole nipote Annina, favorendone la fuga da casa, sotto gli occhi del padre Santino.


Non si può dire di più senza svelare la trama. Che ha felici intuizioni nel tratteggiare i personaggi maschili, nonostante una certa ripetitività di situazioni inceppi il processo di liberazione del protagonista. Più sbiadite le donne, inclusa Annina, l’unica che parla in prima persona. Fa eccezione la matriarca. «E chistu Funny chi è? Nu ricchjiuni pure lui? E a Nunzio gli voleva bene?», insiste Carmela. Ricevuta la rassicurazione della nipote, con una battuta restituisce un paese, un universo di relazioni: «Tuo nonno non mi disse mai che mi voleva bene, per fottere non serviva».

@boria_a